Esiste una visione universalistica dell’ortodossia e una conseguente azione geopolitica? Come le Chiese ortodosse attraversano i processi di globalizzazione e come il multipolarismo mondiale (in attesa di sedimentazione) trova riscontro nell’azione sociale e civile delle Chiese ortodosse? Fra i possibili e imprevisti esiti si possono indicare, da un lato, l’avvicinamento del papato alla posizione russo-ortodossa e, dall’altro, una convergenza ecumenica delle Chiese europee non trainata dai dialoghi teologici, ma dalle sfide storico sociali.
L’isolazionismo americano e l’incapacità delle istanze dell’Unione Europea di contenere e interpretare la spinte centrifughe (Brexit – Visegrad) invalidano gli «scontri di civiltà» ipotizzati da Zbigniew Brzezinski e da Samuel Huntington.
Dopo il Vaticano e Lambeth
Sono le conclusioni di uno studio di Thomas Tanase (postato il 17 dicembre 2017) che si sviluppa in quattro punti: l’universalismo ortodosso, il ritorno al religioso, la deterritorializzazione delle Chiese, ortodossia e mondializzazione.
Il ritorno sulla scena politica mondiale del fattore religioso non significa che sul versante delle religioni e delle fedi ci sia un pensiero politico mondiale e un’intelligenza geopolitica. Il fondamentalismo islamico o la radicalizzazione induista o buddista ne sono un esempio.
Una visione geopolitica è facile da riconoscere alla Chiesa cattolica attraverso l’azione della diplomazia pontificia e il radicamento in molti paesi del mondo. Qualche importante residuo è visibile anche nella Chiesa anglicana, nella Conferenza di Lambeth, erede della politica del Commonwealth, seppur indebolita dalla frattura crescente Nord-Sud.
Si ritiene invece l’Ortodossia come specificamente nazionale, scarsamente interessata ai processi globali. Con poche eccezioni, come l’istanza ecologista interpretata dal patriarca di Costantinopoli, il grande sinodo di Creta (2016), solo parzialmente riuscito, o la rinnovata spinta imperiale della Russia a cui la Chiesa ortodossa offre un significativo supporto.
Gli europei e la fede
Concentrandosi sull’ortodossia, lo studio non considera il protagonismo cinese e suppone una continuità dell’egemonia cristiana (cattolici, protestanti e ortodossi), seppur decrescente, in Europa. Come ricorda Martin Riesebrodt: «Come potere costitutivo dello stato la religione ha fatto il suo tempo, ma in quanto forza sociale, le religioni giocano un ruolo determinante per l’Europa». Le statistiche in merito sono sempre approssimative. Se non altro per il diverso approccio: oggettivo o soggettivo.
Eurobaromètre (2015) indica così le appartenenze religiose nell’Unione Europea: cristiani 72% (45% cattolici, 11% protestanti, 10% ortodossi, 6% altri). I senza appartenenze confessionali sono il 24% (10% atei, 14% agnostici). 13 dei 28 stati – compresa la Gran Bretagna pre-Bexit – sono a dominanza cattolica, 3 a dominanza ortodossa, 2 protestante. In Cechia prevale la non appartenenza confessionale (64%).
Nell’autovalutazione soggettiva (registrata da Dalia Research, Berlino 2016) si qualificano cristiani il 50% dei cittadini europei (42% cattolici, 8% protestanti). Il 38% si dichiara non religioso, il 3% musulmano, l’1% ebreo, l’1% buddista, 8% altre appartenenze religiose. Se si allarga lo sguardo non solo ai 507 milioni dell’Unione, ma agli 820 dell’insieme del territorio continentale (47 stati) si registra una prevalenza dei cattolici (37%) sugli ortodossi (31%), sui musulmani (15%), sui protestanti (14,5%).
Un vettore di cambiamento importante è costituito dall’islam. Secondo uno studio del Pew Research Center, già registrato su Settimananews (L’Europa si islamizza?), le prospettive al 2050 sono indicabili secondo tre suggestioni. Se l’immigrazione si ferma, si passa dall’attuale 4,9% al 7,4%. Se i processi migratori vengono regolati e continuano, si va dall’attuale 4,9% all’11,2%. Se le migrazioni continuano secondo l’attuale ritmo, l’islam raggiungerà il 14% della popolazione europea nel 2050. Una crescita dovuta anche alla decrescita demografica degli altri ceppi religiosi che prevede un calo degli abitanti del continente da 521 milioni (compresa Norvegia e Svezia) a 482.
La crescita dell’islam rilancia la riflessione sull’identità cristiana, rafforza i gruppi cristiani autoritari e populisti, favorisce lo sviluppo delle comunità evangelicali e la pluralizzazione religiosa. «Il tema della religione riveste una nuova importanza sociale e politica e rende necessario rinegoziare il rapporto fra religione e società» (Yasemin El-Menouar, della Bertelsmann Stiftung).
Numeri e frequenze
Mentre per cattolici, protestanti e anglicani vi è un significativo spostamento a Sud del numero dei fedeli, l’ortodossia è e rimarrà prevalentemente europea, anche se la diaspora, il radicamento internazionale delle Chiese nazionali e la rinnovata missione ad gentes alimenteranno la diversità dei riferimenti interni.
Secondo lo studio Ortodox Christianity in the 21st Century, presentato da F. Mayer su Religioscope (9 novembre 2017), ci sono oggi 260 milioni di cristiani ortodossi nel mondo, comprese le Chiese precalcedonesi (armena, copta, etiopica, eritrea, siriaca).
Nel 1910 gli ortodossi erano il 20% dei cristiani nel mondo, oggi sono il 12%. Rispetto alla popolazione mondiale passano dal 7% al 4%.
200 milioni di ortodossi (il 77%) vivono in Europa centrale e orientale. La diaspora è in crescita. In Germania erano 4.000 nel 1910, oggi sono un milione e 100 mila. In Gran Bretagna erano 2.000 e sono oggi 500.000. Negli Stati Uniti erano 460.000 e sono oggi 1.800.000. La pratica religiosa ortodossa conosce i suoi picchi in Romania, Georgia, Moldova e Armenia.
In Russia una minoranza molto fervente vive in mezzo ad una popolazione segnata da un’educazione atea in cui l’adesione all’ortodossia ha un forte elemento di identità nazionale e culturale. Nello spazio post-sovietico la fede ortodossa come l’unica fede vera è affermata dal 31% (80% in Georgia, 74% in Armenia, 58% in Moldova), ma l’idea che vi siano molti elementi in comune con il cattolicesimo è condivisa dal 59% degli ortodossi.
Rispetto alle Chiese occidentali rimangono differenze significative sui temi morali come l’ordinazione delle donne e le unioni omosessuali, mentre sull’aborto le posizioni sono più vicine. Nello spazio post-sovietico è a favore della legge il 42% e, nell’insieme, il 53%.
La visione imperiale
T. Tanase ricorda le radici ancora vive dell’universalismo ortodosso dei 5 patriarcati dell’origine del cristianesimo (Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia, Gerusalemme) e la lunga esperienza del potere imperiale a Bisanzio-Costantinopoli. Nasce in quel contesto l’ipotesi dei rapporti Chiesa-impero come «sinfonia dei poteri» e il modello Chiesa-impero è più esemplare del pur prevalente Chiesa-nazione.
Le crociate, la pressione teutonica, i mongoli, la caduta dell’impero, l’invasione islamica hanno progressivamente privato l’ortodossia di un luogo politico riconoscibile, evidenziando i punti di riferimento simbolici di Costantinopoli e dell’Athos e affinando una formidabile capacità di resilienza.
Il riconoscimento di patriarcato a Mosca nel 1589 rafforza la convinzione dei russi di rappresentare la «terza Roma». La soppressione del patriarcato da parte di Pietro il Grande non affossa la pretesa e conferma il riferimento al modello imperiale bizantino, combinato con l’influenza del modello germanico.
Con la rivoluzione d’ottobre (1917) e l’espandersi del potere comunista, il mondo ortodosso sembra ancora una volta scomparire. Tanto più che Grecia e Cipro sono travolte dalla guerra civile nel secondo dopoguerra. È solo con il crollo del muro che l’Est Europa conosce il ritorno del religioso in terra ortodossa.
Il forte cambiamento innestato dal Vaticano II che aveva già interessato le comunità ortodosse non sovietiche, opera sulle altre nel momento della rinnovata libertà religiosa. Russia, Romania, Serbia, Bulgaria, Georgia, Ucraina conoscono una consistente crescita di chiese, parrocchie, preti, monasteri. La frequenza, a parte alcuni casi, è meno significativa della credenza religiosa come elemento di identità culturale. Si profila un modello sui generis, diverso dallo scetticismo dell’Europa occidentale, dalla pratica popolare del Sud e dalla religiosità americana.
Una modesta capacità di mobilitazione caratterizza le Chiese ortodosse e lo stesso rapporto con il potere locale è molto diversificato e si iscrive in società progressivamente secolarizzate. «Dalla Grecia alla Russia l’ortodossia partecipa al mantenimento dell’identità nazionale, legata allo stato, e ha come supporto una credenza molto larga, che permette una gamma di attitudini vasta, che va dall’affermazione di un’appartenenza culturale a una pratica molto intensa».
Più comunità che territori
Un primo processo di deterritorializzazione dell’ortodossia è in parallelo all’entrata nell’Unione Europea di stati a prevalenza ortodossa. Oltre la Grecia e Cipro, Bulgaria e Romania danno un peso demografico significativo (40 milioni), ulteriormente rafforzato se dovessero entrare Serbia e Montenegro.
È possibile identificare quattro grandi insiemi culturali dell’ortodossia contemporanea: ellenico, rumeno, balcanico e russo. L’ortodossia non è solo il mondo slavo.
Il secondo elemento del processo di deterritorializzazione è la diaspora. Ben oltre quella tradizionale (Parigi, USA), essa si espande in tutta l’Europa occidentale. Benché organizzata attorno alle Chiese nazionali (in particolare Russia e Romania), mette alla prova frontiere che diventano porose e permeabili. Favorendo la trasformazione delle Chiese nazionali in una sorta di potere “lieve”, contrapposto a quello forte degli stati. Vettore utile all’estero per i poteri statali, ma anche forza per le Chiese di fronte ad essi.
Le frontiere e le faglie delle civilizzazioni, slava-Occidente per Brzezinski e islamo-Occidente per Huntington (per altro in previsione di quella cino-Occidente) si sono rivelate solo parzialmente autentiche. Non è casuale che, dopo le crisi balcaniche e le guerre medio-orientali, il papato abbia aperto un’interlocuzione diretta con tutte le Chiese ortodosse dell’Est.
Il terrorismo internazionale, la grave crisi medio-orientale, la permanente guerra dell’Ucraina, le forze centrifughe nell’Unione Europea, l’ottusità di Trump hanno permesso il riemergere della Russia di Putin.
L’incontro del papa con il patriarca di Mosca Cirillo (Cuba, 12 febbraio 2016) e il rifiuto di Francesco dell’intervento armato USA contro Bachar el Assad (Siria) mostrano una convergenza prudente con la politica russa. «In termini generali, davanti a rivendicazioni societarie sempre più forti, spesso rafforzate dalla rimessa in questione del loro ruolo, le Chiese ortodosse dell’Unione Europea hanno progressivamente costruito una vera politica comune con il Vaticano, processo ormai allargato al patriarcato di Mosca».
Il discorso di Putin al club Valdaï (2013) e la sua visita all’Athos (2016) diventano suggestivi per le Chiese ortodosse. Anche perché «le istituzioni europee continuano a dare fiato a discorsi semplicistici contro la Chiesa ortodossa greca, contro le Chiese ortodosse e cattoliche, o contro le attitudini giudicate conservatrici nelle popolazioni, attualmente ancora reticenti nei confronti della politica russa, come in Romania, Bulgaria, Ungheria e Polonia».
Ortodossi e cattolici nel “disordine mondiale”
Un contesto molto diverso da quello degli anni ’90, quando USA ed Europa conoscevano un dinamismo comune e sintonico. Si potrebbe parlare di un «disordine mondiale generalizzato». «In questa situazione di disordine si naviga a vista. Il mondo ortodosso è un attore fra gli altri, con un proprio patrimonio e una propria ricchezza. Al di là delle posizioni spesso molto conservatrici, attua una cultura del compromesso e della resilienza che possono risultare utili: dopo tutto (e questo è un elemento di critica) le Chiese ortodosse hanno saputo comporsi con i mongoli, i sultani ottomani e il potere ateo sovietico. Possono partecipare in tutte le loro diversità alla creazione di nuove convergenze e di poli di resistenza davanti ai disastri, indispensabili per evitare gli scenari peggiori. Convergenze che non potranno basarsi unicamente sulle alleanze del passato, ma dovranno essere complesse. Non potranno limitarsi a un “ordine americano” e persino, per il mondo ortodosso, ad un assai improbabile “ordine russo-americano”. I cambiamenti attuali possono persino creare convergenze ancora impensabili. Sia il cattolicesimo che l’ortodossia erano fino a poco tempo fa fortemente territorializzati, in due spazi di civilizzazione chiaramente distinti, e tutti i tentativi di unità voluti dall’alto, dai poteri politici ed ecclesiastici, hanno fallito. Ma la proiezione mondiale attuale di questi due cristianesimi, anche se ineguale, la loro collocazione in problematiche sempre più simili, possono incrociare i credenti in maniera inedita. Senza fusioni improprie, i problemi finiscono per modificare le loro caratteristiche, in un modo ove anche le culture più lontane sono messe in relazione».