Thies Münchow è docente incaricato presso il Dipartimento di teologia evangelica dell’Europa-Universität di Flensburg. Dopo il ciclo quinquennale di studi (musica e teologia evangelica) ha lavorato alla tesi di dottorato che ha difeso col massimo dei voti (Wir machen Sinn. (Post)moderne Bedingungen, Perspektiven und Grenzgängen theologischer Hermeneutik). Svolge attività di ricerca sugli incroci fra filosofia postmoderna, teologia e fenomeni culturali nell’Europa contemporanea. Fa parte del gruppo di lettura evangelico-cattolico recentemente fondato presso la Europa-Universität di Flensburg.
L’anno di giubilo, scusatemi, il Giubileo della Riforma è giunto oramai al suo termine. Anche se il 31 ottobre si è ripetuto così tante volte dal giorno in cui Martin Lutero nel 1517 ha affisso le sue Tesi, questo giorno di festa è stato celebrato quest’anno in maniera particolare. Infatti per la prima, e per il momento anche unica, volta la popolazione della Repubblica Federale Tedesca ha avuto un giorno di ferie in più!
L’etica protestante e il giorno di ferie
Proprio come deve essere per un giorno di festa. Eppure vi è qualcosa di ironico in tutto questo: se il giorno della Riforma fino a oggi (in maniera del tutto corrispondente alla morale protestante della prestazione, come viene descritta da Max Weber) non implicava una giornata di ferie, sembra essere quasi una contraddizione onorare così lo spirito della Riforma proprio nell’anno del suo Giubileo – ossia in un modo che permette di prescindere dal proprio dovere e consente di lasciare il mondo e i suoi impegni per ritirarsi piacevolmente nelle mura della propria casa.
Sicuramente l’idea della libertà (del cristiano) rappresenta un aspetto centrale non solo del pensiero luterano. Ma in esso si tratta di un essere-libero-per (Dio, il prossimo, il lavoro) e non di un essere-libero-da (il dovere di compiere il lavoro adeguato e corrispondente al proprio stato). Il linguaggio politico di Lutero è, in merito, cristallino; e non va certo in direzione dell’ozio e del divertimento.
Lutero e la signoria neoliberale
Se ci si volesse tuttavia rifare oggi a Lutero per santificare il peso del lavoro quotidiano, allora si correrebbe il rischio di un sottile cinismo. Infatti, nella società (neo)liberale il posto di lavoro fisso è più un privilegio che un fatto dovuto. E quando si trova un lavoro, allora questo diventa facilmente di nuovo un’obbligazione che prende il sopravvento sulla propria esistenza.
Attraverso di esso quest’ultima potrebbe apparire in un qualche modo assicurata, ma per quanto riguarda il proprio valore individuale e la propria realizzazione, che il mondo del lavoro aveva pur ben promesso, ci si sente come presi in ostaggio dal peso del quotidiano. E così vi è la necessità di una «moratoria del quotidiano» (O. Marquard), o meglio della festa, per potersi liberare, almeno per un attimo, dal peso dell’obbligo che esso porta con sé.
Da questo punto di vista, la decisione per un giorno di ferie nell’anniversario della Riforma è comprensibile. Forse anche nel senso di quel Martin Lutero che, come scrive D. Bonhöffer nel 1943 per riferimento a S. Kierkegaard, «oggi direbbe il contrario di quello che disse allora».
Giubileo: commercializzazione del brand «Lutero»
Ma la dimensione economica si è insinuata nel Giubileo della Riforma anche in altri modi, prendendone quasi il sopravvento. Se mi chiedo come si è presentato davanti a me il Giubileo del 2017, allora, accanto a convegni e seminari sul tema a livello universitario e accademico, fa immediatamente capolino l’aspetto del marketing.
La Riforma (veramente la Riforma?) si vende alla grande: a cominciare con una miriade di pubblicazioni su Lutero, prevalentemente di carattere divulgativo-popolare – si badi bene su Lutero, e non tanto sulla Riforma in quanto tale, e ancora meno su Calvino, Melantone, (per tacere di Erasmo da Rotterdam), passando per i calzini di Lutero e i giochi per bambini (Lutero come omino del Playmobil), fino alla birra «Lutero», sul mercato si può trovare davvero di tutto.
Lutero come «marca» dunque, un brand, un’etichetta mercantile dell’Europa. Lo spirito del capitalismo nel senso di Weber sembra qui essere giunto a divorare l’origine di se stesso. E rimane un ironico retrogusto in tutto questo: con il volume massiccio della merce-Lutero ci troviamo di fronte a qualcosa che funziona come una cruda miscelatura dei frutti dell’etica protestante della prestazione e di un’iconografia pseudo-cattolica (katholikos: onnicomprensivo, globale).
La grazia a buon mercato
Una simile estetizzazione del pensiero riformato sarebbe del tutto impossibile per un Calvino; ma anche lo stesso Lutero non aveva certamente in mente di essere presente in questa maniera. È vero che egli agì come figura politica, ma in primo luogo per lui si trattava del discutere, del disputare; solo poi imparò anche a vendersi.
E la commercializzazione messa in campo col Giubileo non funzionerebbe così bene senza una buona ragione. Lo scrittore/teologo danese S. Kierkegaard mostra chiaramente l’influenza di Lutero quando mette mano alla sua critica a una cristianità moderna autosufficiente a se stessa, che si gongola della sua grazia a buon mercato.
Ma quello che lo impressiona di Lutero è l’uomo e non tanto la sua opera o la sua teologia. Quest’uomo che fu capace di dire semplicemente «no», e disse addirittura «no» anche quando il suo ambiente più prossimo gli era divenuto ostile. La vita di Lutero stesso è espressione della sua opera.
Lutero: eroe e mito moderno
Per i teologi Lutero può ben essere a sua volta anche un teologo; ma al di là di questo Lutero è una leggenda o addirittura un mito moderno. Ecco qui il piccolo monaco nella sua piccola città. Improvvisamente echeggia il grido dell’avventuriero (lotta contro le indulgenze). Superare la prima soglia del viaggio dell’eroe non è cosa semplice (affissione delle Tesi), ma insieme con il suo mentore (Paolo della Lettera ai Romani) l’impresa riesce.
Ma bisogna sostenere molte prove, in primo luogo quella della Dieta di Worms (e qui l’intransigenza dell’uomo solo funziona come una miniera d’oro drammaturgica: «Qui sto io e non posso altrimenti!»). L’eroe, o quantomeno i suoi scritti e volantini, viene sospinto in ogni dove. E, giunto al vertice del successo, egli torna nella sua patria, per ritirarsi dal mondo avventuroso nella familiarità della sua casa. Portando con sé l’elisir magico (la libertà del cristiano) che si rispecchia simbolicamente nel matrimonio con Katharina von Bora. Happy End.
Ma vi è una cosa che non bisogna nascondere sotto il tappeto di casa: proprio le due grandi figure della «fondazione della Riforma», Lutero e Calvino, potevano essere anche fanatici; fino al punto in cui tutto ciò ha significato il prezzo di vite umane ed è costato la stessa dignità della persona. È il caso della Guerra dei contadini, dell’anti-giudaismo, della vicenda di Michel Servet. Le «guerre civili confessionali» del XVI e XVII secolo sono state delle «guerre civili ermeneutiche» (O. Marquard), in cui si è combattuto per l’unica vera e giusta comprensione di una Scrittura.
Il lato oscuro della Riforma
Anche tutto ciò rappresenta un’eredità della Riforma che rimane e non si lascia facilmente commercializzare. Il mito idealizzato cade a puntino per sorvolare l’ambiguità morale di questi attori principali della Riforma e del loro tempo. Ma di pari passo con un armonico lieto fine sorgono anche tutta una serie di problemi.
Con lo sguardo rivolto a processi di estetizzazione all’interno della moderna società mediatica, G. Vattimo chiama per nome lo sfondo su cui si staglia questa nostalgia di armonia che tutto risolve felicemente: «Quello che fa colpo in maniera negativa rispetto all’estetizzazione diffusa è la mancanza di ogni conflittualità. E questa mancanza ha una ragione che potremmo riassumere nella parola d’ordine della “ingiunzione del mercato”. Si tratta dell’intenzione di servire il mercato».
L’ingiunzione del mercato
Poiché ciò che non si armonizza con gli ideali del mercato di massa non si vende. Proprio secondo questa logica ha operato il paradigmatico abbellimento esteriore del Giubileo della Riforma, producendo da ultimo una minimizzazione di quello spirito a cui si sarebbe invece dovuto lasciare le luci della ribalta.
Riforma light: sempre lo stesso ritratto di Lutero in tutti i banner pubblicitari, sui manifesti, sui biscotti e sulle caramelle; sempre le stesse citazioni di Lutero in ogni conferenza e persino sui calzini. Tutto ciò trasmette un’immagine digeribile di un tempo che, come i personaggi che gli appartengono, sono tutto tranne che facili da digerire.
Così come è stata utilizzata la «marca Lutero» (non solo) nel corso dell’anno del Giubileo della Riforma non può stare altro che per quella versione, sopra descritta, certo piacevole ma da ultimo banale della sua storia. Ma l’immagine armonicamente illuminata disegnata dal mito non basta. Riconciliazione e riorganizzazione rimangono momenti secondari della Riforma.
Giudizio critico e tribolazione: la Riforma nell’Europa odierna
In primo luogo con la Riforma si trattava del conflitto interiore, del tormento individuale, del vaglio di sé, dell’interrogazione critica. Tutte cose scomode, ma reali e necessarie perché fanno parte dell’umana esistenza. Inoltre, critica e conflittualità in una società illuminata, che è consapevole della propria storia e storicità, non vogliono dire distruzione e polemica, quanto piuttosto discorso e dialogo.
Due aspetti, questi, che sono assolutamente necessari in un Europa attualmente colpita dal populismo di destra e dalla xenofobia. Dietro le spiegazioni semplicistiche e riduttive, dietro la bella apparenza del politicamente corretto, vi è la necessità urgente del discorso argomentato.
Dunque, cosa rimane della Riforma dopo il Giubileo? Esattamente lo stesso che era già qui a disposizione anche senza il Giubileo e che (speriamo) possa essere ancora a portata di mano: l’ingiunzione a un sguardo penetrante, all’interrogazione critica, anche di fronte alla tribolazione e al tormento. E con questo rimane (non solo per la teologia) ancora del tutto aperto il campo del lavoro sul mito Lutero.
Hinter dem schönen Schein
Was bleibt nach dem Jubiläum von der Reformation?
Das Jubeljahr, Verzeihung, Jubiläumsjahr der Reformation neigt sich langsam seinem Ende zu. Zu dem Zeitpunkt, an dem ich diesen Text schreibe, liegt der (legendäre) Reformationstag 2017 schon in der Vergangenheit. Auch wenn sich der 31. Oktober seit Martin Luthers Thesenanschlag von 1517 schon so manches Mal wiederholt hat, so lässt sich dennoch beobachten, dass jener Feiertag dieses Jahr auf besondere Art und Weise begangen wurde: denn zum ersten (und vorerst wohl auch einzigem) Mal am Reformationstag bekam die Bevölkerung der Bundesrepublik Deutschland einen zusätzlichen arbeitsfreien Tag zugestanden!
Eben ganz so, wie bei einem richtigen Feiertag. Ein wenig ironisch wirkt das Ganze schon: Wenn der Reformationstag bisher – analog zu einer protestantischen Leistungsmoral, wie sie Max Weber beschreibt – keinen freien Arbeitstag mit sich brachte, dann scheint es fast widersprüchlich, gerade im Jubiläumsjahr den reformatorischen Geist dadurch zu würdigen, dass man von der Pflicht absieht und sich selbstgenügsam aus der Welt ins traute Heim zurückzieht. Wird der reformatorische Impetus auf diese Weise adäquat repräsentiert?
Sicherlich ist der Gedanke der Freiheit (eines Christenmenschen) ein zentraler Aspekt nicht nur des lutherischen Denkens; aber geht es ihm doch auch an dieser Stelle vielmehr um ein Frei-sein-für (Gott, den Nächsten, die Arbeit) und gerade nicht um ein Frei-sein-von (der Pflicht, die ‚standesgemäße’ Arbeit zu verrichten). Luthers politisches Denken spricht hier eine deutliche Sprache, und zwar nicht zugunsten des Müßiggangs.
Wollte man sich allerdings heute auf Luther berufen, um den erdrückenden Arbeitsalltag zu heiligen, so wäre dies eine beinahe zynische Geste: denn in der modernen (neo)liberalen Gesellschaft ist der feste Arbeitsplatz mehr ein Privileg denn eine Selbstverständlichkeit; und ist man erst im Job angekommen, wird dieser leicht wieder zur alltäglichen Verpflichtung gegenüber der eigenen Existenz. Denn diese möchte zwar abgesichert sein, fühlt sich nun aber hinsichtlich ihrer je individuellen Geltung und Selbstverwirklichung, die die Arbeitswelt doch eigentlich versprochen hatte, vom Alltag völlig in Anspruch genommen.
Und so bedarf es also des „Moratoriums des Alltags“ (Odo Marquard), genauer gesagt des Festes, um sich von der Last der Verpflichtung zumindest vorübergehend zu befreien. Unter diesem Aspekt also ist die Entscheidung für den freien Arbeitstag am Reformationstag durchaus nachvollziehbar. Vielleicht sogar ganz im Sinne eines Martin Luther, der ja, wie Dietrich Bonhoeffer am Reformationstag 1943 im Anschluss an Søren Kierkegaard schreibt, „heute das Gegenteil von dem sagen würde, was er damals gesagt hat“.
Die ökonomische Dimension drängt sich im Reformationsjubiläums allerdings auf noch andere Art und Weise in den Vordergrund. Stelle ich mir nämlich die Frage, wie sich mir das Reformationsjahr 2017 präsentiert(e), dann taucht neben den thematischen Veranstaltungen und Workshops an der Universität vor allem der Aspekt des Marketings auf. Die Reformation (wirklich die Reformation?) ist ein Verkaufsschlager: Angefangen bei den Myriaden von primär populärwissenschaftlichen Buchveröffentlichungen über Luther (wohlgemerkt zu ‚Luther’, weniger zur ‚Reformation’ per se, zu ‚Calvin’ oder ‚Melanchthon’, geschweige denn zu ‚Erasmus von Rotterdam’), über den Weg der Luthersocken und des Kinderspielzeugs (Luther als Playmobilfigur) bis hin zum Lutherbier ist alles dabei, was das Herz begehrt.
Luther als Marke, als brand, ein merkantiles Brandzeichen Europas. Der kapitalistische Geist im Sinne Webers kommt hier scheinbar doch auf seine Kosten. Und ein ironischer Beigeschmack verbleibt: denn mit der Fülle an Luther-Merchandise liegt etwas vor, das wie die krude Mischung aus den Früchten der protestantischen Leistungsmoral und einer pseudo-katholischen (katholikós, allumfassend, global) Ikonografie wirkt. Einem Calvin liefe diese Ästhetisierung des reformatorischen Gedankens völlig zuwider, und auch ein Luther hatte eigentlich nicht im Sinn auf diese Weise präsent zu sein. Zwar wirkte er als politische Figur, aber eigentlich ging es ihm ums Reden, ums Disputieren; gelernt hat er, sich zu vermarkten.
Und nicht ohne Grund funktioniert die Vermarktung: So zeigt sich etwa der dänische Theologe/Philosoph/Schriftsteller Søren Kierkegaard stark beeinflusst von Luther, wenn er seine Kritik an einer selbstgenügsamen modernen Christenheit, die sich ihre billige Gnade gefallen lässt, formuliert. Aber ihn beeindruckt dabei der Mensch Luther und weniger dessen Werk bzw. Theologie. Dieser Mann der einfach ‚Nein!’ sagte, und sogar dann noch ‚Nein!’ sagte, als seine Umgebung ihm zusehends feindlicher gesonnen war. Luthers Leben selbst ist Ausdruck seines Werks.
Für Theologen mag Luther ein Theologe sein; aber darüber hinaus ist Luther eine Legende oder gar ein moderner Mythos: Da ist der kleine Mönch, in seiner kleinen Heimatstadt. Plötzlich erschallt der Ruf des Abenteuers (Kampf wider den Ablasshandel). Die erste Schwelle der mythologischen Heldenreise zu überwinden ist nicht leicht (Thesenanschlag), aber zusammen mit dem Mentor (der Paulus des Römerbriefs) gelingt es.
Es gilt viele Prüfungen zu bestehen, allen voran den Reichstag zu Worms. (Dabei wirkt der One-liner, „Hier stehe ich und kann nicht anders!“, wie dramaturgisches Gold.) Überallhin treibt es den „Helden“ oder zumindest seine Schriften und Flugblätter. Und auf der Höhe des Erfolgs kehrt er zurück in die Heimat, um sich aus der abenteuerlichen Welt ins traute Heim zurück zu ziehen. Mitgebracht hat er das Elixier (die Freiheit eines Christenmenschen), das sich symbolisch in der Eheschließung mit Katharina von Bora widerspiegelt. Happy End.
Trotzdem darf man eine Sache nicht unter den Tisch fallen lassen: Gerade die zwei großen ‚Konfessionsstifter’ der Reformation, Luther und Calvin, konnten auch fanatisch sein, bis hin zu dem Punkt, wo es Menschenleben und –würde gekostet hat. Da ist der Bauernkrieg. Da ist Antijudaismus. Da ist der Fall Michel Servet. Die ‚konfessionellen Bürgerkriege’ des 16. und 17. Jahrhunderts waren, wie Odo Marquard sagt, ‚hermeneutische Bürgerkriege’, in denen über das einzig wahre und richtige Verständnis einer Schrift gekämpft wurde.
Auch das ist ein Erbe der Reformation, das bleibt, es lässt sich einfach nur schlecht vermarkten. Da kommt der idealisierte Mythos gerade recht, um über die moralische Ambiguität dieser Akteure und ihrer Zeit hinwegzutäuschen. Mit dem harmonischen Happy End hat man auch viel weniger Ärger.
Mit Blick auf diese Art Ästhetisierungsprozesse innerhalb der modernen Medienlandschaft benennt Gianni Vattimo den Hintergrund einer solchen Sehnsucht nach Harmonie: „Was uns an der verbreiteten Ästhetisierung negativ auffällt […] ist das Fehlen jeglicher Konfliktualität. Und dieses Fehlen hat eine Erklärung, die wir unter dem Schlagwort ‚Forderung des Marktes’ zusammenfassen können. Es ist die Absicht, dem Markt zu dienen […].“ Denn was nicht mit den Idealen des Massenmarkts harmoniert, verkauft sich nicht. Im gleichen Modus rangiert auch die paradigmatische Oberflächenverhübschung des Reformationsjubiläums und resultiert so in der Bagatellisierung des Geistes, dem doch gerade die Bühne bereitet werden sollte.
„Reformation light“: Das immer gleiche Portrait von Luther auf allen Werbebannern und Plakaten, Keksen und Bonbons, die immer wieder gleichen Zitate Luthers bei Lesungen und nun auch auf Socken gedruckt, vermitteln ein allzuleicht verdauliches Bild einer Zeit, die, wie auch ihre zugehörigen Gestalten, alles andere als leicht verdaulich ist. So, wie die ‚Marke Luther’ (nicht nur) im Jubiläumsjahr eingesetzt wird, kann sie aber auch für nicht viel mehr herhalten, als die oben vorgeführte, zwar unterhaltsame, letztlich aber banale Version seiner Geschichte. Aber das harmonisch verklärte Bild, das der Mythos zeichnet, reicht nicht aus. Versöhnung und Reorganisation bleiben sekundäre Momente der Reformation.
Zunächst ging es einmal um den inneren Konflikt, die individuelle Anfechtung, um Selbstprüfung und das kritische Nachfragen. Alles unbequem, ja, aber realistisch und notwendig, weil existenziell. Außerdem stehen Kritik und Konfliktualität in einer aufgeklärten Gesellschaft, die sich ihrer Geschichte und Geschichtlichkeit bewusst ist, hier nicht für Destruktion und Polemik, sondern für Diskurs und Dialog. Zwei Konzepte, die in einem Europa, das gegenwärtig vom Rechtspopulismus und Xenophobie heimgesucht wird, unerlässlich sind. Hinter den simplifizierenden und reduktionistischen Erklärungen, hinter dem schönen Schein, da gibt es Redebedarf.
Was bleibt also nach dem Jubiläum von der Reformation? Das Gleiche, was auch ohne das Jubiläum schon da war und (hoffentlich) da ist: Die Aufforderung genau hinzusehen, kritisch nachzufragen, auch im Angesicht der Anfechtung. Und damit bleibt (nicht nur für die Theologie) die Arbeit am Mythos Luther.
Literatur
Dietrich Bonhoeffer, Wiederstand und Ergebung. Briefe und Aufzeichnungen aus der Haft, DBW 8, hg. von Chr. Gremmels et al., Gütersloh 1998.
Søren Kierkegaard, Zur Selbstprüfung der Gegenwart anbefohlen, Gesammelte Werke und Tagebücher, Bd. 19, Simmerath 2003.
Martin Luther, Schriften, hg. von E. Kähler, Stuttgart 2008.
Odo Marquard, Zukunft braucht Herkunft. Philosophische Essays, Stuttgart 2015.
Gianni Vattimo, „Die Grenzen der Weltauflösung“, in: G. Vattimo, W. Welsch (Hrsg.), Medien – Welten Wirklichkeiten, München 1998.
Max Weber, Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus. Vollständige Ausgabe, hg. von D. Kaesler, 3. Aufl., München 2010.