«Il vero ecumenismo si basa sulla conversione comune a Gesù Cristo come nostro Signore e Redentore. Se ci avviciniamo insieme a Lui, ci avviciniamo anche gli uni agli altri». Così, il 19 gennaio 2017, papa Francesco, ricevendo una delegazione della Chiesa luterana di Finlandia.
In realtà, che in un pianeta largamente multireligioso il vasto popolo cristiano, sparso per ogni continente, sia quanto mai frammentato e incapace di operare insieme, salvo eccezioni, sembra un dato che non fa problema. E non sgomenta – come dovrebbe – che tali divisioni rappresentino una contro-testimonianza gigantesca, fino a scoraggiare chi intenda avvicinarsi al messaggio di Gesù. Questioni di grande portata, complesse, eppure ineludibili. Che richiederebbero qualcosa di più di una risposta standard quale quella proveniente dalla celebrazione di eventi quali la – benemerita, certo – Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, dal 18 al 25 gennaio.
Sia chiaro, a scanso di equivoci: che la settimana ci sia e si celebri resta un fatto positivo, che nessuno intende sottovalutare. Permane, peraltro, la sensazione, soprattutto in chi da anni vi partecipa convintamente, di un’occasione non sfruttata appieno, e talora un po’ rituale: soprattutto quando capita che ad essa non segua un cammino congruente durante il resto dell’anno. Perché senza una teologia dell’eucaristia e del ministero all’altezza della sfida – per citare solo due aspetti decisivi – non si farà molta strada.
Anche se è un fatto, direi, che, nell’arco del suo pontificato, Bergoglio, coraggiosamente, si è lasciato ormai alle spalle il modello della pedagogia dei gesti di Giovanni Paolo II, che traduceva la traiettoria inaugurata da Nostra aetate, e il dialogo delle culture di Benedetto XVI, in risposta all’irrigidimento causato dal timore dello scontro di civiltà dopo l’11 settembre, per abbracciare un’autentica teologia dei gesti: ridisegnando così radicalmente il paradigma dell’incontro fra le Chiese, puntando sui tratti dell’esperienza spirituale, della preghiera, dell’ascolto, del servizio ai poveri, della carità. Del camminare insieme. In una parola: della teologia, non quella dei manuali ma quella – francescanamente – della vita vissuta.
Oltre le minoranze attive
In sintesi, quanto emerge dallo scenario del cristianesimo globale è che, oggi, non si può essere cristiani senza essere ecumenici: l’ecumenismo è inscritto nel futuro del cristianesimo tutto; e il suo futuro può solo essere ecumenico.
Purtroppo, però, bisogna altresì riconoscere che l’ecumenismo è ancora, in tutte le Chiese, un fatto largamente minoritario. Tanti dialoghi tra le Chiese sono in corso, non pochi sono i cantieri aperti, ma esse ragionano e agiscono ancora troppo spesso nel senso del monologo, come se ciascuna di esse fosse l’unica Chiesa esistente, al di là delle dichiarazioni di principio.
Difficile ignorare le gravi fratture in atto nelle Chiese ortodosse. Dopo l’autocefalia della Chiesa ucraina è in atto un pericoloso processo divisivo fra il ceppo ellenico e quello slavo (Costantinopoli – Mosca) che si riproduce in varie forme: dalla Francia agli USA, dai paesi baltici alla Corea del Sud e in tutta la diaspora.
Inoltre, qualche commentatore, a margine dell’ultima settimana, ha opportunamente posto in luce la necessità urgente di lavorare anche su un tipo particolare di ecumenismo, quello – per dir così – intra-cattolico: tra credenti di devozioni e fedeltà diverse, che lo stesso Francesco sta insistentemente spingendo a trovare il coraggio del confronto con l’altro e a rigettare le paure legate al settarismo.
Navigando per la rete, infatti, in quegli stessi giorni non era raro imbattersi in interventi di cattolici profondamente scandalizzati per lo slancio ecumenico eccessivo del papa, come se la sua cultura dell’incontro – autentica cifra di questo papato – non fosse altro che un arrendersi allo spirito dei tempi, o persino un indizio trasparente di un vero e proprio segnale di relativismo… in chiave di progressiva protestantizzazione del cattolicesimo attuale.
Mi chiedo: schegge impazzite o segnali di una frattura che sta ampliandosi, e che andrebbe affrontata con la dovuta parresìa? Difficile rispondere; mentre resta il fatto che ora, comunque, come ogni anno, la palla è nel campo di chi è chiamato a tradurre le istanze di apertura palesatesi durante la settimana nel quotidiano delle nostre comunità: vescovi, parroci, pastori, laici.
Sapremo mostrarci all’altezza di questo progetto, tanto ambizioso quanto necessario e indilazionabile? O preferiremo proseguire sulle strade sicure del già noto, senza aprirsi al dettato del futuro? Ecco le domande cruciale che ci consegna il dopo-settimana, dedicata significativamente al tema Ci trattarono con rara umanità (At 28,2), ispirato al brano del naufragio di Paolo a Malta e incentrato sulla virtù dell’ospitalità. Altro argomento divisivo o unica strada possibile da imboccare per ridare credibilità al messaggio evangelico nel tempo attuale?
Gesù è il vino vecchio e il vino nuovo (si veda: La Parola carne). Ogni riforma nella Chiesa è stata un tornare al vangelo venendo portati avanti in una più profonda comprensione di Cristo stesso. La Parola del vangelo è stata scritta 2000 anni fa ma è anche la Parola del futuro. Di una sempre più approfondita identità e di un sempre nuovo incontro.