Nel dopo-concilio, molte sono state le iniziative ecumeniche, tese a migliorare i rapporti fra le Chiese. Il 22 aprile 2001, a Strasburgo, fu firmata la Charta Oecumenica, da parte del metropolita Jéremie, a nome della KEK (Conferenza delle Chiese europee), e del cardinale di Praga Miroslav Vlk, presidente del CCEE (Consiglio delle conferenze episcopali europee). Il documento – tre parti, dodici punti e ventisei impegni concreti – era sottotitolato Linee guida per la crescita della collaborazione tra le Chiese in Europa: la sua firma seguiva le prime due tappe del Processo ecumenico europeo su Pace, giustizia e salvaguardia del creato, celebrato a Basilea (Svizzera) nel 1989 e a Graz (Austria) nel 1997 (sarebbe giunto a termine nel 2007 a Sibiu, Romania). La Charta Oecumenica e le diverse assemblee europee hanno impresso un nuovo stile alla collaborazione fra le Chiese, attraverso l’allargamento della partecipazione e lo sviluppo di un significativo ecumenismo di base.
Un’insalata ecumenica
Nel mio ricordo dei giorni di Strasburgo, c’è, fra gli altri, l’intervento di un giovane cattolico scozzese, nel cuore della conferenza stampa relativa all’ice–breaking preparatorio dell’assemblea vera e propria. Che spiegò: «Durante il meeting ci siamo sentiti tutti ortodossi, tutti cattolici, tutti protestanti ed evangelici. Ma ciò non significa che siamo una zuppa ecumenica, dove tutti gli elementi sono mischiati in una salsa indistinta e omogenea: al contrario, la nostra comunione potrebbe essere descritta come una insalata ecumenica, dove tutti i diversi colori e i sapori – uniti dal condimento dello Spirito Santo – possono essere meglio percepiti e gustati». Un’immagine riuscita, che lascia peraltro intravedere gli spinosi problemi ancora irrisolti nonostante la stesura della Charta: dalle tante ferite non riconciliate alla difficoltà di individuare persino, non raramente, un linguaggio condiviso per proclamare le medesime verità, fino alla questione di dover parlare in strutture ecclesiali e sociali estremamente variegate. Esiti ovvi, del resto, di troppi secoli di incomprensioni e lotte sanguinose. L’immagine ci sta ancora davanti, e forse ancora di più, dieci anni dopo.
Il miglior modo di ricordare la Charta Oecumenica sarà dunque il riprenderla in mano, meditarla, diffonderla, farla circolare (ancor oggi, infatti, il documento è ben poco conosciuto). Ecco un passaggio significativo della Charta Oecumenica: «Nello spirito del Vangelo dobbiamo rielaborare insieme la storia delle Chiese cristiane, che è caratterizzata oltre che da molte buone esperienze, anche da divisioni, inimicizie e addirittura da scontri bellici. La colpa umana, la mancanza di amore, e la frequente strumentalizzazione della fede e delle Chiese in vista di interessi politici hanno gravemente nuociuto alla credibilità della testimonianza cristiana. L’ecumenismo, per le cristiane e i cristiani, inizia pertanto con il rinnovamento dei cuori e con la disponibilità alla penitenza e alla conversione» (n. 3).
Una triplice esigenza
In ogni caso, e a dispetto di ogni comprensibile lamento sulle sue innegabili battute d’arresto, non si può non tener conto del fatto che parecchio di quanto si è riusciti a conseguire con tanta fatica oggi nel convivere dei cristiani è divenuto ovvio, naturale. Ad esempio, i leader delle Chiese si esprimono non di rado insieme sulle questioni sociopolitiche ed etiche, le comunità si riuniscono per funzioni religiose ecumeniche, e coppie di sposi di confessione mista pronunciano il loro fatidico sì in una cerimonia comune e sempre meno sorprendente. Il suo successo maggiore – alla fine – sta nel fatto che l’idea ecumenica non è rimasta solo un’idea, ma ha assunto forme di vita. Anche l’ecumenismo istituzionalizzato, che pure appare affaticato e messo in discussione, è in grado, nonostante tutto, di esibire una storia di discreti successi. Nel complesso, perciò, il bilancio, senza dimenticare tante questioni ancora inevase e altrettanti problemi irrisolti, risulta senz’altro positivo.
In sintesi, mi pare che l’ecumenismo sia oggi chiamato ad affrontare la ricerca dell’unità fra i cristiani nel contesto di quattro straordinarie fratture che ci fanno sentire il secolo breve appena trascorso (E. Hobsbawm) quanto mai lungo e articolato, sul piano religioso: il contesto geopolitico radicalmente mutato, la rinnovata concezione della missione (slegata dai colonialismi, allargata a tutto il popolo di Dio, avvertita dello scandalo della divisione delle Chiese e fondata sull’appello evangelico), una diversa qualità dei fondamentalismi e una differente geografia delle religioni (con un cristianesimo sempre più globale, l’Africa ormai baricentro cristiano del presente ma ancor più del futuro e l’affermazione di un islam attore protagonista nello spazio pubblico europeo, ad esempio).
All’ecumenismo, così, si richiede di rispondere a una triplice e pressante esigenza: quella di far fronte alla responsabilità della memoria divisa delle Chiese cristiane; di trasformare le divisioni in (legittime) differenze; e di elaborare un progetto comune, praticando l’ermeneutica evangelica dell’alterità. Nell’incontro ecumenico, infatti, l’ascolto reciproco appare soprattutto condivisione della vita e dei beni spirituali, frequentazione reciproca per imparare i rispettivi linguaggi, apprendimento di ciò che può ferire l’altro o essergli irricevibile. In tal modo potrebbero allentarsi i pregiudizi, si sconfiggerebbe la paura dell’altro e la tentazione di identificare tout court differenza e divisione: mentre si aprirebbe la possibilità di ripensare con l’altro – e non più contro l’altro! – la propria fede, la sua trasmissione, l’evangelizzazione di quel mondo che Dio ha tanto amato da dargli il suo unico Figlio. Da questo punto di vista, più che parlare semplicemente di crisi dell’ecumenismo, potremmo leggere tale processo in chiave di riorientamento complessivo, che ha tutto da guadagnare da un rapporto virtuoso con una rinnovata teologia della missione.
Brunetto Salvarani ci accompagna lungo la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani con un medaglione quotidiano, nella rubrica «Unitatis redintegratio». È docente di Teologia della missione e del dialogo presso la Facoltà teologica dell’Emilia Romagna. Dirige il movimento e rivista CEM Mondialità e la rivista trimestrale QOL (di cui è anche cofondatore), nata per dare voce alla ricerca biblica, al mondo dell’ecumenismo, al dialogo ebraico-cristiano. Dirige inoltre la collana della EMI Parole delle fedi. È membro del comitato editoriale della trasmissione Rai Protestantesimo.