Riccardo Burigana è docente di Ecumenismo presso la Facoltà teologica dell’Italia centrale (Firenze) dal 2016 e presso la Pontificia facoltà teologica dell’Italia meridionale (Napoli) – Sezione San Tommaso dal 2022. Dal 2008 è direttore del Centro studi per l’ecumenismo in Italia e dal 2014 è presidente dell’Associazione docenti di ecumenismo. Dedica attenzione da tempo al rapporto tra cristiani ed ebrei. Gli abbiamo posto alcune domande.
- Professor Burigana, quando e perché è nata la «Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei» in Italia, in data 17 gennaio? Può tracciarne un bilancio?
Quest’anno si celebra il 35° appuntamento della Giornata che è stata istituita nell’ottobre del 1989 dal Consiglio permanente della Conferenza episcopale italiana. La data odierna è stata dunque voluta dai vescovi italiani nel tempo e nel clima pastorale della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani.
L’appuntamento ha conosciuto, nei primi anni, uno sviluppo molto spontaneo e diversificato, almeno sino a quando, anche su sollecitazione di papa Benedetto XVI, si è deciso di lavorare su un percorso, anziché su un tema staccato proposto annualmente: il percorso del Commento alle dieci parole ha segnato quindi un intero decennio e ha fatto nascere notevoli interessi, competenze e iniziative bibliografiche, a partire dall’esperienza di lettura – da diverse prospettive teologiche – dell’Antico Testamento.
Da quella esperienza sono seguite edizioni della Giornata che hanno visto numeri e adesioni molto più alte di quanto sia mediamente percepito. In Italia sono ormai diverse le circostanze in cui si va a leggere Scrittura, con due o tre/quattro voci: di un cattolico, di un ebreo e, spesso, di altri cristiani.
La lettera con cui, 35 anni fa, il vescovo di Livorno mons. Ablondi – uno dei padri della Giornata – presentò la novità discendente dal Concilio, invitava ogni Chiesa a meglio conoscere la Scrittura ebraica e l’ebraismo, non solo per umana amicizia nei confronti degli ebrei – magari pochi o nessuno presenti in diocesi – bensì per esigenza propria e costitutiva delle comunità cristiane.
Il 17 gennaio – appuntamento italiano – è divenuto occasione preziosa di incontri, scambi, relazioni ormai irrinunciabili. Ricordo come alcuni vescovi siano stati invitati – e siano tuttora invitati – nelle sinagoghe per prendere la parola: fatto rilevante e affatto scontato. Alcune diocesi hanno avviato pure percorsi di memoria della presenza storica ebraica nei propri territori.
Si potrebbe ancora nutrire, nelle nostre Chiese, la sensazione che questo appuntamento pastorale sia solo per pochi addetti ai lavori – studiosi e autorità religiose – mentre siamo ormai in grado di dimostrare che non è così: anche quest’anno saranno decine le diocesi impegnate in eventi significativi.
- Sì, ma cosa, secondo lei, è effettivamente penetrato in profondità nelle nostre comunità?
Occorre una premessa: anche questa Giornata viene dal Concilio e dalla sua ricezione, più o meno capillare e profonda, come per ogni cosa.
Non possiamo, chiaramente, mettere sullo stesso piano, in fatto di ebraismo, il biblista – che ha ben chiaro il ruolo delle Scritture ebraiche – e il cristiano che frequenta la parrocchia. Ma anche ai livelli più semplici, si dà oggi la consapevolezza che non ci può essere il cristianesimo senza l’ebraismo.
A livello locale e comunitario, poi, funziona – in maniera persino più forte – la memoria storica, personale, familiare e collettiva della presenza ebraica in Italia, con tutto ciò che ha comportato in fatto di pregiudizio, in un senso e nell’altro: sia antigiudaico (o antisemita) sia anticristiano. E questo si sta di molto superando!
Non si tratta, quindi, solo di entrare nell’ebraicità di Gesù e delle prime comunità cristiane, bensì nella più vasta – e assai complessa – vicenda delle relazioni tra ebrei e cristiani nel bacino del Mediterraneo e in Europa.
C’è poi, ovviamente, ben presente, la questione – enorme – della Shoah nel XX secolo. La sua storia è oggi molto più conosciuta, anche se ancora molto resta da conoscere e, soprattutto, da elaborare.
In questi anni sono stati fatti grandi passi, anche a livello di comunità, circa la distinzione tra l’appartenenza religiosa ebraica e la questione politica attuale dello Stato di Israele.
In ambito biblico, contestualmente, sono assai progrediti gli studi sul Gesù storico e sull’apostolo delle genti Paolo, pure ebreo. Sono venuti più chiaramente alla luce – e poi diffusi anche attraverso la predicazione e la formazione cristiana – elementi di ebraismo un tempo totalmente ignorati.
Oggi, a più di cinquant’anni dalla conclusione del Concilio, mi sembra che alcuni concetti fondamentali si siano radicati; ad esempio, che il popolo ebraico non può essere ritenuto responsabile della morte di Gesù – l’accusa di deicidio è teologicamente infondata! –, e che i testi dell’Antico Testamento hanno una loro propria autonomia di interpretazione.
- Se, da parte cristiana, c’è interesse per la conoscenza dell’ebraismo perché radice del cristianesimo, altrettanto non può dirsi da parte ebraica. Come può darsi un interesse reciproco al dialogo?
L’asimmetria esiste ed è un problema, ma non è il primo dei problemi. Già mons. Ablondi insisteva perché la Giornata non fosse – tanto o soltanto – dedicata al dialogo e all’amicizia, quanto, appunto, all’approfondimento della conoscenza dell’ebraismo da parte dei cristiani.
Aveva visto bene, e voleva evitare che le diocesi in cui non vi fossero comunità ebraiche organizzate, dovessero rinunciare alla celebrazione della Giornata, adducendo la ragione della mancanza di interlocutori, cosa che spesso, peraltro, avveniva anche in fatto di ecumenismo, per la mancanza “fisica” di comunità cristiane riformate e ortodosse con cui dialogare.
Ma, nonostante queste difficoltà numeriche, in Italia vi sono stati e vi sono molti rabbini e presidenti di comunità ebraiche che hanno accettato di confrontarsi, sullo stesso piano, con i vescovi, con presbiteri e laici cristiani, spesso – come ho detto – in contesti caratterizzati da un forte clima ecumenico.
Non dobbiamo nascondere, peraltro, la franchezza e, a volte, la durezza di questo dialogo: come ebbe a dire il cardinale Walter Kasper «non si tratta di fare incontri fra tè e biscottini». Io considero molto positivi quegli incontri in cui viene fuori il molto «non detto» per secoli.
- La conoscenza dell’ebraismo di cui lei parla è immensa. Lei è docente. Su cosa sta puntando?
Naturalmente, l’ebraismo storico e contemporaneo è una realtà vastissima e articolata. Come docente, ritengo che siano almeno due gli aspetti su cui puntare.
Il primo è la conoscenza del mondo biblico antico-testamentario. Esiste un patrimonio comune che costituisce una miniera ancora ampiamente da esplorare. Il commento ebraico – ovvero gli «infiniti» commenti ebraici alla Scrittura – costituisce, per noi, un corpus da conoscere e una grande scoperta di tesori ancora, in buona misura, da realizzare. Insieme pongo, come prioritaria, una più precisa conoscenza del primo secolo della nostra era, quale crocevia storico fondamentale delle origini del cristianesimo pure al centro degli interessi, oggi, di molti studiosi ebrei.
Non si tratta, evidentemente, di convincere nessuno, né di convertire nessuno, bensì di trarre reciproco giovamento dall’assunzione delle ricerche e delle conoscenze delle «origini». Penso che questa materia possa essere molto feconda per il confronto e la crescita.
Il secondo aspetto da coltivare, per gli italiani – governanti e secolarizzati inclusi –, sempre in proiezione ecumenica, sta nella migliore comprensione della storia religiosa del nostro Paese. Si tratta di affrontare seriamente la grande mole delle memorie delle presenze ebraiche. Non si contano, ovviamente, le città italiane in cui ci sono stati i ghetti, segni di separazione, ma anche di identità e di vite vissute in osmosi con le comunità più ampie. C’è un’intera cultura – che ha segnato la nostra storia – da recuperare pienamente.
Il tema della memoria, su un arco temporale molto ampio, aiuterebbe moltissimo i cristiani italiani a comprendere, non solo come le cose siano cambiate nel corso tempo, ma anche come siamo tutti debitori – ora – di quella storia, con le sue zone d’ombra e di luce.
- Non ci nascondiamo che questo 17 gennaio cade in un momento particolarmente delicato. Con quali sentimenti e attenzioni vivere la Giornata del dialogo tra cattolici ed ebrei, proprio oggi?
Certo, non possiamo ignorare i condizionamenti del momento storico, con la situazione di guerra in Israele e Palestina. Nonostante le evidenti difficoltà che hanno portato, in alcuni casi, a soprassedere all’appuntamento, la spinta ecumenica e la tradizione creata, stanno ugualmente dando luogo ad appuntamenti spontanei, tra persone. Mi sembra un buon segno, nonostante tutto.
Ci sono – è vero – delle difficoltà e ci sono mille attenzioni da tenere, ma il dialogo e il confronto tra cristiani ed ebrei non può che continuare.
Continuerà, soprattutto qui in Italia, il dialogo interreligioso tra ebrei, cristiani e musulmani. A Firenze, dove vivo, si è creata una Scuola di formazione al dialogo interreligioso la cui presidenza è rivestita, a turno, da un cattolico, da un ebreo e da un musulmano.
Sarà senz’altro un 17 gennaio diverso da altri: probabilmente sarà avvertito qualche tono più aspro, proprio a causa della guerra in atto. Ma ben per questo, il confronto è più necessario che mai, perché non sono in gioco astratte questioni culturali, quanto la vita e i sentimenti di tante persone in carne ed ossa: in ciò sta il tema della pace, la ricerca della pace. Si tratta di immaginare le condizioni di possibilità della pace. A partire dalle convinzioni profonde – di fede – di ciascuno e di ciascuna comunità.
- Può dire quali manifestazioni sono in campo, precisamente oggi?
Ci sono incontri in tanti luoghi e in forme molto varie, anche dopo la data odierna: la Commissione per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della Conferenza episcopale della Liguria ha organizzato una serata, su una Tv locale, per promuovere la conoscenza, sempre più ampia, della Giornata tra i fedeli e i cittadini.
Il Consiglio delle Chiese Cristiane di Firenze ha organizzato un incontro, in modalità «da remoto», mentre a Acqui, Acireale, Brindisi, Bologna, Catania, Faenza, Frosinone, Genova, Latina, Milano, Napoli, Parma, Piacenza, Reggio Calabria, Roma, Salerno, Trieste, Treviso, Udine e Venezia sono programmati incontri in presenza, con un’attenzione particolare alla dimensione culturale del dialogo ebraico-cristiano, con, al centro, sempre la lettura condivisa della Parola biblica.
Certo, se, per quanto riguarda la Settimana di preghiera per l’unità dei Cristiani, posso dire che sono ormai circa 140 le diocesi che attivano iniziative, ogni anno, e quindi possiamo parlare di una tradizione affermata, per l’appuntamento del 17 gennaio non ho numeri così eloquenti da snocciolare. C’è da lavorare ancora parecchio.
Ribadisco l’importanza della promozione di iniziative di conoscenza dell’ebraismo in ogni territorio; ad esempio, attraverso la presentazione di opere di autori ebrei delle varie epoche, ovvero con l’accompagnamento di gruppi e di classi nei luoghi delle città e dei paesi in cui gli ebrei sono vissuti per secoli, ove hanno lasciato tracce evidenti della loro presenza. Sono solo, anche in questo caso, due esempi, di possibili iniziative, che già stanno avendo luogo in tanti luoghi dell’Italia.
- La «terra d’Israele» è questione molto delicata, oggi. Quale significato attribuirvi?
Sappiamo quanto sia forte il rapporto dell’ebraismo con la terra dei padri, ma tale è anche in altre religioni. Anche il cristianesimo ha, naturalmente, un riferimento speciale nella cosiddetta terra santa.
Nel caso di Israele, e per gli ebrei in genere, il legame e i sentimenti sono molto intensi perché collegati alla caduta del tempio e alla diaspora. Il sentimento del ritorno, in particolare, è stato coltivato per secoli, e per secoli si sono immaginate altre Gerusalemme. È interessante notare quante città, in tutto il mondo evochino Gerusalemme quale luogo in cui poter vivere finalmente in pace e in pace manifestare appieno l’appartenenza ebraica.
Da ricordare anche le vicende drammatiche del XX secolo – e con questo non intendo solo la catastrofe dello sterminio – ma anche ciò, ad esempio, che è avvenuto durante la Prima guerra mondiale con le promesse e le speranze deluse di ebrei sparsi in tutta Europa e nel mondo, al complicarsi della situazione geo-politica.
È materia gravissima, poi, specie noi cristiani, comprendere come sia potuta accadere la Shoah, la strage degli ebrei, in così breve tempo e, sostanzialmente, nel silenzio ufficiale.
È altresì vero che le vicende belliche in Palestina, a partire dal 1945, con attentati e guerre locali tra vari soggetti e col portato dell’idea del risarcimento territoriale, ha fomentato una situazione di grande tensione e alimentato posizioni, anche molto diverse tra loro – circa la terra – all’interno dello stesso ebraismo. Anche ora, nello Stato di Israele, le posizioni sono assai diversificate.
Dobbiamo considerare, poi, che oggi, in Israele, non ci sono soltanto i figli o i nipoti degli ebrei giunti nel 1947. Le nuove generazioni e i sopraggiunti hanno portato con sé nuove letture del particolare rapporto con la terra derivante dalla Torah e dall’insieme delle Scritture ebraiche. Ciò sta al fondo dello scontro con le genti che, per secoli, hanno dimorato nella stessa terra, vivendone un proprio senso di appartenenza.
In ogni caso, se la terra d’Israele è oggi la condizione dell’esistenza del popolo ebraico – e lo è – ne vanno meglio definiti i confini. Di quale terra parlare? Quella «promessa» ad Abramo o quella dei tempi del re Davide, piuttosto che di re Salomone? L’unica nostra certezza è che non si può pensare di risolvere, «semplicemente», la questione con la costruzione di muri e di fili spinati: oltre a non essere una soluzione «biblica», non sarebbe neppure una soluzione di buon senso, perché nessuno Stato può mai sussistere e sentirsi al sicuro in tal modo.
- Qual è la posizione dell’ebraismo italiano in proposito? Ricordiamo la dura lettera inviata da alcuni rabbini italiani a Francesco.
Ciò a cui ha assistito il mondo il 7 ottobre scorso è qualcosa di unico e di terribile. Ha generato angoscia negli ebrei di tutto il mondo e, naturalmente, anche negli ebrei italiani. Consideriamo che, anche tra gli ebrei italiani, qualcuno ha perduto, in quel modo orribile, persone care, mentre altri hanno visto parenti immediatamente mandati al fronte di guerra. Questo pesa enormemente e peserà per molto tempo ancora. Sono improvvisamente cadute le presunte certezze della stabilità costruita dagli accordi diplomatici con alcuni Paesi arabi.
Penso che, in questi casi, non si possa e non si debba cercare chi ha torto e chi ha ragione, ma si possa solo cercare di mettersi in ascolto di chi soffre. Francamente penso che papa Francesco abbia fatto proprio questo: si sia messo in ascolto di tutti. Questo è il presupposto per poter tornare a parlare di pace. Francesco ha ripetuto che con la logica della vendetta non si risolve nulla: così non c’è futuro e non c’è speranza. Il Consiglio Ecumenico delle Chiese si è mosso nella stessa direzione.
La posizione di Francesco, dunque, non è solitaria. Ci sono stati e ci saranno ancora tanti momenti di preghiera – di carattere ecumenico – espressi dall’attesa di pace per quella terra tormentata. Noi cristiani non ci possiamo schierare da una parte contro l’altra. Possiamo offrire il nostro contributo di pace: con la preghiera, con l’apertura, col dialogo. Ricordo due parole bibliche, antico-testamentarie, anche a noi molto care: il diritto e la giustizia.
Buonasera. penso che sia un buon segno quando la parola
circola ci sia dialogo interrligioso( cristiani ebrei musulmani) vorrei correggere amichevolmente le parole che sono state dette riguardo all’intervento di Mauro:
Dio si rivela alla sua creatura (ns essere) in due modi: il primo tramite le sacre parole scritte nell’antico e nuovo testamento… lo spirito Divino non è uno spirito che ama essere disoccupato.
Il secondo tramite il dono soprannaturale dello Spirito Santo tramite rivelazioni (carismi) tutti i profeti ( coloro che vedono con gli occhi della fede Dio) sono guide spirituali; il ns amato Signore ci ha insegnato e sensibilizzato a guardare l’uomo nella sua esteriorità e interiorità … corpo ed anima
mario
Buonasera
Primo non si possono mescolare aspetti storici e religiosi come fosse un omogeneizzato. Cosa c entrano i cristiani con i campi di sterminio? I cristiani dietro l ordine di Pio XII furono gli unici ovunque a salvare gli ebrei anche lasciandoci la vita.
Dialogo ecumenico? Ricordo al Prof un unico esempio recente di vero dialogo ovvero la conversione del Rabbino capo di Roma Zolli con il nome di Eugenio.
Ricordo anche che antigiudaismo non è antisemitismo . L antigiudaismo va combattuto dai cristiani visto che loro rifiutano Cristo come messia.
Tutti questi castelli di carta non fanno altro che creare anonimi agnostici. L unica Vera Rivelazione è quella cristiana il resto ebraismo compreso ha subito la scure alla radice. Da ultimo , interessare le persone? Ma se i cosiddetti cristiani dopo il CVII sono stati privati di qualsiasi fondamento dottrinale che cosa possono condividere se non essere aspirati da false piste senza sbocco e nel peggiore dei casi la perdita di quella tremolante fede che si ritrovano? Poi che senso può esserci se non l invito a chi non conosce o riconosce Cristo come unico Salvatore a convertirsi?
Temo che questa sua posizione non sia propriamente in linea con il magistero della Chiesa cattolica, almeno dal Concilio Vaticano II in poi. Ciò non toglie che lei la possa pensare come meglio crede al riguardo, ma il mio personale auspicio è che, pur con tutte le asperità che si incontrano cammino facendo, il dialogo ebraico-cristiano continui nel rispetto reciproco e che la Chiesa si impegni sempre più a fare in modo che anche tra i suoi fedeli maturi un più consapevole rispetto verso la cultura e la religione ebraica.