Il termine ecumenismo nasce in epoca precristiana: deriva dalla parola greca oikoumene, participio passivo del verbo oikein, abitare. In genere oikoumene, utilizzata come aggettivo, sottintendeva il sostantivo ghe, terra: a indicare dunque l’insieme dei territori abitati, contrapposti a quelli spopolati. È doveroso, peraltro, far risalire l’inizio del movimento ecumenico moderno al 1910, l’anno della Conferenza mondiale della Missione a Edimburgo. Qui i rappresentanti delle società missionarie protestanti, oltre 1.300 persone, si riuniscono per trovare rimedio a scandali e danni causati alla missione dalla divisione tra le Chiese, sulla scia dell’invito dello stesso Gesù nell’ultimo discorso ai suoi discepoli: «Che tutti siano una cosa sola» (Gv 17,21). Nel 1920, poi, una lettera del Patriarcato ortodosso di Costantinopoli è inviata a tutte le Chiese cristiane del mondo. Nello stesso anno un nuovo intervento, questa volta di parte anglicana: i vescovi riuniti a Lambeth pubblicano un appello a tutti i cristiani. Da allora, il percorso ecumenico si muoverà su due binari cruciali: quello del dialogo teologico e quello dell’ecumenismo pratico.
Un dono di Dio alla Chiesa del Novecento
Si è detto, con una formula fortunata, che l’ecumenismo è considerabile uno straordinario, quanto inatteso, dono di Dio alla Chiesa del Novecento. Perché – se l’Ottocento fu segnato dal rilancio in grande stile delle missioni in tutto il pianeta – l’incontro finalmente fraterno tra i mondi cristiani può essere ritenuto la cifra delle relazioni interecclesiali del secolo appena trascorso, persino al di là dei risultati effettivamente conseguiti. È lampante che oggi l’ecumenismo, dopo anni rigogliosi vissuti appena dopo la fine del Vaticano II, si manifesti in crisi, talvolta in panne, talaltra ridotto a un avvenimento di pure forme e non di sostanza. Mentre è altrettanto indubbio, a mio parere, che l’ecumenismo non possa più essere considerato un argomento esclusivamente ecclesiale, ma andrebbe pensato, vissuto, pregato, come un tema che possiede una fortissima valenza sociale. E persino politica. Su di esso – anche su di esso, certo – si gioca il domani dell’Europa, dov’è nato e si è sviluppato maggiormente, la quale non può permettersi di sottovalutare il potenziale formidabile delle Chiese cristiane nella costruzione di un continente autenticamente solidale, insieme unito e doppiamente aperto: sul futuro e sull’altro. Istanze entrambe che, non a caso, languono un po’ malinconiche, alle nostre latitudini.
Ecco perché, sfidando noia e disinteresse, ancora oggi (anzi, soprattutto oggi!), resta vitale interrogarsi sul domani dell’incontro fra i cristiani. Ben sapendo che si tratta di un cammino a caro prezzo, che pone le Chiese tutte di fronte alla loro costituzionale fragilità, alla fatica di incarnare il vangelo, alla consapevolezza di non riuscire a farlo, se non di tanto in tanto. Senza paura. E senza limitarsi a una scrollata di spalle, dato che si tratterebbe – e non è così – di materiale buono, al massimo, per i vari preti, pastori e pope ortodossi. Per gli specialisti di turno. O per gli incalliti nostalgici degli anni verdi del concilio…
Brunetto Salvarani ci accompagna lungo la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani con un medaglione quotidiano, nella rubrica «Unitatis redintegratio». È docente di Teologia della missione e del dialogo presso la Facoltà teologica dell’Emilia Romagna. Dirige il movimento e rivista CEM Mondialità e la rivista trimestrale QOL (di cui è anche cofondatore), nata per dare voce alla ricerca biblica, al mondo dell’ecumenismo, al dialogo ebraico-cristiano. Dirige inoltre la collana della EMI Parole delle fedi. È membro del comitato editoriale della trasmissione Rai Protestantesimo.