La notizia che papa Francesco ha invitato l’arcivescovo di Canterbury ad unirsi a lui per una visita in Sud Sudan è arrivata come una piacevole sorpresa. Il santo padre è stato alquanto generoso in questo tipo di sorprese e ha fornito molti esempi di quelli che il Mahatma Gandhi chiamerebbe «atti creativi». Sono atti contro-intuitivi e inaspettati ma aperti a nuove possibilità.
Un gesto controcorrente
Per usare un termine informatico, le impostazioni di un’istituzione sono normalmente settate secondo gli interessi dell’istituzione stessa. I buoni leader sono giudicati dal fatto che riescono ad anticipare gli interessi dell’istituzione, ne proteggono l’identità e ne consolidano l’immagine pubblica. I grandi profeti hanno fatto spesso l’esatto opposto. Essi confidano in Dio senza alcuna vergogna e, inoltre, sono autocritici verso le istituzioni che agiscono a suo nome; portano su di sé le sofferenze degli altri e sono sempre criticati da quanti temono che il loro comportamento possa minare l’istituzione. Quando le parole e la predicazione falliscono, essi conoscono bene il significato di “azione creativa”, che parla molto più delle parole.
Lo si può vedere spesso nella vita di nostro Signore, che ha dovuto affrontare critiche da parte di quelle persone zelanti che volevano proteggere l’istituzione. I farisei erano persone benintenzionate e preoccupate di custodire ortodossia e identità, purezza, correttezza delle procedure e di mantenere l’integrità dell’autorità costituita e delle sue strutture. Mangiare con i peccatori, toccare un lebbroso o guarire in giorno di sabato non avevano senso secondo quel modo di pensare ma annunciavano una nuova e meravigliosa realtà: che Dio cercava di «riconciliare il mondo a sé».
Sono cresciuto in un luogo in cui i cristiani erano minoranza (il Sudafrica) e, seppure io sia professore di storia della Chiesa, una delle cose più difficili da spiegare ai non cristiani è come mai vi siano così tante confessioni cristiane. È difficile spiegare ad un amico hindu perché tutti questi cristiani che si dicono parte dell’unica Chiesa e che cercano di seguire il Cristo abbiano così tante etichette: cattolici, anglicani, ortodossi, battisti, congregazionalisti, presbiteriani, ortodossi ecc.
Ovviamente, uno storico della Chiesa può spiegare la frammentazione, ma solo ricordando le lotte politiche dell’Europa del XVI secolo: il che è incomprensibile ai cristiani dell’Africa. Come san Paolo resistette a san Pietro riguardo alla richiesta che i gentili dovessero diventare prima giudei e solo in un secondo momento realmente cristiani, non dovrebbero comportarsi in maniera analoga i cristiani dell’Africa o di culture extra-europee? O, al contrario, dovrebbero leggere la storia della loro fede attraverso il prisma dei conflitti europei e delle risultanti divisioni? Dovrebbero forse pensare al cristianesimo in base all’esperienza europea se intendono comprendere la continuità tra la loro storia, le loro precedenti affiliazioni religiose e l’essere cristiani oggi?
Due mandati di Gesù
Cristo ci ha dato due chiare missioni: la prima è di andare in tutto il mondo a predicare il vangelo, cominciando da Gerusalemme, dalla Samaria e andando fino agli estremi confini della terra. La seconda: ci ha pregato di essere «una cosa sola». Sembra che, ad oggi, noi abbiamo raggiunto soprattutto il primo mandato, dal momento che la cristianità è ora il fenomeno più globalizzato, assai più della democrazia o del capitalismo. Eppure, nel medesimo lasso di tempo, siamo diventati più frammentati e divisi.
In questo contesto, possiamo comprendere il perché di questa gradita sorpresa: coloro che sono leader della nostra fede uniscono le mani e sono insieme a dare una differente testimonianza alle divisioni dell’Europa. Noi abbiamo esportato a livello globale le nostre divisioni; non sarebbe più gradevole esportare un diverso messaggio di unità della nostra fede? Questo è il motivo per cui questa visita comune promette di essere un creativo atto di salvezza.
Il prof. Gerald Pillay, vicecancelliere e vicerettore, è direttore accademico e funzionario amministrativo della Liverpool Hope University. Cittadino della Nuova Zelanda, è nato a Natal, allora colonia inglese nel Sudafrica. Ha acquisito il dottorato in filosofia alla Rhodes University e il dottorato in teologia all’Università di Durban-Westville. È divenuto docente di storia ecclesiastica presso l’Università del Sudafrica nel 1988. Nel 1997 è divenuto capo del Dipartimento di teologia e studi religiosi all’Otago University, la più antica università della Nuova Zelanda. Il prof. Pillayè assunto l’incarico di rettore del Collegio della Liverpool Hope University nel 2003 ed è divenuto primo vicecancelliere della Liverpool Hope University quando l’istituzione accademica ha ottenuto il riconoscimento pieno dello statuto di università.