Un’osservazione preliminare: l’ingresso nel movimento ecumenico dei cattolici, temuto da alcuni e sperato vivamente da altri, avvenuto con il Vaticano II, non comportò per la Chiesa cattolica una rinuncia al proprio patrimonio istituzionale e dottrinale, né alla propria autocomprensione ecclesiologica; esso rappresentò bensì il frutto di un profondo ripensamento della sua cattolicità, collegabile a molti fattori concomitanti.
Sotto lo sguardo dell’altro
A partire dall’influsso che sull’idea di Chiesa stava avendo fin dal primo Novecento nel pensiero cattolico il ritorno alle fonti (il cosiddetto ressourcement), soprattutto a quelle bibliche e liturgiche. Poi, il fatto che il Vaticano II scelse di adottare una forma di deliberazione collettiva, esperienza in certo senso unica su scala planetaria: infatti, proprio la sua dimensione mondiale resta decisiva per coglierne le dinamiche profonde. Un’assemblea composita quanto vasta, e per di più in costante relazione con lo spazio esterno, a cominciare dalla presenza dei fratelli separati (come si definivano ancora all’epoca), rappresentanti delle altre Chiese, in qualità di osservatori: una presenza destinata a rivelarsi determinante. Perché l’ultimo concilio si svolse, a differenza degli altri, sotto lo sguardo dell’altro (C. Theobald). Non solo: esso coscientemente accolse lo sguardo esterno, fino ad assumerlo in chiave di autocoscienza, e a poter parlare di un autentico cambio di paradigma al riguardo. Ora, l’ecumenismo cessava di essere l’aspirazione utopica o la specializzazione di qualche appassionato, ma un tema cruciale per la comunità tutta!
Naturalmente, ebbero un peso sostanziale anche le biografie dei protagonisti. Per esempio, si può ricordare che il futuro Giovanni XXIII, per decenni delegato apostolico in Oriente (prima in Bulgaria e poi in Turchia e Grecia, dal 1925 al 1944), aveva maturato nel tempo una notevole sensibilità ecumenica.
Un iter travagliato
Lo schema conciliare De oecumenismo, punto d’avvio del materiale destinato a diventare il decreto conciliare Unitatis redintegratio, ha conosciuto una storia assai travagliata. Nulla di sorprendente, se si tiene presente che fino alla metà del secolo scorso la Chiesa cattolica non aveva ancora deciso di prendere parte ufficialmente al cammino ecumenico, avviatosi con la Conferenza missionaria mondiale di Edimburgo (1910). E ancora alla vigilia dei lavori, non erano pochi i vescovi e teologi che denunciavano apertamente come rischiosa la formula di preghiera per l’unità dei cristiani suggerita dall’abate francese Couturier, padre dell’ecumenismo spirituale.
In realtà, sin dal suo annuncio improvviso da parte di Roncalli, il concilio fu convocato con una forte impronta ecumenica. E nella consapevolezza, come egli stesso ebbe modo di ribadire più volte, che «tutti noi siamo corresponsabili della separazione»; per cui, più che aprire processi storici o indicare chi aveva ragione e chi torto, sarebbe stato utile solo dire: «Incontriamoci e mettiamo fine alle divisioni». Così, appare logico che tra i compiti del neonato Segretariato per l’unità dei cristiani presieduto dal cardinal Bea e voluto dal papa, nella fase preparatoria dei lavori, ci fosse l’elaborazione dell’abbozzo di un documento sull’unità dei cristiani (1960–1962). Da questa fase scaturirà il testo De oecumenismo catholico, consegnato ai padri conciliari nel maggio 1963 per raccoglierne da subito le impressioni.
In tal modo, le tematiche discusse spesso clandestinamente e con estrema circospezione in sparuti drappelli di teologi e fedeli votati alla causa dell’unità dei cristiani, diventavano improvvisamente argomenti di discussione dei padri conciliari. Con effetti, allora, del tutto imprevedibili. Fino a far sì che il movimento ecumenico non fosse più bollato come pericolosa opinione, riconoscendo invece che esso «è sorto per impulso della grazia dello Spirito Santo» (Unitatis redintegratio, n. 1). Com’è naturale, non mancarono le voci problematiche, o apertamente critiche. Si temeva, ad esempio, che il documento potesse essere letto come un cedimento al cosiddetto indifferentismo, dando l’impressione all’opinione pubblica mondiale che tutte le forme di cristianesimo fossero sostanzialmente uguali.
La gerarchia delle verità
La mossa decisiva fu l’adozione del principio per cui «esiste un ordine o gerarchia nelle verità della dottrina cattolica, essendo diverso il loro nesso con il fondamento della fede cristiana» (UR, n. 11). Troppo spesso, infatti, l’immagine che le Chiese hanno le une delle altre si basa su elementi secondari, che non colgono gli elementi essenziali della dottrina e dell’identità ecclesiale: così, questa distinzione tra fundamentalia e adiafora produsse ben presto una maggiore elasticità, e maggior franchezza nel dialogo. Tra le prime verità, nell’ordine dei fini, fondamentali dunque proprio nel senso etimologico di poste a fondamento della rivelazione, vanno annoverate, ad esempio, i dogmi dell’incarnazione di Gesù Cristo e della Trinità, comuni a tutti i cristiani; tra le altre, verità che sono nell’ordine dei mezzi della salvezza, possiamo mettere, sempre a mo’ di esempio, il numero dei sacramenti, o la struttura gerarchica della Chiesa, o una certa devozione alla vergine Maria, che non sono patrimonio di tutte le Chiese. Una distinzione che, se non ben colta, potrebbe sembrare in contrasto con altre precedenti affermazioni magisteriali: si pensi all’enciclica di Pio XI Mortalium animos, del 1928, per la quale le verità sarebbero tutte uguali per la fede cristiana, perché è Dio stesso ad averle rivelate.
Il protagonista della cruciale innovazione fu un prelato poco noto al grande pubblico ma senz’altro attrezzato, con un intervento destinato a rivelarsi storico: l’arcivescovo di Gorizia-Gradisca e futuro segretario della CEI Andrea Pangrazio, che, il 25 novembre 1963, lanciò il tema della gerarchia delle verità, che entrerà nella versione definitiva dell’Unitatis redintegratio al n. 11: «Per meglio determinare il grado di unità già esistente fra tutti i cristiani e insieme le differenze, bisognerebbe tener presente l’ordine gerarchico delle verità rivelate e degli elementi ecclesiali costitutivi della stessa Chiesa. Tutte le verità rivelate devono essere credute per fede divina e tutti gli elementi costitutivi della Chiesa devono essere ritenuti, certamente: tuttavia c’è fra loro una diversità. Ci sono verità che rivestono piuttosto la ragion di fine: la Trinità, l’Incarnazione, la Redenzione ecc. Altre che hanno piuttosto il carattere di mezzo: i sette sacramenti, la struttura gerarchica della Chiesa, la successione apostolica, ed altre… Orbene: le diversità dottrinali fra i cristiani riguardano meno quel primo gruppo di verità, che non questo secondo».
Del decreto, approvato il 21 novembre 1964, Yves Congar scriverà alla fine del concilio: «Nessuno di noi, soltanto tre anni fa, avrebbe potuto immaginare che esso sarebbe diventato tale e avrebbe raccolto consensi unanimi». Certo, oggi – nota il teologo Giuseppe Ruggieri – nei principali esponenti del movimento ecumenico prevale la delusione, se non lo scetticismo, rispetto alle attese di allora, mentre le Chiese sembrano essersi irrigidite nelle verità che appartengono all’ordine dei mezzi, ed essere meno interessate a quel vinculum esistente già tra esse: «Ma non è detto che il filo caduto a terra non venga risollevato dalle nostre mani e portato ancora avanti». Tantum aurora est…
Brunetto Salvarani ci accompagna lungo la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani con un medaglione quotidiano, nella rubrica «Unitatis redintegratio». È docente di Teologia della missione e del dialogo presso la Facoltà teologica dell’Emilia Romagna. Dirige il movimento e rivista CEM Mondialità e la rivista trimestrale QOL (di cui è anche cofondatore), nata per dare voce alla ricerca biblica, al mondo dell’ecumenismo, al dialogo ebraico-cristiano. Dirige inoltre la collana della EMI Parole delle fedi. È membro del comitato editoriale della trasmissione Rai Protestantesimo.