«In un’epoca in cui i risultati dell’impegno ecumenico sono spesso considerati scarsi o insignificanti, gli esiti dei dialoghi teologici – internazionali e nazionali, ufficiali e non – dimostrano il valore della loro metodologia, cioè di una di riflessione fatta “evidentemente insieme”».
Nell’attuale “inverno ecumenico” merita particolare attenzione un documento di studio del Dicastero per la promozione dell’unità dei cristiani presentato a Roma il 13 giugno scorso dai cardinali Kurt Koch e Mario Grech, assieme a K. Barsamian e I. Ernest. Esso riguarda il servizio petrino e la prassi sinodale. Il titolo recita: Il vescovo di Roma. Primato e sinodalità nei dialoghi ecumenici e nelle risposte all’enciclica Ut unum sint.
Il possibile sviluppo del primato petrino si incrocia con la pratica e la domanda di sinodalità, alla vigilia della seconda assemblea sinodale dedicata al tema. Una delle difficoltà più rilevanti nei rapporti fra le confessioni cristiane – il primato del vescovo di Roma – si apre a nuove e inedite possibilità in connessione con la spinta sinodale.
Lo studio si estende per 148 pagine e 180 numeri. È diviso in quattro capitoli a cui si aggiunge un riassunto, le proposte dell’assemblea plenaria del Dicastero e le fonti.
30 confessioni 50 contributi
Da dove nasce il testo? Giovanni Paolo II scrive, nel 1995, l’enciclica Ut unum sint per confermare la spinta ecumenica e trovare, insieme alle altre confessioni cristiane, le forme del ministero del vescovo di Roma, utile e necessario all’insieme delle Chiese cristiane. Invita le altre confessioni e tutti i luoghi interessati (gruppi, università, teologi) a dargli risposta. Nel 2001 il Pontificio consiglio raccoglie le prime risposte.
Questo secondo studio, del 2024, allarga la ricezione a una trentina di risposte provenienti dalle varie confessioni e a cinquanta contributi di gruppi, esperienze e confronti di dialogo sul tema.
Fin dall’inizio si riconosce la necessità di trovare una forma di esercizio dcl primato che «pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apre ad una situazione nuova» (3). A fondamento di tale disponibilità è la distinzione fra la natura del primato e le forme temporali in cui viene esercitato. Una distinzione sollecitata da un evento e da un indirizzo ecclesiale.
L’evento sono le dimissioni di Benedetto XVI che, nel 2013, riconosce la propria incapacità di amministrare bene il ministero in considerazione dell’età e delle malattie che lo stanno invalidando.
L’indirizzo ecclesiale è, invece, costituto dalla decisa accelerazione sulla sinodalità procurato da papa Francesco. «Facendo della sinodalità un tema chiave del suo pontificato, papa Francesco sottolinea l’importanza di una sinodalità fondata sul sensus fidei del popolo di Dio “infallibile in credendo”, che è essenziale per una rinnovata comprensione del ministero petrino» (5).
Un tema trasversale
Le risposte sono arrivate da molti dialoghi sia nazionali che internazionali, da molte ricerche accademiche e da alcuni luoghi particolari che alimentano il dialogo ecumenico da decenni.
Nel dialogo con le Chiese ortodosse, il tema del primato occupa gli ultimi due dei 7 documenti approvati dalle reciproche commissioni. Va registrata, tuttavia, la decisa eccezione della Chiesa ortodossa russa che si è sottratta al dibattito e il cui esito drammatico è visibile anche nella sconclusionata adesione all’indirizzo imperiale di Putin nell’aggressione all’Ucraina.
Al dialogo hanno partecipato anche le Chiese ortodosse orientali (quelle non slave ed elleniche), la Commissione mista anglicano-cattolica, l’ARCIC, la Commissione internazionale luterano-cattolica, la Commissione metodista-cattolica, le Chiese riformate, i veterocattolici, varie famiglie evangelicali e pentecostali, la Commissione fede e costituzione del CEC, il Gruppo di Dombes e altri.
Il tema del primato è stato presente, direttamente o indirettamente, in quasi tutti i dialoghi ecumenici.
Fatti ed esperienze
Ma vorrei sottolineare, in particolare, alcuni eventi, citati senza sviluppo nel testo, che mi sembrano indicativi per un suo esercizio nel futuro, capaci di coinvolgere e di rappresentare anche le altre confessioni cristiane.
Si potrebbero ricordare i molti incontri diretti dei papi con i responsabili delle altre Chiese, a partire da quello di Paolo VI con Atenagora nel 1964, ma cito i più recenti.
Nel 2016 c’è a Lund (Svezia) l’avvio della memoria dei 700 anni della Riforma. Papa Francesco la celebra assieme alla vescova locale e ai responsabili internazionali. Nella dichiarazione congiunta, si dice: «Mentre siamo profondamente grati per i doni spirituali e teologici ricevuti attraverso la Riforma, confessiamo e deploriamo davanti a Cristo il fatto che luterani e cattolici hanno ferito l’unità visibile della Chiesa. Differenze teologiche sono state accompagnate da pregiudizi e conflitti e la religione è stata strumentalizzata per fini politici. La nostra comune fede in Gesù Cristo e il nostro battesimo esigono da noi una conversione quotidiana, grazie alla quale ripudiamo i dissensi e i conflitti storici che ostacolano il ministero della riconciliazione».
Nel 2016, il papa visita Lesbo, emblema del passaggio dei migranti verso l’Europa, assieme al patriarca ecumenico Bartolomeo e all’arcivescovo di Atene. Nella dichiarazione congiunta si dice: «Noi, papa Francesco, patriarca ecumenico Bartolomeo e arcivescovo di Atene e di tutta la Grecia Ieronymos, ci siamo incontrati sull’isola greca di Lesbo per manifestare la nostra profonda preoccupazione per la tragica situazione dei numerosi rifugiati, migranti e individui in cerca di asilo, che sono giunti in Europa fuggendo da situazioni di conflitto e, in molti casi, da minacce quotidiane alla loro sopravvivenza. L’opinione mondiale non può ignorare la colossale crisi umanitaria, che ha avuto origine a causa della diffusione della violenza e del conflitto armato, della persecuzione e del dislocamento di minoranze religiose ed etniche, e dallo sradicamento di famiglie dalle proprie case, in violazione della dignità umana, dei diritti e delle libertà fondamentali dell’uomo».
Nel 2018, a Bari, si incontrano i capi delle Chiese cristiane che si affacciano sul Mediterraneo, per una testimonianza reciproca sulla necessità della pace e del dialogo interreligioso. Alla conclusione il papa dice: «Incoraggiati gli uni dagli altri, abbiamo dialogato fraternamente. È stato un segno che l’incontro e l’unità vanno cercati sempre, senza paura delle diversità. Così pure la pace: va coltivata anche nei terreni aridi delle contrapposizioni, perché oggi, malgrado tutto, non c’è alternativa possibile alla pace. Non le tregue garantite da muri e prove di forza porteranno la pace, ma la volontà reale di ascolto e dialogo».
Nel 2019, vi è l’incontro spirituale dei leader del Sud Sudan in Vaticano con la presenza dell’arcivescovo anglicano Justin Welby.
Nel 2023 il viaggio ecumenico di pace assieme a Welby e al rev. Greenshields. Sempre nel 2023, il raduno ecumenico prima della celebrazione dell’assemblea sinodale a Roma con la presenza di tutte le Chiese cristiane.
Questioni teologiche sul primato
Restano da affrontare le questioni teologiche. Anzitutto, i fondamenti scritturistici del primato petrino (Mc 16,17-19 e Gv 21,15ss). È noto come questi testi siano letti diversamente dalle Chiese, ma vi è oggi un largo consenso sul riconoscimento dell’autorità di Pietro e di Paolo in ordine alla fede della Chiesa e, conseguentemente, all’autorità diffusa nei pastori e nel popolo di Dio in ordine alla fede e alla sua permanenza.
L’affermazione di fede di Pietro fa emergere tre dimensioni complementari: la dimensione comunitaria, quella collegiale e quella personale. «I cattolici sono stati sfidati a riconoscere e a evitare una proiezione anacronistica di tutti gli sviluppi dottrinali e istituzionali riguardanti il ministero papale nei testi petrini e a riscoprire una diversità di immagini, interpretazioni e modelli nel Nuovo Testamento» (n. 36).
Più in generale, è comune a tutte le confessioni l’esercizio dell’autorità episcopale. Da esso può trarre ispirazione un esercizio specifico dell’episcopé al servizio di tutta la Chiesa. L’una e l’altra sono sotto il segno del servizio e del mistero della croce. La comprensione del ministero di Pietro ha avuto un importante e diversificato sviluppo nella tradizione patristica.
Altra questione è se il papato sia de jure divino o de jure umano. Le molte discussioni tendono a riconoscere assieme le due dimensioni, quella divina e quella umana. «Le categorie di diritto divino e diritto umano devono essere riesaminate e collocate nel contesto del ministero come servizio della comunione della salvezza» (49). «Lo ius divinum non può essere mai adeguatamente distinto dallo ius humanum. Lo ius divinum è sempre e solo mediato attraverso particolari forme storiche» (52).
Il superamento della contrapposizione è legato alla distinzione tra essenza teologica e contingenza storica del primato. «I contenuti concreti del suo esercizio caratterizzano il ministero petrino nella misura in cui esprimono fedelmente l’applicazione alle circostanze di luogo e di tempo delle esigenze della finalità ultima che gli è propria (l’unità della Chiesa). La maggiore e minore estensione di tali contenuti concreti dipenderà da ogni epoca storica della necessitas Ecclesiae» (55). Come a dire che è possibile declinare diversamente il ministero petrino non solo nei diversi momenti della storia, ma anche dentro la Chiesa d’Occidente rispetto ad altre chiese e confessioni.
Lo “scoglio” del Vaticano I
Il vero nodo teologico sono le affermazioni dogmatiche del Vaticano I circa l’infallibilità e la giurisdizione universale del papa. Ortodossi e protestanti ritengono tali dogmi come incompatibili con la fede della tradizione, con il testo della Scrittura e con la propria ecclesiologia.
I dialoghi hanno ampiamente spiegato il contesto storico specifico di quelle affermazioni, la distinzione fra intenzione e formulazione, tra formulazione e ricezione, la necessaria connessione con le dottrine del Vaticano II (la collegialità e poi la sinodalità), il legame non interrotto con il primo millennio.
Le formulazioni dell’assise del 1868-1870 erano storicamente condizionate da sfide culturali e storiche che mettevano in questione la Chiesa: dal gallicanesimo al “regalismo”, dal liberalismo anticlericale al razionalismo. Per il movimento ultramontano questo richiedeva un’autorità centralizzata sul modello delle sovranità coeve.
Distinguendo fra “enunciato” (enuntiabile) e “cosa” (res), infallibilità e giurisdizione universale possono essere rese come assicurazione dell’unità della Chiesa e rivendicazione della libertà dell’annuncio.
L’infallibilità non è una qualità personale e richiede precise condizioni: non è indipendente dalla Chiesa, non è superiore alla Parola, non è assoluta, perché il papa non crea un nuovo insegnamento. «L’infallibilità attribuita al vescovo di Roma è un dono per essere, in determinate circostanze e sotto precise condizioni, un organo dell’infallibilità della Chiesa» (70).
«La giurisdizione del vescovo di Roma come primato universale è detta ordinaria e immediata (cioè non mediata) perché è inerente al suo ufficio; è detta universale semplicemente perché deve permettergli di servire l’unità e l’armonia della koinonia nel suo insieme e in ciascuna delle parti» (67).
Interpretazioni che trovano legittimità fin dall’origine, come mostra la risposta sul primato giurisdizionale data dai vescovi tedeschi al dispaccio di Bismarck nel 1875.
Rimangono questioni da chiarire: il primato del Vangelo, l’infallibilità al servizio dell’indefettibilità della Chiesa, l’esercizio della collegialità episcopale, la necessità della ricezione.
Le aperture delle confessioni cristiane
Vi è un tendenziale riconoscimento su «quanto sia vitale per le Chiese parlare, quando le circostanze lo richiedono, con una sola voce nel mondo e come un ufficio di insegnamento universale, come quello del papa, possa esercitare un ministero di unità piuttosto che restrittivo o repressivo» (71). Attraversa molti testi dei dialoghi teologici l’attestazione dell’opportunità-necessità di un primato per tutta la Chiesa.
Oltre agli argomenti scritturistici tradizionalmente presentati dalla Chiesa cattolica, i documenti propongono altre giustificazioni: l’argomento della tradizione apostolica, l’argomento ecclesiologico e l’argomento pragmatico.
Per gli ortodossi, al di là delle molte differenze, è riconosciuta la necessità di un primato. Meno convinti gli ortodossi russi e le Chiese ortodosse orientali.
Le Chiese d’Occidente sono meno interessate alla tradizione apostolica e al rilievo delle sedi patriarcali, ma non si sottraggono alla suggestione del primato.
Dal punto di vista ecclesiologico, i luterani riconoscono che il ministero petrino è in linea di principio non contrario alla Scrittura e ha un compito nei confronti di tutte le Chiese particolari.
Per gli ortodossi, la dimensione primaziale e sinodale insieme è riconoscibile a livello locale e regionale. Dovrebbe poter esistere anche a livello universale. Meno nota è la motivazione pragmatica. «In un mondo sempre più globalizzato, molte comunità cristiane che hanno a lungo privilegiato la dimensione locale sentono sempre più la necessità di un’espressione visibile della comunione a livello mondiale. La maggior parte delle comunioni, federazioni e alleanze mondiali, così come gli organismi ecumenici, sono state istituite nell’ultimo secolo per mantenere e rafforzare legami di unità a livello regionale e mondiale» (84).
La Chiesa anglicana, ad esempio, riflettendo sulle esperienze recenti, apprezza sempre di più, oltre ai ministeri collegiali, un servizio personale di unità della fede. E questo anche per esigenze missionarie e di dialogo interreligioso, come, del resto, mostra il documento di Abu Dhabi sulla Fratellanza umana (2019).
Da questo punto di vista, anche la tradizione protestante non esclude più per principio la possibilità di un servizio di unità personalmente rappresentato.
Il primo millennio
È decisiva la memoria del primo millennio in cui le espressioni di comunione, pur non avendo struttura giuridica, non di meno mostravano una deferenza decisiva verso le sedi patriarcali e quella di Roma e Costantinopoli in specie. «Anche se non c’era un chiaro punto centrale di riferimento, Roma era comunque riconosciuta come la prima sede. La lettera di Clemente ai Corinzi, le affermazioni di Ignazio di Antiochia e di Ireneo di Lione convergono nel riconoscere l’autorità preminente di Roma. Nella sensibilità orientale, tale memoria è restata nella forma della “precedenza”, del “protos”. «Il primato riconosciuto alla Chiesa di Roma implicava un’autorità nella Chiesa, non il governo della Chiesa» (88).
C’è un testo particolare, il canone apostolico 34, che, combinando il primato con la conciliarità, esprime il modello di riferimento.
«I vescovi del popolo di una provincia o di una regione [ethnos] devono riconoscere colui che è il primo [protos] tra loro e considerarlo il loro capo [kephale], e non fare nulla di importante senza il suo consenso [gnome]; ogni vescovo può fare solo ciò che riguarda la propria diocesi [paroikia] e i suoi territori dipendenti. Ma il primo [protos] non può fare nulla senza il consenso di tutti. In questo modo, infatti, prevarrà la concordia [homonoia] e Dio sarà lodato per mezzo del Signore nello Spirito Santo».
Altro elemento importante del primato esercitato nel primo millennio è il diritto di appellarsi al patriarca e a Roma. «I canoni di Sardica stabilivano che un vescovo condannato poteva appellarsi al vescovo di Roma e che quest’ultimo, se lo riteneva opportuno, poteva ordinare un nuovo processo, che doveva essere condotto dai vescovi di una provincia vicina a quella del vescovo appellante» (101).
Il caso specifico della ricezione di un concilio aiuta a capire la primazia del primo millennio. Il riconoscimento di un concilio come ecumenico implicava la concordia dei capi delle Chiese, la cooperazione del vescovo di Roma e l’accordo degli altri patriarchi.
Resta l’evidente diversità dei modelli ecclesiali in atto nel primo millennio, ad esempio fra Alessandria e Roma. E questo porta ad interrogarsi sulla possibilità di modelli ecclesiali diversi anche nel presente, pur contenuti nella stessa comunione universale.
Un primato sinodale
«In una Chiesa riunificata, il ruolo del vescovo di Roma dovrebbe essere attentamente definito, sia in continuità con gli antichi principi strutturali del cristianesimo, sia in risposta alle necessità del mondo di oggi» (109).
Dai dialoghi emergono due quadri ricorrenti che aiutano ad immaginare un esercizio del primato di Pietro nel secolo presente. Il combinarsi, cioè, di una struttura comunitaria-collegiale-personale con l’articolazione fra livello locale-regionale-universale. Non ci sarà un primato senza sinodalità e conciliarità: «primato e conciliarità sono reciprocamente interdipendenti. Per questo motivo il primato ai diversi livelli della vita della Chiesa (locale, regionale e universale) deve essere sempre considerato nel contesto della conciliarità, e la conciliarità allo stesso modo nel contesto del primato» (112).
Come ha detto papa Francesco: «In questa visione, il ministero primaziale è intrinseco alla dinamica sinodale, come lo sono pure l’aspetto comunitario che include tutto il popolo di Dio e la dimensione collegiale relativa all’esercizio del ministero episcopale» (118). In altri termini, in molti dialoghi ecumenici la dimensione comunitaria-collegiale-personale è operativa a tutti i livelli. Nella comunità locale, che riconosce i suoi ministri e il suo protos, nella diocesi che ha il suo vescovo, il presbiterio e i responsabili delle comunità, nel ministero petrino che unisce la sinodalità universale con la collegialità episcopale e l’esercizio del primato.
Le diverse tradizioni confessionali accentuano l’uno e l’altro elemento (i protestanti la comunità locale, gli ortodossi il vescovo, e i cattolici il papa), ma, per un futuro comune, è importante che si trovi un equilibro tollerabile fra i diversi livelli e le diverse tradizioni. In particolare «l’unità presuppone che le nostre Chiese continuino ad avere il diritto e il potere di governarsi secondo le proprie tradizioni e discipline» (129).
Fra le suggestioni per noi cattolici: il diverso ruolo del clero nel contesto locale, la diversa autorità delle conferenze episcopali e la pratica sinodale a tutti i livelli. Si tratta di applicare la sussidiarietà, inventata dalla Chiesa in ordine alla sua dottrina sociale, ma da applicare anche all’interno di sé stessa: ogni istanza (locale, diocesana, collegiale, universale) è chiamata a risolvere responsabilmente i suoi problemi, a meno che essi non siano affrontabili solo insieme a tutti.
Tornando al primato papale, c’è chi ha chiesto una sorta di limitazione volontaria nell’esercizio del primato. Cioè il potere del vescovo di Roma non dovrebbe essere più ampio di quanto richiesto per l’esercizio della sua funzione, cioè essere un efficace ministro dell’unità. Ma, allo stesso tempo, si percepisce che Roma avrà bisogno di un grado sufficiente di autorità per affrontare le molte sfide e i complessi obblighi legati al suo ministero. Il ministero petrino deve rimanere una forza di iniziativa, di proposta e di sostegno per tutte le Chiese.
Quattro suggerimenti
Il testo conclude con quattro suggerimenti pratici o richieste rivolte alla Chiesa cattolica.
Anzitutto, una rinnovata interpretazione del Vaticano I e i suoi dogmi in ordine alla giurisdizione universale e all’infallibilità del papa. Si attende un commento ufficiale e aggiornato, un cambiamento di vocabolario in un contesto di ecclesiologia di comunione. Compresa anche una riformulazione del dogma dell’infallibilità pontificia.
Una seconda richiesta riguarda l’esercizio differenziato del primato del vescovo di Roma. Non a tutte le latitudini e in tutti i contesti le attuali prassi del primato sono tollerabili. «Una migliore comprensione del concetto cattolico di primato a livello universale potrebbe essere raggiunta attraverso una più chiara distinzione tra la posizione unica del papa nella Chiesa cattolica e la sua possibile funzione di primate all’interno della più ampia comunità cristiana» (150). Una più netta distinzione fra primato-giurisdizione universale e primato-giurisdizione sul patriarcato d’Occidente.
Una terza richiesta riguarda un più ampio esercizio della sinodalità ad intra della Chiesa cattolica. Sarà difficilmente credibile un primato del papa di Roma a livello di Chiese cristiane se la sua prassi interna non viene informata e plasmata dalla sinodalità. Se non cresce la partecipazione dei laici nei processi decisionali, se il ruolo delle conferenze episcopali non raggiunge i temi dottrinali, se la scelta dei vescovi non prevede il coinvolgimento della Chiesa interessata, se la curia romana esercita comunque un’autorità superiore…, allora – dicono le altre confessioni cristiane – come possiamo considerare credibile l’offerta del primato petrino anche per noi?
Una quarta richiesta è l’esercizio di una sinodalità ad extra, come, ad esempio, regolari incontri fra il CEC e Roma o assemblee dove i rappresentanti delle diverse Chiese si incontrano, o, per alcuni, la convocazione di un concilio ecumenico di tutte le confessioni cristiane. Si può pensare a testimonianze comuni nella sfera pubblica o a forme di consultazione regolari fra i primati delle diverse confessioni cristiane.
Il contributo della plenaria
L’assemblea plenaria del Dicastero (3 maggio 2022) ha formalizzato alcune pagine aggiuntive come proprio contributo al documento.
In esse si ricorda la preziosità dei dialoghi teologici anche in ordine all’arricchimento della teologia cattolica e dell’ecclesiologia.
Fra i suggerimenti, si sottolinea l’opportunità di un migliore collegamento fra i molti dialoghi per evitare ripetizioni. È anche grazie alla ricerca ecumenica che si è consolidata la stretta connessione fra primato e sinodalità, l’evidente opportunità che alimentare la seconda significhi rafforzare e rimodulare il primo. «La dinamica sinodale getta nuova luce anche sul ministero del vescovo di Roma. La sinodalità, infatti, articola in modo sinfonico le dimensioni comunitarie (“tutti”), collegiale (“alcuni”) e personale (“uno”) della Chiesa a livello locale, regionale e universale» (n. 6, appendice).
C’è, inoltre, un problema di ricezione dei testi finali dei dialoghi, una urgente necessità che essi alimentino la coscienza ecclesiale. Non sarebbe saggio svalutarne il valore per apprezzare solo le attività comuni. Dialoghi sulla verità e dialoghi della carità vanno declinati assieme.
La plenaria del Dicastero conferma l’opportunità di un commento e di una re-interpretazione dei dogmi del Vaticano I e una più chiara distinzione fra le diverse responsabilità del papa: Chiesa cattolica, patriarcato latino, primazia nelle comunione delle Chiese.
Inoltre, va sottolineato di più il ruolo di vescovo di Roma, la sua responsabilità diretta sulla diocesi di Roma.
Sarebbe opportuno mettere mano al diritto canonico per recepire sia la dimensione collegiale (conferenze episcopali) sia la sinodalità, sia il ruolo delle relazioni con le altre Chiese. In particolare, una qualche autorità dottrinale per le conferenze episcopali.
La curia vaticana non si colloca fra papa e vescovi, ma è al servizio di entrambi.
Si insiste molto sulla valorizzazione di tutte le forme sinodali già in atto o di concili provinciali possibili.
La sinodalità ad intra deve andare di pari passo con la sinodalità ad extra (per es. invitare le altre confessioni ai sinodi diocesani).
Il rinnovamento del primato inteso come servizio d’amore non deve chiedere alle Chiese d’Oriente niente di più di quanto vissuto nel primo millennio. Uguale sapienza anche nei confronti delle Chiese d’Occidente, nonostante la permanenza di problemi aperti.
Un riferimento
Lo studio non ha una particolare autorità magisteriale, ma si raccomanda come frutto maturo e promettente di un lungo lavoro di dialogo e di ricerca.
Ricorda l’eccellente lavoro a suo tempo proposto dal card. Walter Kasper circa i risultati dei dialoghi ecumenici fra Chiesa cattolica e Chiese storiche protestanti nel 2009 (Raccogliere i frutti).
Rappresenta un punto di riferimento per il futuro del servizio petrino e la stretta connessione fra la crescita della coscienza sinodale della Chiesa, il cammino ecumenico e la ridefinizione dei servizi di autorità.
Se Bergoglio, primo papa gesuita, abituato ad essere obbedito senza se e senza ma (perinde ac cadaver) fosse diventato papa in un epoca in cui il primato petrino forse gia’ stato abito, non avrebbe potuto andare avanti neppure un anno. I ” Motuproprio” coi quali ha governato la Chiesa vogliono dire infatti : lo decide il papa e cosi’ ha da essere senza discussioni. Avendo emanato molti piu’ Motu Propri dei suoi prede edsori ,Bergoglio ha dimostrato che un gesuita al potere comanda ,non discute. Coloro he vogliono abolire il primato petrino , sono degli ingenui . Nessun papa acconsentira’ ad avere meno potere, a meno che non sia costretto .
Con la riforma dell’XI secolo e la separazione con le Chiese orientali la Chiesa cattolica si autoconcepita con il Regno d Dio e il Papa di Rima ne è il sovrano. Ora nella contemporaneità questa concezione è stata superata non solo perchè il Papa ha perso gran parte del potere temporale e di influenza all’interno degli Stati, ma anche dalla comprensione diversa del primato, che via via i papi hanno assunto, perchè la Chiesa è germe e inizio del Regno e non il suo compimento Lumen gentium 5). Allora il primato del Vescovo di Roma va esercitato all’interno della comunione e non distante da esso. Comunque il modo di esercizio del ministero di Papa Francesco sembra a volte contraddittorio, perchè un po’ accentratore e un po’ sinodale e ciò fa capire che siamo in tempo di passaggio epocale per la Chiesa come nell’XI secolo.
Una lettura entusiasta e condivisibile quello di Lorenzo Prezzi a riguardo del documento. Tuttavia faccio notare che “contro” questo documento si è scagliato a suo tempo Fulvio Ferrario i cui contributi sono stati pubblicati su SettimanaNews.