Qual è lo stato di salute dell’ecumenismo, alla vigilia della tradizionale Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani (SPUC), durante la quale rifletteremo – aiutati dai materiali elaborati da un gruppo locale degli Stati Uniti d’America convocato dal Consiglio delle Chiese del Minnesota – attorno a Imparate a fare il bene, cercate la giustizia (Isaia, 1,17)?
Difficile rispondere in maniera precisa: non mancano i segnali contraddittori, che spingono i commentatori, di volta in volta, a ripristinare la classica immagine dell’inverno ahinoi seguito alla primavera conciliare, o a lanciarsi in lusinghiere previsioni sul suo domani, in una Chiesa futura che, in prospettiva, sarà ecumenica o non sarà.
Ecumenismo in tempo di guerra
Certo, scrutando l’orizzonte europeo, e segnatamente la situazione in casa ortodossa, non si può stare allegri. Fra Mosca e Costantinopoli, la Terza Roma e il Patriarcato ecumenico, l’annosa crisi legata all’invasione dell’Ucraina sta provocando una rottura drammatica le cui radici – in realtà – vengono da lontano, presentando il sapore amaro dello scisma interno: la tempesta avviatasi con il riconoscimento dell’autocefalia ucraina nel 2019 da parte di Bartolomeo I, patriarca ecumenico, si è ormai trasformata in un autentico uragano che sembra avere – almeno agli occhi della Chiesa russa – la gravità dell’antica frattura fra Oriente e Occidente del 1054.
Mentre a quanti si occupano di ecumenismo appare lampante la distanza siderale da un’epoca invero abbastanza vicina cronologicamente, quella delle Assemblee ecumeniche europee di Basilea, Graz e Sibiu (1989-2007). Il cambio d’epoca – come lo chiama papa Francesco – si sta verificando anche qui, e la sensazione diffusa è che, al di là della spinta impressa indubbiamente dallo stesso Bergoglio, occorrerebbero linguaggi nuovi, e nuovi contesti, soprattutto in vista di un maggiore coinvolgimento delle giovani generazioni (problema che peraltro, notoriamente, non riguarda solo il movimento ecumenico).
Sta di fatto che, paradossalmente, ben di rado come negli ultimi dodici mesi si è discusso pubblicamente così tanto di ecumenismo. Lo si fa, ovviamente, sull’onda della catastrofe ucraina: prese di posizione da più parti, articoli sui quotidiani, molti interventi in rete, in genere per denunciarne la profonda crisi.
Talvolta, persino la conclamata inutilità o addirittura la dannosità, sullo sfondo del traumatico palcoscenico bellico. Su Repubblica, ad esempio, è comparso un titolo definitivo (“La fine dell’ecumenismo”, il 27 aprile scorso, secondo il quale ne uscirebbe letteralmente in macerie “quel desiderio di unità visibile che aveva percorso il cristianesimo da fine Ottocento”).
Ma non sono mancate le tonalità ironiche, al limite del sarcasmo, quando ci si è avventurati a tratteggiare le trasparenti contraddizioni delle posizioni sostenute dal patriarca di Mosca, Kirill, con l’ideologia etnico-religiosa del Russkii mir (il mondo russo). In primo luogo si può notare che la cosa appare curiosa, in quanto va ricordato che l’ecumenismo è solitamente il parente povero delle discipline teologiche, come è facile verificare nei curricula di facoltà teologiche e istituti di scienze religiose.
Ecumenismo e identità della Chiesa
Ma anche nell’investimento rarefatto al riguardo, da parte di Chiese locali e diocesi, salvo felici eccezioni. Lo si scrive – sia chiaro – non per accusare chicchessia di lesa maestà nei confronti del dialogo fra le Chiese cristiane, ma per corroborare la seguente tesi: dovremmo semmai ripartire proprio dagli eventi di questi mesi, dai mancati incontri già annunciati fra Kirill e Bergoglio, ma anche e soprattutto dalle ragioni lontane della clamorosa rottura fra le Chiese sorelle di Mosca e Costantinopoli, per riflettere sulla necessità – agli occhi degli addetti ai lavori, sempre più evidente – di un nuovo, maggiore e diverso slancio ecumenico. A oltre sessant’anni dall’avvio del Vaticano II, che per la Chiesa cattolica rappresentò l’inizio di uno sguardo aperto verso gli altri mondi cristiani, con il decreto del 1964 Unitatis redintegratio.
Per intendere la portata della questione, in occasione della SPUC 2023, è necessario una volta di più sottolineare che si tratta di un tema cruciale per l’identità stessa della Chiesa.
L’unità dei credenti in Cristo non è soltanto una delle fondamentali notae Ecclesiae nel primo credo cristiano stilato al concilio di Nicea nel 325 (“Credo la Chiesa, una santa cattolica e apostolica”), ma anche il requisito decisivo in vista di una testimonianza credibile del vangelo nel tempo attuale che registra l’es-culturazione del cristianesimo dagli scenari culturali europei (come ammette il teologo Christoph Theobald).
Come possiamo essere fratelli tutti – sulla linea dell’enciclica del 2020 di papa Francesco – se non ci sentiamo e non viviamo, noi cristiani delle varie confessioni, da fratelli e sorelle, pur essendo fondati sullo stesso battesimo e sullo stesso credo, nonché fiduciosi nella stessa parola di Gesù contenuta nelle stesse Scritture?
Ecco perché l’ecumenismo dovrebbe finalmente uscire dagli scaffali degli specialisti per entrare stabilmente negli ordini del giorno dei consigli parrocchiali, dei movimenti ecclesiali, dell’attuale Cammino sinodale, di quella che si chiama(va) la pastorale ordinaria, e così via. Vasto programma, certo, ma anche indilazionabile.
Ne è convinto il papa, che per l’ennesima volta il 6 maggio scorso – parlando al Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani – si è espresso nel merito in termini perentori: “Nel secolo scorso, la consapevolezza che lo scandalo della divisione dei cristiani avesse un peso storico nel generare il male che ha avvelenato il mondo di lutti e ingiustizie aveva mosso le comunità credenti, sotto la guida dello Spirito Santo, a desiderare l’unità per cui il Signore ha pregato e ha dato la vita”.
E ancora: “Oggi, di fronte alla barbarie della guerra, questo anelito all’unità va nuovamente alimentato. L’annuncio del vangelo della pace, quel vangelo che disarma i cuori prima ancora che gli eserciti sarà più credibile solo se annunciato da cristiani finalmente riconciliati in Gesù, Principe della pace; cristiani animati dal suo messaggio di amore e fraternità universale, che travalica i confini della propria comunità e della propria nazione”.
A proposito della temperatura dell’ecumenismo, è da tempo invalso l’uso di ricorrere alle immagini meteorologiche, per cui si è a lungo riferito dell’inverno ecumenico, o almeno di un autunno quanto mai grigio, seguito alla primavera densa di speranze (anzi, alla vera e propria euforia ecumenica) che caratterizzò la stagione conciliare e i suoi immediati dintorni.
Quando diversi fattori incisero nelle coscienze di tanti cristiani, singoli o riuniti in gruppo, delle varie confessioni, fino a far pensare come imminente il momento in cui la Chiesa sarebbe tornata (meglio che diventata!) una: la pressione di base di numerose comunità ecclesiali, una buona elaborazione teologica in progress, ma anche il clima culturale generale degli anni Sessanta e Settanta, ben disposto, nonostante mille contraddizioni, al dialogare, alla ricerca della pace e della giustizia su scala planetaria, al superamento delle discriminazioni fra i popoli e all’interno delle singole nazioni.
Non andò così. Anzi, i successivi e impetuosi processi di globalizzazione, resi obsoleti i classici strumenti di analisi sociopolitica, avrebbero concorso a rendere il pianeta ancor più squilibrato, preda di reciproche paure e diffidenze, incapace di guardare positivamente al futuro e – soprattutto a partire dalla tragedia dell’11 settembre 2001 – convinto in tante sue componenti di stare vivendo un autentico scontro di civiltà. In cui anche i nuovi protagonismi sociali e politici delle compagini religiose (la rivincita di Dio constatata da Gilles Kepel nel 1991), più che favorire dinamiche di vicendevole accoglienza e d’incontro pacificato, hanno alimentato il proliferare di chiusure identitarie e fondamentalismi violenti. Da più parti, così, si è cominciato a parlare di un’epoca post-ecumenica… Fino all’oggi.
Attori ecumenici
Quando, a monte, si continua coraggiosamente a ripetere che, in un mondo globalizzato e in crisi su più fronti ivi compreso quello pandemico, così come gli italiani, crocianamente, non possono non dirsi cristiani, non possiamo non dirci ecumenici; ma a valle si stenta a trovare, da parte degli attori coinvolti, un linguaggio comune e una traiettoria condivisa per tradurre nel concreto le spinte (in calo, ma ancora presenti, come testimonia fra l’altro l’instancabile lavoro di base del SAE, Segretariato Attività Ecumeniche) provenienti dal basso.
Il teologo evangelico Oscar Cullmann, peraltro, già decenni or sono sosteneva che l’impazienza ecumenica – “le cose non progrediscono abbastanza celermente” – potrebbe rivelarsi persino nociva alla causa dell’unità, rischiando di sottovalutare i progressi vissuti, “sorprendenti e irreversibili dopo una separazione di molti secoli”. Per questo, si potrebbe dire che tutto (o almeno molto!) dipende dal punto di riferimento che assumiamo per valutare la fase odierna.
In ogni caso, e a dispetto di ogni comprensibile lamento sulle sue innegabili battute d’arresto, non si può non tener conto del fatto che parecchio di quanto si è riusciti a conseguire con tanta fatica nel convivere dei cristiani è divenuto ovvio, naturale. Ad esempio, i leader delle Chiese si esprimono non di rado insieme su questioni sociopolitiche ed etiche, si celebrano a una sola voce le giornate del dialogo con ebrei e musulmani, le comunità si riuniscono per funzioni ecumeniche, e coppie di sposi di confessione mista pronunciano il fatidico sì in liturgie comuni e sempre meno sorprendenti.
Il suo successo maggiore – alla fine – sta nel fatto che l’idea ecumenica non è rimasta solo un’idea, ma ha assunto forme di vita. Anche l’ecumenismo istituzionalizzato, che pure risulta affaticato ed è talora messo in discussione, è in grado, nonostante tutto, di esibire una storia di discreti successi. Nel complesso, perciò, il bilancio, senza dimenticare tante questioni ancora inevase e altrettanti problemi irrisolti, a cominciare dall’intercomunione, è senz’altro positivo.
Del resto, se l’ecumenismo, inteso come processo di riunificazione delle Chiese cristiane dopo le tante fratture interne avvenute nel corso della storia, sta attraversando oggi una complessa fase di transizione, contrassegnata ora da chiusure identitarie, ora da aperture insperate, in occasione di ogni SPUC annuale siamo chiamati a ricordarci a vicenda che le lentezze e la precarietà di tale cammino mettono in discussione la stessa azione missionaria del cristianesimo.
E dunque, allargando l’ottica, il suo senso nel mondo attuale. Va detto che il fatto la SPUC si sia radicata come appuntamento fisso, e che si tenga con la presenza determinante delle diocesi e delle chiese locali, resta un dato positivo, che nessuno potrebbe sognarsi di sottostimare. Permane peraltro la sensazione, soprattutto in chi da anni vi partecipa convintamente, di un’opportunità non sfruttata appieno, e talvolta un po’ rituale: in particolare quando, e capita, a essa non segua un cammino congruente durante il resto dell’anno, con un’attenzione non solo episodica alle dinamiche ecumeniche e ai rapporti con le altre Chiese.
Come argomentava tempo fa sul settimanale Riforma il pastore Luca Negro, fino all’anno scorso presidente della Federazione delle Chiese evangeliche in Italia, riferendosi appunto alla SPUC: “Ne abbiamo fatto una riserva, un ghetto, non in senso spaziale ma temporale. Per una volta all’anno, diventiamo tutti fratelli e sorelle, riscopriamo la nostra vocazione all’unità. Nel resto dell’anno, fondamentalmente, ogni Chiesa continua a farsi i fatti suoi”.
In ogni caso, a differenza di quanto commentano i soliti siti tradizionalisti e antibergogliani, quanto sta accadendo sul fronte ecclesiale richiama semmai la necessità di lavorare, sempre più e sempre meglio, nel sostegno al dialogo ecumenico. Rifiutando i toni da crociata e la prospettiva di qualsiasi guerra di religione. Nella consapevolezza che esistono naturalmente sensibilità diverse, con un peso della storia che grava soprattutto sull’ortodossia, ma anche che all’ecumenismo non possiamo rinunciare, per la clamorosa testimonianza antievangelica che deriva dai conflitti che intercorrono tra le Chiese cristiane.
Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani
Tornando alla SPUC, com’è noto nell’emisfero settentrionale essa si svolge dal 18 al 25 gennaio. Fu avviata ufficialmente dal reverendo episcopaliano Paul Wattson a Graymoor (New York) nel 1908 come Ottavario per l’unità della Chiesa, auspicando che divenisse pratica comune, con un trasparente significato simbolico: apertura in coincidenza con la memoria della cattedra di san Pietro, mentre la chiusura si collega alla memoria della (cosiddetta) conversione di san Paolo.
Il contesto in cui sono stati redatti i testi di accompagnamento per la SPUC 2023 incentrati, come dicevamo, sul versetto isaiano Imparate a fare il bene, cercate la giustizia, è quello dell’uccisione di George Floyd, avvenuta il 25 maggio 2020 a Minneapolis. I membri del gruppo locale del Minnesota, si legge nel Sussidio appositamente predisposto, sperano che la loro esperienza personale di razzismo e denigrazione come esseri umani possa servire quale testimonianza della disumanità di cui possono mostrarsi capaci i figli di Dio, nei confronti del proprio prossimo.
Ma c’è anche un profondo desiderio interiore che, come cristiani che incarnano il dono di Dio dell’unità, si indirizzino e sradichino le divisioni che impediscono di comprendere e sperimentare la verità che tutti apparteniamo a Cristo. “Per anni – si legge nel documento da loro stilato – il Minnesota ha patito alcune delle peggiori discriminazioni razziali della nazione: nel 1862 fu teatro, ad esempio, della più grande esecuzione di massa nella storia degli Stati Uniti, quando trentotto indigeni Dakota furono impiccati a Mankato, il giorno dopo Natale, dopo la guerra USA–Dakota.
Mentre si preparavano a morire, i trentotto Dakota cantarono l’inno Wakantanka taku nitawa (Molti e grandi), una versione del quale (anche italiana) è inclusa nel Sussidio per la celebrazione della Settimana. Più recentemente, il Minnesota è stato l’epicentro della resa dei conti razziale.
Quando il Covid–19 ha chiuso il mondo nel marzo del 2020, l’omicidio di un giovane afro–americano, George Floyd, per mano di un agente di polizia di Minneapolis, Derek Chauvin, ha fatto scendere in piazza gente in ogni parte del mondo, uniti nel sentimento di giusta indignazione, per protestare contro l’ingiustizia di cui erano stati testimoni in televisione. Chauvin, licenziato subito dopo l’assalto, è diventato il primo agente di polizia nella storia moderna condannato, in primo grado, per l’omicidio di un afro–americano in Minnesota”.
La storia del maltrattamento delle comunità di colore negli Stati Uniti, continua il documento, “ha creato disuguaglianze di lunga data e fratture relazionali tra le comunità. Di conseguenza, la storia delle Chiese negli Stati Uniti include le questioni razziali come un importante fattore di divisione ecclesiale; in altre parti del mondo, questo stesso ruolo è svolto da altre questioni non dottrinali”.
Ecco perché il lavoro teologico sull’unità portato avanti dalla Commissione Fede e costituzione del Consiglio ecumenico delle Chiese (CEC) ha cercato di tenere insieme la ricerca dell’unità delle Chiese e la ricerca del superamento dei muri di separazione, come il razzismo, all’interno della famiglia umana. Ed ecco perché pregare insieme oggi, e specialmente pregare insieme per l’unità dei cristiani, assume un significato ancor più importante quando lo si mette al cuore delle lotte contro ciò che ci separa come esseri umani creati con pari dignità a immagine e somiglianza di Dio.
Bello.
Purtroppo la storia umana insegna che l’unità religiosa non garantisce la pace e la giustizia.
In epoca di cristianità le guerre, le ingiustizie e le crudeltà non sono mancate.
Infine la Chiesa Cattolica Romana, per dirla come un inglese, è molto divisa al proprio interno, come potrà lavorare per una unità che non conosce?
Bene sarebbe imparare a riconoscere ognuno l’amore dell’altro per Cristo.
Tu “progressista” consentimi di pregare in latino, io “tradizionalista” riconosceró la legittimità delle tue posizioni.
Purtroppo non accadrà.
Allora cercheremo una formale unità fra cristiani essendo divisi fra cattolici.
Ironico e drammatico.
ereditiamo una visione inconscia del cattolicesimo romano come ‘blocco monolitico’
ergo le varie fazioni ecclesiali tentano di eliminare quelle correnti più distanti da loro: e questo sia i progressisti che i tradizionalisti
forse è il momento di apprezzare la diversità
Si forse è giunto il momento.
Speriamo che lo capiscano quelli che comandano.
Quadro esaustivo di un processo in atto che va sostenuto con continuità ed impegno adeguati nell’intera attività pastorale e non 7 giorni all’anno. La stessa sola riflessione sulle difficoltà e sulle opportunità della prospettiva unitaria può qualificare ed alimentare un’analisi non banale della situazione attuale del cattolicesimo, attraversato da tensioni e difficoltà non solo “pastorali”, ma più profondamente “dottrinali”.