Ilenya Goss è pastora della chiesa valdese di Mantova e Felonica. Laureata in filosofia e medicina-chirurgia è membro della Commissione di bioetica delle Chiese Battiste Metodiste Valdesi. È teologa e musicista.
- Dott.ssa Goss, ci vuole raccontare come è divenuta pastora della chiesa valdese?
Sono nata nel cuore delle valli valdesi, in Val Pellice, precisamente a Luserna San Giovanni, vicino a Pinerolo, da una famiglia mista: tutto il ramo paterno è valdese mentre quello materno è cattolico. Ho potuto così conoscere prestissimo questi due modi di essere cristiani e quindi di appassionarmene.
Sono stata quel che si dice un’adolescente inquieta e sono cresciuta col desiderio di capire il senso della vita, il mio posto nel mondo, in quale miglior modo avrei potuto spendere il mio tempo. Le figure pastorali che vedevo predicare mi attraevano. Ero appassionata dello studio e volevo soddisfare il mio desiderio di conoscenza. Non sono stata immediatamente attratta dalla teologia.
Il mio percorso di studi è iniziato infatti da una laurea in filosofia e, attraverso di essa, ho avvertito l’esigenza di acquisire una modalità concreta di pormi al servizio delle persone. Ho così conseguito anche una laurea in medicina. con cui ho avuto la possibilità di insegnare all’università di Torino le discipline di etica medica e di storia della medicina nel corso di laurea infermieristica.
Dentro di me permaneva tuttavia ancora una inquietudine. Ho sentito la necessità di approfondire la conoscenza della bibbia, di cui ero sempre stata un’appassionata lettrice, accostandomi ai testi originali in ebraico e in greco: mi sono pertanto iscritta ad un corso di laurea di teologia valdese.
Da ciò è nato – o meglio si è accresciuto – il desiderio di impegnarmi nella chiesa valdese di appartenenza, a Pinerolo, e di verificare la mia vocazione pastorale. Naturalmente questa scelta ha scompensato molto la mia famiglia con le amicizie che avevo e che mi vedevano avviata ad una carriera accademica pura.
L’impegno pastorale oggi – soprattutto in Italia – non ha certo la stessa visibilità e lo stesso riconoscimento pubblico dell’insegnamento universitario. Nonostante tutte le perplessità la mia famiglia mi ha sostenuta e accompagnata, come del resto in tutti gli indirizzi presi.
La scelta vocazionale non consente ovviamente di divenire immediatamente pastori: necessita di uno specifico percorso. La persona che si candida viene presa in esame dalla chiesa locale che deve dichiarare ad una commissione specifica – la commissione dei ministeri – la manifestazione di tale desiderio. La stessa chiesa locale esprime un primo parere di attitudine sulla base della conoscenza della persona. A quel punto inizia un percorso accademico di almeno sette anni, obbligatorio, attraverso cui si consegue una laurea magistrale.
Terminati gli studi – in cui è compreso un ultimo anno di studio all’estero (per me a Strasburgo) – si entra in un periodo di verifica: si viene mandati ad un comunità – con funzioni da pastori – per la durata di due anni ecclesiastici. Alla fine dell’esperienza, il pastore di riferimento stila una relazione: naturalmente solo se tutti i giudizi – sia della commissione, sia della comunità che del pastore tutor – sono positivi, si accede ad un esame finale alla presenza dei potenziali colleghi. La consacrazione avviene per i pastori nel sinodo di Torre Pellice – assemblea annuale della chiesa valdese italiana – composto da 180 persone fra pastori e non pastori. Così è stato anche per me.
Il fascino di una chiesa della fratellanza
- Ci può spiegare il motivo della scelta più profonda proprio per la chiesa valdese?
Mi sono sempre sentita vicina alla sensibilità della fede protestante: se fossi nata in Germania sarei probabilmente diventata luterana. Un primo motivo, come ho detto, è da ricercare nelle mie origini: sono nata e cresciuta nelle valli valdesi e quella cultura è stata il mio riferimento. Amo questa chiesa anche nei suoi legami col territorio alpino e la sua storia. Ma è senz’altro l’ecclesiologia riformata – in cui non si pone una gerarchia ecclesiastica – ad avermi affascinata.
La fede per me – stante i miei interessi e percorsi di studi filosofici e scientifici – deve possedere presupposti di conoscenza e di credibilità. Non ritrovavo nel modello cattolico – specie allora – una adeguata attenzione al testo biblico, alle sue lingue originali, così come ad altri aspetti conoscitivi.
Sono inoltre affascinata da una ecclesiologia che vede tutti come fratelli, che intende il sacerdozio non come status attraverso un’ordinazione, bensì come un servizio ispirato al concetto di sacerdozio universale. Nella chiesa valdese la donna accede al ministero allo stesso modo dell’uomo perché il pastorato femminile è stato riconosciuto nel 1967.
Studiare teologia, proclamare e predicare, guidare una comunità, occuparmi della crescita di uomini e di donne nella fede, sono possibilità che – da donna – nella chiesa cattolica non avrei avuto.
Ho percepito da sempre, in maniera molto forte, in questa mia chiesa, il senso di una vera accoglienza evangelica della persona con le sue capacità ed i suoi talenti, senza avvertire il peso di una istituzione che sta al di sopra. La visione del papato e una certa concezione dei sacramenti mi sono estranee. Tutto ciò mi conferma nella mia adesione.
Non di sola teologia vive la fede
- Medicina e filosofia sono pure nella sua vita: in che modo?
Direi, in particolare, nell’ambito della bioetica. Con questi miei studi ed interessi oggi faccio parte della commissione bioetica delle chiese valdesi-metodiste-battiste. Con i metodisti siamo un’unica chiesa, non con i battisti che tuttavia partecipano con loro rappresentanti, a pari titolo, alla stessa commissione. Ho inoltre una collaborazione con l’università di Torino, ove insegno bioetica agli studenti di medicina del quinto anno.
La bioetica costituisce uno sbocco spontaneo della mia formazione avendo lavorato, dopo gli studi, in una residenza sanitaria per anziani in cui mi sono occupata di malati molto gravi, anche in stato vegetativo: avendo atteso a questi compiti prima del pastorato, l’allora moderatore Eugenio Bernardini mi propose di entrare nella commissione di cui ho detto.
La stessa laurea master in teologia conseguita a Strasburgo è stata incentrata sul “fine vita”. Questa “materia” molto mi coinvolge: mi consente di relazionarmi con le diverse Chiese, con i diversi teologi, chiedendomi e chiedendoci come l’Evangelo possa essere annunciato oggi nei grandi problemi della vita concreta: problemi che, ovviamente, attraversano società e persone di assai diverse appartenenze, religiose e laiche. Sento questo compito parte integrale del mio ministero.
La differenza valdese
- Quali ritiene essere gli elementi caratterizzanti la fede nella chiesa valdese rispetto alla cattolica?
I punti di distanziamento più forti li trovo nella ecclesiologia, come ho detto. La chiesa valdese non vede differenze tra clero e laici. Il pastore è un laico che ha una formazione specifica e che viene incaricato di svolgere un certo servizio, ma non c’è sacralità nella figura.
Tale posizione viene dalla stretta adesione al testo evangelico, ove Gesù dice “…e voi siete tutti fratelli”, come si legge in Matteo 23,8. Nella nostra chiesa è centrale la sinodalità: le decisioni vengono prese dall’assemblea che opera le forme di guida, rinunciando così ad ogni struttura di carattere verticistico. Certamente questo rende le prese di decisione e di posizione più lente e sfumate. Ma questo non può essere un problema.
Come noto, la nostra chiesa riconosce due sacramenti: il battesimo e la santa cena, i soli che hanno base nelle scritture bibliche. La Parola ha centralità assoluta. C’è un momento che nel nostro culto precede la lettura biblica denominato “preghiera di illuminazione”.
È tipico della teologia calviniana – a cui la chiesa valdese si ispira – ed invoca il Signore perché apra l’intelligenza e il cuore di ciascun fedele alla comprensione. È molto significativo: attraverso questo passaggio la parola biblica che è pur sempre una parola umana diventa la Parola di Dio: la bibbia può essere letta anche solo in chiave filosofica o filologica, mentre diventa Parola di Dio, per ciascuno, nel momento in cui viene predicata e ricevuta in una tale luce.
Un altro aspetto che differenzia è sicuramente quello etico. Nelle mie collaborazioni ecumeniche – sia locali che nazionali, di cui sono peraltro profondamente grata a motivo dell’arricchimento prodotto in me – riscontro difficoltà. Soprattutto in quest’ultimo periodo – in cui la chiesa valdese ha sicuramente assunto posizioni, per così dire, liberali, ovvero di grande apertura nei confronti del mondo e della laicità – si stanno evidenziando differenze significative nei modi di vivere eticamente la fede cristiana.
Come ho detto, la chiesa cattolica ha un magistero che traccia le linee in fatto di etica, mentre la chiesa valdese affronta anche le più delicate questioni etiche assemblearmente e per votazione. Ad esempio, sul tema della benedizione delle coppie omo-affettive – recentemente dibattuto anche all’interno della chiesa cattolica – il nostro sinodo ha espresso un parere favorevole.
Va detto che le persone che chiedono la benedizione appartengono alla nostra chiesa e hanno fatto un percorso: a loro si dedica una liturgia in cui viene invocata la benedizione del Signore; la comunità semplicemente riconosce che queste persone hanno un progetto di vita comune. Non si tratta, dunque, di matrimonio o di altro, ma di riconoscimento della dignità integrale della persona umana, cristiana, anche nella sua sfera affettiva e sessuale.
Va aggiunto che all’interno della nostra chiesa esistono comunità locali che hanno storie pure tra loro diverse, con opinioni diverse, come tra le Chiese metodiste. In Italia ho lavorato in questo tipo di comunità con componenti, ad esempio, di origine africana e su questo tema devo dire che ci sono naturalmente opinioni diverse. Alla fine, dunque, nonostante il parere del Sinodo, prevalgono le decisioni delle comunità locali, dotate di piena autonomia in tal senso.
- Che posto occupano la musica e il canto nella liturgia della chiesa valdese?
La considerazione della musica è grande, ma il discorso si colloca almeno su due piani: quello della teoria e quello della prassi. I problemi si presentano soprattutto nelle comunità più piccole ove mancano i musicisti, gli strumenti ed il numero sufficiente di persone per istituire una corale. Nelle valli valdesi la corale è un’istituzione, una realtà veramente molto forte, fatta di canto, di aggregazione e di socialità.
Ma è ora un momento difficile per la musica nel culto. Si sta senz’altro cercando di coltivare la tradizione. Nel 2017, ad esempio, si è realizzato un grande progetto sulle cantate di Bach. Ma nella realtà quotidiana e settimanale del culto, dobbiamo dire di essere a volte costretti ad usare le basi musicali registrate. Il canto rimane comunque fondamentale: i nostri fedeli conoscono l’innario e i suoi canti “a memoria”.
Sul piano storico-teologico certamente la musica è elemento portante del culto: momento chiave in cui l’assemblea riunita risponde alla Parola del Signore. Ci sono poche altre voci, oltre al pastore, nella liturgia. L’assemblea ha il suo ruolo nel canto corale. Ciò è da ricondurre alle riforme volute da Lutero che è stato musicista ed ha considerato il canto – la musica – parte fondamentale del culto (mentre per Calvino la musica era più legata al canto dei salmi). Spesso mi capita di svolgere il servizio di musicista in alcune comunità per la mancanza dello strumentista: volentieri metto a disposizione le mie competenze musicali.
Ecumenismo
- Lei è molto impegnata nel dialogo ecumenico: quali passi sono stati compiuti e quali sono ancora da compiere?
Se penso alle origini del movimento ecumenico – ossia all’incontro di Edimburgo del 1910 e all’accordo di Leuenberg del 1973, in cui abbiamo finalmente riconosciuto ministeri e sacramenti comuni – direi che di strada ne è stata fatta, specie tra confessioni protestanti. Noi celebriamo la santa cena aperta, ossia presieduta da pastori di qualunque confessione protestante. Viviamo anche l’ospitalità eucaristica: chiunque – anche di diversa confessione – può partecipare al nostro culto. Siamo soliti dire che la cena non è nostra, ma è del Signore.
Quello che faccio oggi è rivolto alla chiesa cattolica. A livello locale, a Mantova, ho incontrato una diocesi e dei responsabili molto attivi, sensibili, con cui stiamo organizzando iniziative di un certo rilievo, sia sul piano ecumenico che su quello del dialogo interreligioso. A livello nazionale collaboro col Segretariato per le Attività Ecumeniche.
Credo che i passi da fare si possano porre a tre livelli: quello di base che riguarda le comunità dei fedeli, spesso difficili da coinvolgere; c‘è poi quello della alta teologia che, in questo momento, non mi sembra particolarmente attivo; infine c’è quello – possiamo dire – della fascia intermedia in cui è presente una riflessione teologica congiunta ad un effettivo rapporto con la base dei fedeli delle rispettive confessioni: è in tale fascia che oggi io spendo e voglio spendere il mio impegno.
Spesso, sin che si tratta di appuntamenti ufficiali, va tutto bene, ma, poi, nella quotidianità, si tende al ritiro e a coltivare la fede cristiana a rispettosa distanza. Perciò ritorno al tema della ospitalità eucaristica, su cui penso ci sia un lavoro molto urgente da fare: per i protestanti è un dato di fatto acquisito, mentre per i cattolici – e ancor più per i fratelli ortodossi – non lo è: noto come ci sia sempre un forte imbarazzo. Il mio desiderio per il prossimo futuro – ciò per cui mi impegno – è poter condividere il momento fondamentale della manifestazione della fede tra tutti i cristiani.
Riforma e secolarizzazione
- Un’ultima domanda: qual è la posizione delle Chiese riformate sul fenomeno della secolarizzazione e dell’abbandono della pratica religiosa?
Vorrei dare una risposta a due livelli: il primo dal punto di vista delle chiese in generale e il secondo dal mio, più personale, di pastora e teologa.
Nelle comunità, soprattutto in quelle più piccole, il fenomeno della secolarizzazione ingenera senz’altro molta preoccupazione e, talora, declina nello scoraggiamento. Il disinteresse che si nota penso non riguardi il sentire religioso in sé, quanto le forme in cui esso si esprime. Da un lato si avverte dunque la preoccupazione di annunciare la Parola ad un mondo che appare sempre più lontano, mentre dall’altro si tenta di capire quali siano le ragioni della crisi.
La nostra chiesa ha condotto recentemente un grande lavoro di analisi attraverso un’indagine di tipo sociologico per cercare di capire chi siano i protestanti storici italiani, sia a livello numerico che di età anagrafica: è emerso, naturalmente, il problema delle giovani generazioni che sono davvero assenti nelle nostre chiese. Ci stiamo domandando che cosa non ha funzionato nella trasmissione, nel passaggio del testimone.
Sul piano personale penso che questi momenti di crisi – accentuati dalla pandemia – ci obblighino a prendere atto di una realtà di cui non vogliamo prendere coscienza sino in fondo, perché ci pone in una condizione di grave disagio. Parlo quindi di un’occasione pastorale da non perdere e di una grande sfida teologica.
Ci troviamo infatti di fronte al tramonto di un mondo e perciò di una modalità di trasmettere la fede cristiana. È compito della nostra generazione preparare oggi un futuro – di cui nessuno di noi potrà vedere lo sviluppo – nel quale reinventare la modalità della testimonianza. Si tratta di corrispondere ad una fame di senso e di trascendenza che ancora esiste, di aprire canali diversi di comunicazione della fede. Il compito dei cristiani oggi diventa quello di comprendere come portare l’acqua viva che noi abbiamo ricevuto a coloro che la cercano per dissetarsi, evitando la dispersione nella ricerca.
Dobbiamo alimentare una grande apertura di fondo per tutto ciò che è ricerca umana di Dio, con atteggiamenti molto meno confessionali rispetto al passato. Dunque – se abbiamo qualcosa di significativo – lo dobbiamo offrire senza arroccarci nel nostro mondo, nei nostri ambiti, nelle nostre tradizioni, utilizzando un linguaggio che tutti possano comprendere: intendo dire la lingua del dolore umano – della disperazione – così come della gioia, dell’entusiasmo. Parlare le “lingue” significa oggi poter incontrarci come esseri umani e condividere ciò che abbiamo di più prezioso in umanità.
Que bela entrevista, Ilenya Goss. Cada vez compartilho mais os princípios da Igreja Valdense, que foi tão perseguida ao longo dos séculos. Aqui no Brasil pouco se ouve falar sobre a Igreja Valdense. No entanto, surgiu, no início do século 20, uma denominação a Congregação Cristã no Brasil, que tem mais de 2,3 milhões de fiéis, inspirada nos princípios cristãos defendidos pelos Valdenses. Gostaria de conhecer mais a Igreja Valdense.
Carissima Ilenya,
che bello leggerti i questa intervista, come del resto ascoltarti quando ci incontriamo a Felonica.
Ti aspettiamo al Teatro Santini nel prossimo giugno per una tua relazione di bioetica.
con viva cordialità