Per decisione del presidente della Federazione Russa Vladimir Putin, l’icona della Santissima Trinità di Andrej Rublëv – la più prestigiosa e nota della tradizione ortodossa – sarà presto tolta dalla galleria Tretjakov per essere esposta nella cattedrale moscovita di Cristo Salvatore e quindi, in via stabile, nella Chiesa della Trinità della lavra di San Sergio (cf. SettimanaNews, qui). Il professor Tagliagambe presenta qui la specificità “sacramentale” dell’icona nella tradizione russo ortodossa.
L’icona della Santissima Trinità di Andrej Rublëv, celeberrimo monaco-pittore, iconografo e miniaturista, venerato come santo dalla Chiesa ortodossa russa, è la più famosa rappresentazione della Trinità nella storia dell’arte. Realizzata probabilmente attorno al 1422, in occasione della canonizzazione del fondatore del Monastero della Trinità di San Sergio, dove Rublëv viveva, è considerata, per la sua bellezza e importanza, l’Icona delle icone.
La scena centrale dell’icona proviene dal libro della Genesi, laddove Abramo accoglie tre estranei nella sua tenda: «Poi il Signore apparve a lui alle Querce di Mamrè. Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide, corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò fino a terra. Prese latte acido e latte fresco insieme con il vitello, che aveva preparato, e li porse a loro. Così, mentre egli stava in piedi presso di loro sotto l’albero, essi mangiavano» (da Genesi 18, 1-8).
Il simbolismo di un’icona
L’icona di Rublëv raffigura questa scena con i tre angeli, seduti attorno a un tavolo. Sullo sfondo è la casa di Abramo e un albero di querce che si trova dietro i tre ospiti: l’artista ha usato l’episodio biblico per fare una rappresentazione puramente simbolica della Trinità, conforme alle rigide linee guida della Chiesa Ortodossa russa, per la quale rappresentare la Santissima Trinità nell’arte è sempre stato motivo di controversia, in quanto si riteneva che le immagini usualmente proposte non rendessero in alcun modo giustizia al mistero insondabile del Dio “uno e trino”.
Il simbolismo dell’immagine è complesso e riassume le posizioni teologiche sulla Santissima Trinità. Le tre Persone della Trinità vengono mostrate in forma angelica: i tre angeli sono identici ma ognuno indossa un indumento diverso, per rappresentare contemporaneamente sia la sostanziale unità, sia la distinzione. Sono dotate di aureola e siedono attorno a un tavolo che ricorda un altare, su cui è posato un calice che contiene il vitello che Abramo ha preparato per i suoi ospiti.
La loro posizione è tale da iscriverle in una ideale circonferenza – simbolo di perfezione divina – all’interno della quale è possibile scorgere pure un ideale triangolo inscritto – altro simbolo trinitario – i cui lati lambiscono la figura centrale. I due angeli a destra dell’icona hanno la testa leggermente chinata verso l’altra, per illustrare il fatto che il Figlio e lo Spirito provengono dal Padre.
La rappresentazione delle tre figure della Trinità attraverso i tre angeli è in sintonia con l’idea che l’invisibile, essendo inaccessibile ai sensi e allo stesso pensiero, può essere raffigurato solo in forma indiretta. L’immagine risultante è l’espressione concreta del modo in cui gli uomini possono partecipare a questo mistero, come scrive San Paolo nella II lettera ai Corinzi: «E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore» (2 Cor. 3, 18).
Identità e distinzione
L’icona è dunque strumento di partecipazione e di trasformazione, è il mezzo grazie al quale, come dice Gregorio di Nissa, «essendosi avvicinata alla luce, l’anima si trasforma in luce»,[1] ciò che permette all’uomo di diventare pneumatoforo, “portatore dello Spirito”, tempio dello Spirito, fino a partecipare alla natura di Dio.
Come scrive Pavel Florenskij, che dello spirito genuino dell’ortodossia è un esponente geniale e originale, questa specifica modalità di rappresentazione porta alla costituzione di uno spazio che è, contemporaneamente, parte del reale e distinto dalla realtà. Uno spazio nel quale «si incontrino immanenza e trascendenza, profondità e altezza, le cose di questo e le cose dell’altro mondo, l’assoluto e il relativo, il corruttibile e l’incorruttibile». Questo spazio «è una finestra nella nostra realtà dalla quale si vedono gli altri mondi. È una breccia nell’esistenza terrena dalla quale irrompono le correnti dall’altro mondo, nutrendola e rinvigorendola. In breve: questo spazio è il culto».[2]
Quando si entra in questa dimensione: «ciò che è invisibile e misterioso è percepito dalla contemplazione sensibile; rivestito dall’empirico, esso si dispone secondo le linee proprie dell’invisibile. Entrando nella sfera del culto, il sensibile vive e s’intreccia non già secondo dei legami a esso immanenti, ma secondo altri, diventando parte di un’altra struttura, una struttura trascendente, che ha leggi proprie e sue particolari connessioni. La realtà sensibile è progressivamente attirata verso altri nessi, inconsueti e inconcepibili, verso relazioni inattese e, da quel momento in poi, è come sostenuta da altre forze: staccandosi dalle sfere dell’attrazione terrestre cessa di essere terrena e soltanto sensibile.
Come non possiamo definire semplicemente superficiale e inerte quel cibo che entra a far parte dell’organismo e, una volta assimilato, manifesta sensibilmente la sua forma vitale fino a quel momento invisibile, così ciò che è terreno, entrando nella sfera del culto, cessa di essere terreno. Pur essendo, da un punto di vista materiale, essenzialmente terreno nella sua caratterizzazione particolare, all’interno della visione propria del culto, nell’aura di mistero che lo circonda, avviene e prende forma qualcosa d’altro, di santo, di consacrato, di trasformato, di transustanziato: è il mistero stesso.
Ma ripeto il culto, strano e incomprensibile a guardarlo dal basso, visto dall’alto verso il basso, appare in tutta la sua integrità e unità. È come se gli elementi della realtà sensibile fossero distrutti dal turbine che si è abbattuto su di essa, piegati da una forza incomprensibile, smembrati e ricomposti per essere poi riuniti in nuovi segni ancora indecifrabili, mai visti prima, del mondo misterioso. Solo innalzandoci verso l’alto potremo contemplare il loro quadro nella sua interezza. Una forza trascendente racchiusa in essi li ha strutturati secondo leggi che non provenivano dalla loro essenza, sebbene la sottintendessero; questa forza è quel filo che collega il celeste e il terreno».[3]
Il segno e il senso
Siamo così di fronte a quella che possiamo chiamare, a tutti gli effetti, una specifica “realtà aumentata” che riesce a dilatare e ad amplificare il significato sia dei singoli elementi di cui si vale per la rappresentazione, sia della loro organizzazione complessiva. Si tratta di un potenziamento che già l’arte riesce a effettuare, in quanto «l’artista riempie di un certo contenuto una data regione dello spazio, la carica a forza di un contenuto, costringendo lo spazio a cedere e a contenere più di quanto contenga di solito senza questa violenza».[4]
Ma è soprattutto con il culto e nel culto che esso si manifesta in pieno, proprio perché il culto è quel luogo dove «questo mondo si consegna, per così dire, ad altri mondi più elevati, diventa il loro rappresentante e, in un certo senso, il loro portatore; rifiutando l’autoaffermazione, il suo esistere per sé stesso, esso diventa vita per un altro mondo.
Con ciò stesso, tale mondo sensibile “dopo aver perso la sua vita” dopo esser diventato lo strumento di un altro mondo, con il suo corpo, lo porta in sé, incarna in sé l’altro mondo, oppure lo trasfigura, lo spiritualizza. […]. Questo mondo, in seguito a questa perdita dell’autonomia e del suo carattere di autosufficienza, illuminandosi del fuoco dell’altro mondo, diventa esso stesso di fuoco; è come se si mescolasse con il fuoco».[5]
Per poter acquisire e dispiegare a pieno questa sua potenza di trasformazione e trasfigurazione degli elementi dell’esperienza quotidiana e di fondamento della capacità transitiva dal mondo visibile al mondo invisibile, il culto, con i suoi riti e servizi religiosi, ma anche con riferimento all’ambiente in cui si svolge, deve però assumere la veste e la dimensione di una totalità organica e artistica, in cui ciascuna parte assume un senso specifico ed è gratificata solo in riferimento all’intero contesto.
È proprio quello che avviene nella liturgia ortodossa, dove «Parola (slovo) Icona (ikona) e Musica (salmi cantati, cheruvim) sono realtà intimamente legate, nel senso di una profonda corrispondenza incentrata sull’immagine o rappresentazione. Sono orientate verso l’alto, verso il mondo spirituale, verso l’armonia celeste, verso l’assoluto: l’icona è “finestra sull’assoluto”, la parola è “finestra sull’assoluto”.
Immagine e liturgia
L’icona delle grandi feste completa i testi liturgici. Durante la liturgia cantata, il prete mette l’icona su un leggio. La vista e l’udito sono, così, uniti: l’orecchio vede e l’occhio ode. L’icona va ascoltata perché vi si manifesti la parola. L’immagine dell’icona e il suono della parola sono potenziati dalle note musicali che ne sostanziano l’esperienza in una totale sinestesia».[6]
L’icona costituisce dunque la modalità della rappresentazione mediante la quale i corpi dei santi e le loro vesti, grazie all’intervento della luce taborica, vengono trasfigurati, spiritualizzati dando luogo a uno spazio che è intermedio tra il visibile e l’invisibile proprio perché, in virtù della trasfigurazione operata, il primo si innalza verso il secondo e la dimensione del sacro si approssima nel massimo grado possibile alla realtà fenomenica.
Si può così realizzare una convergenza tra questi due mondi che consente, come anticipato, il passaggio dal concetto di contemplazione a quello di partecipazione attiva e di conseguente trasformazione.
L’icona, pertanto, non vuole e non può essere la rappresentazione dell’invisibile nel visibile, di ciò che è celeste in ciò che è terreno, annullando lo scarto e l’attrito tra queste due dimensioni.
Il fondo dorato, che generalmente la contraddistingue, fa riferimento all’Assoluto, alla simmetria assoluta nella quale sono contemplate e contenute tutte le possibilità senza privilegiarne alcuna, senza che vi si possa riscontrare alcun principio d’ordine, e vuole esprimere l’impossibilità di calare il sacro nel paesaggio così come viene percepito nel nostro vissuto. La sua funzione è quella di cercare di cogliere e far percepire lo sdvig, lo spostamento e lo scarto che sussiste tra i due mondi nei quali si svolge la vita dell’uomo, quello terrestre del visibile e quello celeste dell’invisibile.
Questo scarto mette l’uomo in condizione di vedere con occhi nuovi la natura, che pur restando tale, come evidenziato, viene percepita come abitata dall’infinito e dall’invisibile, evocati quale suo fondamento. Lo sguardo dell’artista dell’icona riesce ad afferrare questo scarto, spingendosi oltre il visibile, per cogliere ciò che traspare e che traluce, effetto della luce taborica, la quale splende attraverso questa fessura e trasfigura tutto ciò che illumina.
Quella taborica è una luce di trascendenza, diretta sull’invisibile, più che sul visibile, che, illuminando quest’ultimo, lo mette in secondo piano, lo oscura, lo rende opaco, evanescente, lo riduce ai minimi termini della visibilità e della riconoscibilità, pur senza cancellarlo, per aprire lo sguardo verso una nuova dimensione.
Lo scarto
Intesa in questo senso l’icona è quindi uno strumento volto a concentrare l’attenzione sullo sdvig, sullo scarto e sullo spazio tra cielo e terra, che diventa uno “spazio attraverso”, che per essere visto richiede la capacità di guardare, appunto, da una parte all’altra e di aprire così a inesauribili e inedite possibilità.
Concentrare l’attenzione sullo sdvig, sullo scarto, sulla fessura ci riporta pertanto alle origini del pensiero simbolico, all’idea di vuoto e di assenza che però, come si è visto, non sono un nulla, in quanto si riferiscono a una frattura da ricomporre, a un confine che separa e distanzia, ma nello stesso tempo unisce attraverso la precisa rispondenza dei bordi.
Per conseguire l’effetto ricercato – di porre al centro dell’attenzione e rappresentare il nesso e l’interazione tra infinito e finito, tra visibile e invisibile, mostrando come il mondo terrestre venga trasfigurato dalla luce divina – l’arte dell’icona fa un uso frequente, seppure non esclusivo, della prospettiva rovesciata, che disorienta l’uomo della cultura moderna europea, il cui occhio è abituato alla prospettiva lineare reintrodotta nell’arte tra il XIII e il XIV secolo. Rinunciando all’illusione dello spazio, rifiutando le ombre e collocando il punto di fuga verso lo spettatore, l’icona si rivolge direttamente a quest’ultimo, favorendone l’incontro con la divinità.
Anziché ricercare l’effetto della profondità e l’illusione di veridicità dello spazio raffigurato si privilegia il processo di trasmissione del messaggio del quadro al credente, che viene quindi coinvolto direttamente nella rappresentazione, in una sorta di interazione diretta e continua tra l’oggetto della percezione visiva e il soggetto che la esercita.
Un esempio particolarmente illuminante e significativo di questo uso della prospettiva rovesciata è questa icona del XV secolo, La deposizione nel sepolcro:
Qui, sul primo piano dell’icona, viene rappresentato il sepolcro, con il corpo di Cristo avvolto in fasce dentro di esso. La Madre di Dio è china su di lui, nell’atto di stringere il suo volto a quello del Figlio. Accanto a lei si china sul corpo del Maestro il suo discepolo amato, l’apostolo Giovanni. Appoggiando il mento sulla mano, guarda con dolore il volto di Gesù Cristo. Dietro a Giovanni, in atteggiamento addolorato, sono rappresentati Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo.
Alla loro sinistra stanno le donne, che hanno portato l’olio. Questa scena piena di dolore è messa sullo sfondo fatto di “monticelli da icona” dipinti, appunto, nella prospettiva rovesciata: questi monticelli si spargono radialmente “in profondità”.
Spazio aperto
La prospettiva rovesciata crea qui un effetto straordinariamente forte: lo spazio si apre in larghezza e in profondità, in alto e in basso, così fortemente che quello che succede sotto gli occhi dello spettatore acquisisce una dimensione cosmica. Le mani alzate di Maria Maddalena sembrano unire il posto dove si trova il sepolcro del Signore con tutto l’Universo.
L’attenzione dello spettatore – attraverso il sudario brillante di un candore non terrestre – è attirata, verso il corpo di Cristo avvolto in esso. I dettagli delle parti basse dei vestiti di Giovanni e di Maria Maddalena sono dipinti in modo tale da sembrare fiamme scure che si alzano sul chiaro sfondo del rosso omophorion (manto) di Maria Maddalena. Queste mani alzate in posa tragica portano dietro a sé lo sguardo lassù, in alto, dove si distende un altro mondo. I bordi dei monticelli da icona discendono tuttavia come raggi in giù, verso il sepolcro, e fanno tornare di nuovo lo sguardo al corpo di Cristo, il centro dell’universo.
La prospettiva rovesciata, proprio perché situa il punto di fuga in avanti, all’esterno della rappresentazione, verso lo spettatore, ha lo straordinario effetto di creare uno spazio intermedio tra il quadro e lo spettatore. La presenza di questa autentica interfaccia tra l’icona e chi la guarda produce un totale coinvolgimento dell’osservatore nella scena rappresentata. Viene così erosa la tradizionale linea di demarcazione tra osservatore e osservato e lo spettatore si sente pienamente partecipe dello scenario proposto dal monaco artista.
In questa modalità di rappresentazione tra l’infinito e il finito, tra l’invisibile e il visibile, tra il sacro e il profano due aspetti acquistano particolare rilievo: il primo è la funzione della luce quale strumento di trasfigurazione del mondo della realtà quotidiana e dell’effettualità; il secondo è la diversa modalità di rapporto col sacro, ove al concetto di contemplazione subentra quello di partecipazione.
Guerra e identità religiosa
Questi aspetti furono oggetto di un’aspra controversia, nel XIV secolo, tra il monaco greco calabrese Barlaam, filosofo e umanista, giunto a Costantinopoli nel 1338, e Gregorio Palamas, che era stato per anni a fare vita ascetica sul monte Athos ed era diventato sacerdote a Tessalonica. La dottrina di Palamas fu autorevolmente approvata dal Pròtos e da molti igumeni e monaci dell’Athos nella formulazione chiamata Tomo Aghioritico del 1341.
La controversia fu chiusa nel sinodo della Chiesa ortodossa del 1351, che dichiarò la concezione di Gregorio Palamas dottrina ufficiale della Chiesa medesima. Questa decisione fu confermata nel 1368 dal patriarca Filoteo Kokkinos, che proclamò santo Palamas, morto nel 1359. In seguito alla condanna della sua posizione, Barlaam uscì dalla scena di Costantinopoli, si rifugiò in Occidente dove fu elevato all’episcopato e per breve tempo fu l’insegnante di greco di Petrarca.
La vittoria di Palamas segnò la sopravvivenza dei tratti più genuini e caratteristici della spiritualità ortodossa di fronte alla penetrazione, anche nel mondo bizantino, della filosofia scolastica occidentale e dell’umanesimo.
La restituzione alla Chiesa russa ortodossa della icona della Santissima Trinità di Andrej Rublëv da parte del Cremlino proprio in questa fase di acuta tensione con il mondo occidentale nel suo complesso, è dunque un chiaro segnale di orgogliosa rivendicazione dell’identità e della specificità della religione ortodossa e della cultura russa nel suo complesso nei confronti soprattutto dell’Europa, colpevole – secondo la lettura fornita dal governo russo dei tragici eventi di quest’ultimo anno – di aver assunto una posizione di totale subordinazione e di resa alla logica imperialistica degli Stati Uniti.
[1] Gregorio di Nissa, Cantica Canticorum homilia VIII, PG 44, 941C.
[2] P.A. Florenskij, Il timore di Dio, in Id., Il cuore cherubico. Scritti teologici e mistici, Piemme, Casale Monferrato (TO) 1999, p. 270.
[3] Ivi, pp. 299-300.
[4] P. A. Florenskij, Lo spazio e il tempo nell’arte, Adelphi, Milano 1995, p. 53.
[5] P. A. Florenskij, Empiria ed empirismo, in Id., Il cuore cherubico, cit., pp. 101-102.
[6] D. Ferrari-Bravo, La parola e l’icona. Dalla verità della conoscenza alla verità della visione e ritorni in Pavel Florenskij, ‘Humanitas’ 4 (2003), pp. 620-621.
Grazie, Silvano per questa tua chiara e illuminante analisi del Mistero. Con immutato affetto, Nico Grillo