Spesso mi capita di leggere nella stampa cattolica articoli sul grande problema, cosiddetto ecumenico, e dei passi che sono stati fatti e si fanno per arrivare a unire i separati e formare una sola unità cristiana in un solo ovile con un solo pastore.
Noi, cattolici che viviamo in Grecia, in un paese di religione cristiana mista e che ogni giorno viviamo il problema in prima persona nella sua dolorosa realtà, siamo contenti per tutte le iniziative che si intraprendono per realizzare l’unità, ma ci lascia perplessi l’ottimismo con il quale alcuni parlano o scrivono, come se il risultato sospirato fosse molto vicino. Tutto questo ci lascia perplessi, perché non vediamo finora una Chiesa (compresa la Chiesa cattolica) fare un passo decisivo ed efficace che acceleri la soluzione del problema e arrivare a vedere i cristiani uniti.
Addirittura pochi giorni fa (1° aprile 2017), su Newsletter Agensir, leggevo un’affermazione del sottosegretario del Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani che diceva che, nel cammino ecumenico, «viviamo una rinnovata primavera».
La Chiesa cattolica, nel desiderio di arrivare al traguardo dell’unione dei cristiani, percorre due strade: la via della carità che, a livello mondiale, rende effettiva per mezzo del Pontificio consiglio per l’unione dei cristiani, con scambi di visite e di messaggi con le altre Chiese, con premurosi atti di offerta di aiuto (per es., chiese cattoliche messe a disposizione dei nostri fratelli non cattolici nei vari paesi del mondo ecc…). Tutta l’azione del Pontificio consiglio è servita al cambiamento del clima nelle relazioni con tutti i nostri fratelli che non appartengono alla Chiesa cattolica. Lo riconosciamo. Ma un passo che tolga gli intralci in cinquant’anni non l’abbiamo ancora visto.
La seconda via che percorre la Chiesa cattolica, ormai da 37 anni, continuando un cammino faticoso, è quella della verità, mediante la Commissione mista del dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa, o con altre commissioni per le altre Chiese o comunità cristiane.
Noi vescovi che viviamo in Grecia, già 20 anni fa abbiamo proposto a papa Giovanni Paolo II (in risposta all’enciclica Ut unum sint, numeri 95 e 96), che prenda in considerazione una terza via, più facile e più efficace: la strada della purificazione di certe prassi e strutture della Chiesa cattolica che intralciano il cammino verso l’unione e la piena comunione dei cristiani.
Questa terza via non esclude le altre due, anzi le agevola ed è più facile.
È più facile, perché non tocca il deposito delle verità della fede, quindi non incontrerà difficoltà da parte di quei cattolici che si sentono, più del papa, “custodi del deposito della fede” (!!!), e poi non ha bisogno di intese con altri, dal momento che riguarda la purificazione delle strutture della Chiesa cattolica.
È più efficace, perché le altre Chiese vedranno che la Chiesa cattolica prende di fatto delle iniziative per liberare la strada dagli ostacoli che rendono difficile il cammino verso l’unione dei cristiani. Del resto, siamo convinti che, oltre ai ben noti motivi storici e psicologici che hanno condotto i cristiani prima ad estraniarsi e in seguito a separarsi, esistono serie ragioni di ordine ecclesiologico che contribuiscono a tenere tuttora separati i cristiani.
Questa proposta è frutto della nostra esperienza di pastori, un’esperienza pluridecennale, vissuta in un contesto ortodosso dove la Chiesa cattolica è fortemente minoritaria.
Ripeto, è un tema che non tocca il deposito della fede della Chiesa cattolica, anzi corregge nella pratica quello che in teoria la Chiesa cattolica insegna. È ciò che i fratelli ortodossi aspettano. Infatti, dobbiamo fare attenzione alla dichiarazione di Ilarion, presidente del Dipartimento delle relazioni estere del patriarcato di Mosca, personalità di spicco e influente in quel patriarcato. In un testo redatto con il card. Koch egli dichiara: «Noi non riconosciamo il primato del papa, almeno nella forma come è oggi». Sottolineo: «almeno nella forma come è oggi». Questa affermazione fa pensare che riconoscerebbero il primato del papa se la forma del primato fosse quella evangelica: il papa servus servorum Dei e coniugata con la sinodalità.
Noi, vescovi della Chiesa cattolica in Grecia, abbiamo proposto questa terza via, già a papa Giovani Paolo II, mossi solamente dal desiderio di contribuire al difficile cammino per ristabilire la comunione ecclesiale tra tutti i cristiani, spinti anche dalla nostra quotidiana esperienza pastorale e dalla sofferenza derivante nel vivere in prima persona il dramma della separazione. Del resto, quello che proponiamo è ispirato dall’insegnamento pontificio, dallo spirito dell’ecclesiologia del Vaticano II e anche dalle sensibilità dei nostri fratelli ortodossi che noi conosciamo piuttosto bene.
Osservazioni di ordine generale
Discrepanza tra teoria e prassi
Notiamo che esiste una certa discrepanza tra i principi ecclesiologici enunciati nel concilio Vaticano II e nei documenti degli ultimi pontefici e la prassi e la mentalità della Chiesa cattolica riguardo al primato. I nostri fratelli ortodossi hanno l’impressione – e ce lo dicono chiaramente – che i documenti ufficiali sono molto buoni; questi, però, spesso sono contraddetti dalla prassi. Ecco alcuni esempi:
1. Principio di comunione
Il concilio Vaticano II e i documenti pontifici degli ultimi anni si ispirano ad un’ecclesiologia basata sul principio sacramentale di comunione. In pratica, però, si agisce ancora, in molte circostanze, ispirati da un’ecclesiologia piramidale e giuridica. Anzi, in alcuni casi, si cerca di svuotare lo stesso concetto di comunione inserendolo dentro schemi puramente giuridici, come nel caso della Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica su alcuni aspetti della Chiesa intesa come comunione della Congregazione per la dottrina della fede di alcuni anni fa. Questo documento aveva fatto una penosa impressione ai nostri fratelli ortodossi i quali parlano di uno spirito di «“restaurazione” della curia romana».
2. Chiese orientali
Nei documenti ufficiali si parla della dignità e dell’autonomia delle Chiese orientali.
Il decreto Orientalium Ecclesiarum del Vaticano II dice: «La Chiesa cattolica ha in grande stima le istituzioni, i riti liturgici, le tradizioni ecclesiastiche e la disciplina della vita cristiana delle Chiese orientali. In esse, infatti, essendo illustri di veneranda antichità, risplende la tradizione che deriva dagli apostoli attraverso i Padri e che costituisce parte del patrimonio divinamente rivelato e indiviso della Chiesa universale» (OE 1).
Nonostante i grandi sforzi fatti dalla Congregazione per le Chiese orientali in questa direzione, in pratica si ha l’impressione che queste Chiese siano trattate come dei parenti poveri della Chiesa romana-latina. Così, per esempio, si inneggia al celibato del clero latino e si “tollera” il matrimonio dei preti delle Chiese orientali (CCEO 373).
3. I patriarcati
L’antichissima istituzione dei patriarcati, con la loro tipica struttura sinodale, è inserita dentro una logica latina: i patriarchi vengono creati cardinali di “santa romana Chiesa”, come se il cardinalato fosse superiore all’istituzione patriarcale. Si deve pensare che i patriarchi orientali «presiedono come padri e capi le loro Chiese» (OE 9). La “promozione” al cardinalato ribadisce la loro “sudditanza al vescovo di Roma”. Nella Chiesa primitiva vi erano cinque patriarchi. Il vescovo di Roma, sebbene fosse il primo, era uno di loro. Tutti erano considerati padri e pastori della loro Chiesa.
Da notare anche che il cardinale nominato prefetto della Congregazione per le Chiese orientali si considera, o viene considerato, il superiore da cui dipendono i patriarchi e i patriarcati. Questo fatto è indice di una mentalità non del tutto scomparsa, che tende a far prevalere la sensibilità latina sulla tradizione delle altre Chiese.
Questi e altri fatti forniscono le ragioni ai nostri fratelli ortodossi per criticare l’esistenza delle Chiese orientali dentro l’ambito di una “Chiesa latina” che dà l’impressione di voler assorbire anche le Chiese orientali (non cattoliche).
4. I vescovi nunzi
Nei documenti ufficiali si parla della dignità dei vescovi, successori degli apostoli e pastori della Chiesa. In pratica, in alcuni casi, il sacramento della pienezza del sacerdozio si usa come “ornamento” e come titolo di prestigio per cariche diplomatiche, vedi il caso dei nunzi apostolici. È difficile per noi spiegare agli ortodossi il rapporto tra nunzi e apostolicità, tra diplomazia ed episcopato. Del resto, risulta difficile per noi stessi, vescovi della Chiesa cattolica, capire la funzione del nunzio. In base alla pratica e anche al diritto canonico (can. 362-367), pare che il nunzio sia considerato il superiore dei vescovi della nazione dove è accreditato; egli appare in verità come un super-vescovo.
Secondo il can. 364, il compito principale del nunzio è quello di rendere sempre più saldi ed efficaci i vincoli di unità che intercorrono tra la Santa Sede e le Chiese particolari. La nostra esperienza ci dice, però, che la presenza del nunzio in una nazione rende le nostre relazioni con la Santa Sede indirette e impersonali, essendo esse filtrate e mediate dal nunzio.
5. Le conferenze episcopali
Il decreto Christus Dominus, al capitolo III, raccomanda vivamente che le conferenze episcopali prendano nuovo vigore. Mentre il Codice di diritto canonico limita le competenze della conferenza episcopale, per es., quando esige che le decisioni della conferenza – che obbligano tutti i vescovi che ne fanno parte – abbiano il beneplacito della Santa Sede.
Tutte queste discrepanze tra teoria e prassi sono note ai nostri fratelli ortodossi e questo fa sì che la Chiesa cattolica sia poco credibile ai loro occhi. Non prendono sul serio il suo insegnamento sulla Chiesa comunione, sull’ecumenismo, sulla sinodalità, sul rispetto e l’autonomia delle Chiese orientali. Ecco perché oggi l’ecumenismo attraversa una crisi seria, nonostante gli sforzi degli ultimi sommi pontefici. Altro che una rinnovata primavera!
Osservazioni specifiche sul primato del vescovo di Roma
A contatto con la Chiesa ortodossa, ci siamo sempre più convinti, da una parte, della necessità provvidenziale del servizio petrino e, dall’altra, della necessità che esso sia esercitato dentro un contesto più “ecclesiale” e comunionale.
A prescindere, infatti, dalle prove biblico-storico-teologiche, ci siamo convinti della necessità del servizio petrino quando assistiamo all’incapacità delle Chiese ortodosse di muoversi in maniera collettiva (si pensi al Sinodo panortodosso tenutosi a Creta nel giugno dell’anno scorso) o quando esse perdono la loro dimensione universale e diventano “Chiese nazionali”, identificate con l’etnia e gli interessi momentanei della nazione.
Noi cattolici che viviamo in Grecia siamo grati al Signore di appartenere alla Chiesa cattolica e di usufruire del carisma concesso dal Signore al vescovo di Roma che garantisce l’unità e l’universalità esterna della Chiesa (quella interna è garantita dallo Spirito Santo).
Nello stesso tempo, però, sempre mossi dalla nostra esperienza di vescovi che esercitano il loro servizio pastorale dentro un contesto di tradizione ortodossa, vorremmo far presenti alcuni suggerimenti che potrebbero rendere il servizio papale più comprensibile e accettabile dai nostri fratelli ortodossi.
Ricupero della collegialità o della sinodalità
Bisogna trovare i modi pratici affinché il primato del vescovo di Roma sia esercitato in armonia con la collegialità dei vescovi senza umiliare nessuno di questi due aspetti che appartengono ambedue alla struttura gerarchica della Chiesa. lo sforzo della Chiesa cattolica dovrebbe essere quello di fare sintesi tra primato e collegialità. Il collegio episcopale viene rafforzato dal primato del vescovo di Roma e il primato del vescovo di Roma viene rafforzato dalla collegialità dei vescovi.
Noi abbiamo l’impressione, però, che, nel corso del secondo millennio, per ragioni storiche, il papato abbia assorbito quasi completamente l’elemento collegiale dell’episcopato e il vescovo di Roma sia diventato un super-vescovo della Chiesa nella sua totalità. Ciò era ignoto nel corso del primo millennio, soprattutto nel cristianesimo orientale che regolava i fatti interni in maniera autonoma.
È vero che il concilio Vaticano II (LG 22 e CD 4) dichiara espressamente che la collegialità è esercitata in modo solenne nel concilio ecumenico; questo, però, è un evento molto raro. Crediamo che la collegialità debba essere esercitata anche in tempi ordinari. Ecco alcuni suggerimenti.
Il ruolo della curia romana
Dal momento che esisterà un organo sinodale permanente (in questo potremo imitare la Chiesa ortodossa, perché no? O che almeno si incominci a studiare il tema), che esprimerà la sinodalità della Chiesa con il papa e sotto la sua direzione, come capo di quest’organismo sinodale, la curia romana dovrebbe trasformarsi, diventando l’organo esecutivo di queste due realtà necessarie per la vita della Chiesa: il papato e l’organismo sinodale permanente.
Attualmente sembra che la curia romana sia quasi l’estensione del primato del papa, la quale può decidere, insegnare con autorità quasi infallibile, legiferare, condannare… senza l’apporto sostanziale dei vescovi, cioè, in pratica, si ignora la dimensione sinodale della Chiesa che viene sostituita dalla curia romana.
La crescita mastodontica della curia romana è dovuta alla crescita unilaterale del primato del vescovo di Roma. La curia romana rinnovata, ridotta nei dicasteri e nei suoi membri, dovrebbe semplicemente eseguire le decisioni del papa e del suo organismo sinodale.
Molte competenze esecutive della curia romana potrebbero essere trasferite alle conferenze episcopali. Un simile modo di esercitare il primato potrebbe essere accettato dai fratelli non cattolici.
Rispetto delle competenze dei vescovi
Oggi, in pratica, una grande parte del primato di giurisdizione di cui gode il vescovo di Roma è stata estesa alle congregazioni romane.
Nella curia romana, incominciando dai minutanti, tutti si sentono e si comportano come partecipi dell’autorità del primato del vescovo di Roma e, quindi, come i superiori dei vescovi. Tutto ciò che si dice o si decide nella curia romana assume un’autorità insindacabile, perché è «la Santa Sede che parla e decide». I vescovi debbono semplicemente obbedire.
Succedono poi dei fatti in cui appare chiaramente la poca stima che si nutre nei confronti dei vescovi da parte dei dicasteri romani. Così, per es., quando si è trattato di approvare le traduzioni dei testi liturgici o di altri documenti ufficiali.
Ammesso pure che i vescovi debbano essere eletti da Roma, l’iter che viene seguito è molto discutibile. In pratica, i vescovi vengono eletti dai nunzi, mentre la conferenza episcopale, come corpo, è messa da parte. I vescovi vengono consultati come singoli al pari di tante altre persone e sono ignorati come conferenza. Anzi, non si osserva neppure il diritto canonico (can. 377 par. 3) che espressamente richiede il voto del metropolita (se si tratta dell’elezione di un vescovo suo suffraganeo) e del presidente della conferenza episcopale.
Estensione negativa del primato
Il vescovo di Roma esercita il suo carisma per il bene di tutta la Chiesa dentro lo spirito dell’ecclesiologia di comunione e dentro la Chiesa intesa come sacramento di salvezza. Il suo ministero consiste proprio nel favorire la salvezza degli uomini, motivo per cui il Signore si è fatto uomo, è morto ed è risorto e ha istituito la Chiesa. Ora non solo gli ortodossi, ma anche noi non riusciamo a renderci conto che cosa c’entri con la salvezza degli uomini e con il primato del papa l’ingerenza della Santa Sede nell’amministrazione dei beni delle Chiese particolari. È difficile capire in base a quali principi teologici il Codice di diritto canonico chiami il papa «supremo amministratore e dispensatore di tutti i beni ecclesiastici» (can. 1273). Nessuna ragione teologica può giustificare l’usurpazione dei titoli e dei diritti a coloro che, secondo la legge naturale, sono detentori e amministratori dei loro beni. Questo caso, come tanti altri, denota come, attraverso i secoli, il papato si sia arrogato dei diritti estranei alla sua missione, in modo tale da renderlo ancora più difficilmente accettabile da parte dei non cattolici.
Decentralizzazione e inculturazione
La Chiesa cattolica è cattolica, cioè “universale”, non solo nella sua dimensione di pienezza qualitativa, verticale, ma anche in quella quantitativa, orizzontale, estesa, in quanto presente nei quattro angoli della terra.
La Chiesa è una perché sacramento e icona della Trinità e, secondo la nota definizione di san Cipriano, essa è «un popolo adunato dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (cf. LG 4). Il protagonista di quest’unità è lo Spirito Santo: «Siamo stati battezzati in un solo Spirito per essere un solo corpo», scrive san Paolo (1Cor 12,13; Ef 4,4), e il concilio Vaticano II afferma: «Lo Spirito Santo, che abita nei credenti e tutta riempie e regge la Chiesa, produce quella meravigliosa comunione dei fedeli e tanto intimamente tutti unisce in Cristo da essere il principio dell’unità della Chiesa» (UR 2).
Se questa è la nostra fede, non riusciamo a capire perché si insiste tanto nel concepire l’unità nella Chiesa cattolica come uniformità, continuando la logica di emergenza del concilio di Trento. Pensiamo che non sia possibile che leggi disciplinari e liturgiche siano automaticamente adatte alle culture di tutti i popoli. Spesso la legislazione comune non può essere applicabile a tutti e la liturgia comune diventa incomprensibile per certe culture. Bisogna prendere sul serio il discorso dell’“inculturazione” della fede e non impedirla con interventi massificanti e spersonalizzanti presi dall’alto. Crediamo che sia necessario avere meno leggi “cattoliche” (= universali) per avere più Chiesa cattolica. Anzi, meno leggi occidentali per una Chiesa universale, meno Chiesa latina per una Chiesa più cattolica.
Valorizzazione del Sinodo dei vescovi
Seguendo le linee direttive del Vaticano II, sono state trovate alcune espressioni di esercizio della collegialità, come il Sinodo dei vescovi, la partecipazione dei vescovi nelle congregazioni romane, la consultazione per iscritto…
Gli ortodossi, all’inizio, si sono congratulati con noi per il ricupero da parte della Chiesa cattolica della sinodalità, tanto importante per la loro tradizione. Quando, però, hanno saputo come si svolge il Sinodo, sono rimasti profondamente delusi.
Non sarebbe forse opportuno che il Sinodo abbia valore deliberativo e che sia esso a preparare, nel modo ritenuto più opportuno, un documento post-sinodale? Del resto, il vescovo di Roma è membro del Sinodo, anzi è il presidente del Sinodo, e solo con la sua conferma il Sinodo avrà valore deliberativo.
Il vescovo di Roma: capo della Chiesa e capo di Stato
Uno dei motivi per cui il papato è guardato con diffidenza dai cristiani delle altre confessioni è il suo intrecciarsi con il potere civile: il papa capo religioso e capo di uno Stato. Siamo consapevoli che spesso la Santa Sede, attraverso la via diplomatica, può fare del bene non solo alle Chiese locali, ma anche in modo più generale ai popoli, ma, secondo la dottrina della Chiesa cattolica, “il fine non giustifica i mezzi”. Il prezzo morale che certe volte bisogna pagare è enorme, perché la Santa Sede deve prendere – o non dovrebbe prendere – delle decisioni che non sono accettate da alcuni stati. Le conseguenze per i cattolici del luogo possono essere spiacevoli.
Il fatto, poi, che il Vaticano sia uno Stato, ha come conseguenza che esso adotti una terminologia politica estranea alla sua natura religiosa (per es. “segretario di Stato”), o anche che si immischi in faccende che molto poco hanno a che fare con il Vangelo e la salvezza delle anime.
Si è data l’impressione agli ortodossi – certamente senza ragione – che il Vaticano sia politicamente onnipotente e che sia in grado di influenzare la diplomazia mondiale a danno dei paesi di tradizione ortodossa. Tutto ciò crea presso di loro un senso di paura e di diffidenza nei confronti della Chiesa cattolica. Non è raro il caso in cui, negli ambienti ortodossi, si affermi che la Chiesa cattolica più che una Chiesa è una potenza politica.
Conclusione
Concludendo, voglio ancora una volta professare il mio affetto e il mio attaccamento alla Sede di Pietro, supplicando il Signore di concedere alla sua Chiesa il dono dell’unità di tutti i cristiani.
+ Fragkiskos Papamanolis
vescovo emerito di Syros, Santorini e Creta
…PENSO CHE NON POTRA’MAI AVVENIRE UNA VERA UNITA’ FRA CATTTOLICI ED ORTODOSSI A MENO CHE LA CHIESA CATTOLICA NON RINUNCI A VOLER PRIMEGGIARE RISPETTO AGLI ORTODOSSI E ALLE ALTRE COMUNITA’ RELIGIOSE DEL MONDO PROTESTANTE DALLE QUALI C’E’ UN DIVARIO MAGGIORE INCOMABILE.
Grazie. È un articolo veramente illuminante. Incominciamo noi cattolici a fare passi concreti di comunione e di sinodalita’. Solo la nostra conversione aiuterà questa chuesa sorella.
Don Roberto
Come è arricchente ascoltare e fare tesoro del parere altrui! Quanto detto non ci fa crogiolare in ciò che abbiamo ottenuto in questi anni, ma ci aiuta a comprendere quanto ancora ci resta da fare … Grazie di cuore!!! e saluti a tutti
Davvero un bell’articolo che tratta questioni di grande attualità. Speriamo possano tradursi in prassi…