Il grande teologo riformato Karl Barth, agli inizi degli anni Sessanta, in occasione di una sua visita a Roma al neonato Segretariato per l’unità dei cristiani, disse: «Esiste, in ultima analisi, un solo grande problema ecumenico: quello delle nostre relazioni con il popolo ebraico». Molto tempo prima, in piena epoca nazista, del resto, egli stesso aveva profeticamente sentenziato che «l’antisemitismo è un peccato contro lo Spirito Santo».
Il ruolo del sostituzionismo
Il punto di partenza della frattura tra ebrei e cristiani viene descritto così dai rabbini Jack Bemporad e Michael Shevack: «Ebreo. Cristiano. Sono rimasti, per quasi venti secoli, virtualmente tutta l’era cristiana, separati e antagonisti. Per quasi venti secoli gli ebrei hanno sofferto indicibili orrori, mentre provavano a sopravvivere ai pregiudizi brutali di gente sviata, che professava di essere cristiana con le parole ma non lo era con i fatti». In sintonia con la tesi dell’altro teologo riformato Fadiey Lovsky nel suo Verso l’unità delle Chiese, secondo il quale, nelle loro divisioni infracristiane, le Chiese hanno semplicemente trasposto il loro tradizionale vocabolario e soprattutto la mentalità forgiati nel plurisecolare conflitto con gli ebrei (il sostituzionismo).
Le due cose, ritengo, sono strettamente interconnesse, assai più di quanto possiamo accorgercene senza una riflessione adeguata: «Finché saremo convinti che gli ebrei sono rigettati, noi rigetteremo anche una parte dei cristiani; e finché agiremo così verso i cristiani, scacciandoli dal nostro cuore perché sono diversi da noi, non potremo avvicinarci agli ebrei nella gratuità di un vero amore». E proprio perché si è coltivata – nel cuore, nel linguaggio e nella teologia – la pseudoteologia del rigetto d’Israele, per secoli i cristiani sono stati persuasi che nulla di quanto caratterizzava gli ebrei (ma anche i cristiani eretici o scismatici) era degno di interesse.
Secondo Lovsky, l’ecumenismo comincia realmente quando cessiamo di ritenere che i cristiani da cui siamo separati siano rigettati: «Non si tratta di un semplice mutamento di ordine sentimentale, bensì di una metanoia, di una vera e propria conversione di ordine spirituale e teologico, che esige il rifiuto e la condanna di ogni teoria del rigetto degli ebrei, e della pretesa sostituzione di Israele da parte della Chiesa». Fino a sostenere, con ottime ragioni, che il nostro atteggiamento verso la perennità dell’elezione di Israele sia davvero la radice che porta, oppure no – riprendendo una celebre espressione paolina (Rm 11,18) – le nostre stesse divisioni. Così, il nostro atteggiamento verso lo scisma tra gli ebrei e la Chiesa appare come il prototipo di ogni riconciliazione ecumenica: e «il mistero di Israele vissuto dalla Chiesa appartiene alla speranza ecumenica della Chiesa finalmente una».
Superare i pregiudizi
Veniamo all’ambito cattolico. Se il quarto paragrafo della dichiarazione conciliare Nostra aetate può legittimamente essere preso come il punto di non ritorno su tali rapporti e notevolissimi vanno ritenuti gli effetti di quel documento «a un tempo modesto e profondamente innovatore», occorre in effetti ammettere che, per stilarne un bilancio credibile, il mezzo secolo trascorso sinora non si è rivelato ancora uno spazio sufficiente a estirpare dalla teologia e dalla mentalità cristiana i normali quanto radicati atteggiamenti pregiudizialmente antiebraici. Infatti, come annota uno specialista come il gesuita Francesco Rossi De Gasperis, «la laboriosità, la lentezza e la fatica dei percorsi seguiti dalle differenti comunità cristiane per correggere il loro cammino e riscoprire, riapprezzare e riconoscere con gratitudine la loro radice santa, testimoniano di quanto ce ne fossimo allontanati lungo due millenni di cristianesimo».
D’altra parte, sarebbe ingiusto negare che, finalmente, un iniziale segmento di cammino è stato realmente effettuato. Possiamo, anzi, ammettere che si sia trattato senz’altro del tratto più arduo e accidentato, soprattutto in quanto compiuto dopo quasi due millenni di assolute incomprensioni (reciproche, ahimè, pur con responsabilità ben diseguali), di condanne senza appello, spesso di persecuzioni dirette vere e proprie dei figli di Gesù verso i figli di Abramo: dall’istituzione del ghetto ai vari pogrom, fino alle responsabilità più o meno dirette – il dibattito è aperto – sugli indicibili orrori della Shoà. È lecito così parlare, in questo caso, di una novità epocale, perché è stata l’interruzione di una strada percorsa senza particolari contraddizioni almeno, e non a caso, a partire dalla sopra ricordata svolta costantiniana, quando all’apologia adversus Judaeos (contro i Giudei) del II e III secolo si andarono sostituendo l’ostilità e la persecuzione da parte della Chiesa persino nei suoi più autorevoli rappresentanti (ivi compresi non pochi Padri della Chiesa).
Dopo l’insegnamento del disprezzo
Appare indispensabile, perciò, ricordare come la vicenda dei rapporti tra cristiani ed ebrei sia stata, in buona sostanza fino alla metà del XX secolo, un’ininterrotta catena di contrapposizioni radicali fondata da parte cristiana sull’insegnamento del disprezzo verso Israele (come la definì per primo Jules Isaac, una figura chiave della nuova stagione dell’incontro cristianoebraico), e largamente segnata dalla ferita mai rimarginata della separazione tra Chiesa e Sinagoga (il cosiddetto protoscisma: la separazione tra fratelli nati all’interno dello stesso mondo religioso, quello del giudaismo, o meglio, dei diversi giudaismi del secondo tempio; o, per riprendere un’espressione del cardinal Martini, «il prototipo di ogni scisma»).
In buona sostanza: se abbiamo deciso di inserire, in un percorso sull’ecumenismo, lo snodo della rottura fra Israele e la Chiesa – molto meglio, fra il polmone giudaico della prima comunità dei fedeli di Gesù, largamente maggioritario nel primo secolo dell’era volgare, e quello proveniente dal paganesimo gentile –, è perché sono profondamente convinto che proprio lì risieda la ferita decisiva, la lacerazione iniziale e insieme cruciale all’interno della comunità originaria: che non riguarda semplicemente il dialogo interreligioso, ma il cuore dell’identità della Chiesa stessa, l’idea che essa ha di sé, e persino il senso dell’inculturazione della fede presso i diversi popoli. Quella che, fra l’altro, renderà possibili, e renderà così drammatiche e traumatiche, le altre rotture nel corso della storia della Chiesa, quelle infracristiane. Se non si fosse dato quel protoscisma – certo, lo si sa, la storia non si fa con i se e con i ma, eppure la teologia deve invece renderne conto –, le fratture successive, fra Oriente e Occidente cristiano e fra Nord e Sud del cristianesimo del vecchio continente, molto probabilmente non ci sarebbero state. E ben difficilmente avrebbero finito per produrre le tragedie immani che ne sortirono.
Come ha colto bene, un quarto di secolo fa, uno specialista appassionato come Renzo Fabris, relativamente ai rapporti fra cristiani ed ebrei: «Credo che quando si dice che il dialogo è appena iniziato e deve procedere oltre, si sottintenda questo lavoro di revisione e di approfondimento che non può esaurirsi in alcuni decenni e interessa tutta la teologia, la storiografia, la liturgia e la pietà della Chiesa: un lavoro di lunga lena che può essere affrontato solamente se il cristiano mantiene saldamente la fede nel suo Signore e diviene realmente umile di fronte ai suoi fratelli».
Brunetto Salvarani ci accompagna lungo la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani con un medaglione quotidiano, nella rubrica «Unitatis redintegratio». È docente di Teologia della missione e del dialogo presso la Facoltà teologica dell’Emilia Romagna. Dirige il movimento e rivista CEM Mondialità e la rivista trimestrale QOL (di cui è anche cofondatore), nata per dare voce alla ricerca biblica, al mondo dell’ecumenismo, al dialogo ebraico-cristiano. Dirige inoltre la collana della EMI Parole delle fedi. È membro del comitato editoriale della trasmissione Rai Protestantesimo.
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