Abbiamo chiesto a fratel Aloïs in che modo la Comunità ecumenica di Taizé intenda promuovere lo sviluppo sociale in Europa e nel mondo, e quale contributo desideri offrire per far fronte alle attuali sfide.
La domanda è molto ampia, perciò mi limiterò a dare una risposta personale. Anzitutto mi vengono in mente le parole del profeta Isaia: «Farò camminare i ciechi per vie che non conoscono, li guiderò per sentieri sconosciuti; trasformerò davanti a loro le tenebre in luce» (Is 42,16). Anche se molte cose sembrano oscurarsi davanti a noi, noi Fratelli possiamo solo sempre pregare il Signore, perché guidi noi ciechi su vie che non conosciamo.[i]
Una parabola della comunità
Nella domanda che mi è stata rivolta è già implicito il fatto che noi ci comprendiamo prima di tutto come una comunità ecumenica. Nella nostra vocazione ecumenica c’è già una prima risposta.
Una comunità di Fratelli può essere un segno di pace e di riconciliazione. Di questo era profondamente convinto Fr. Roger di fronte alla violenza che lacerò allora l’Europa, quando, ancor giovane, in piena seconda guerra mondiale, si stabilì a Taizé.
La vocazione della comunità consisteva per lui, fin dall’inizio, nell’essere “una parabola della comunità”, attraverso la quale egli già pensava al dopoguerra.
Ogni vita, consacrata al servizio di Dio e del prossimo, rappresenta una parabola. Una parabola non costringe e non cerca nemmeno di provare qualche cosa. In un mondo chiuso in se stesso, essa apre una finestra sull’aldilà e permette di gettare uno sguardo sull’infinito. Chi vive in questo modo ha, per così dire, attraverso Cristo un’àncora in Dio e può resistere alle tempeste. Noi, Fratelli della Comunità, vogliamo essere una tale “parabola della Comunità”. Comunità, riconciliazione e fiducia sono concetti chiave a Taizé. Intendiamo dire con questo che una comunità può essere un “laboratorio di convivenza fraterna”.
Questa ricerca della comunità e della fraternità ci sfida in maniera particolare in due ambiti: da una parte, quello anzitutto della riconciliazione dei cristiani e, dall’altra, della convivenza tra le diverse culture. La nostra comunità è costituita da Fratelli protestanti e cattolici e, occasionalmente, vivono con noi, per un certo tempo, anche alcuni monaci ortodossi. In questo modo vorremmo anticipare la sospirata unità dei cristiani.
Questa vita ecumenica per noi è diventata ovvia. Quei nostri fratelli che provengono da una famiglia protestante vivono nella comunità senza rinnegare in alcun modo la loro origine; anzi, avvertono che la loro fede acquista maggiore ampiezza. I Fratelli di famiglie cattoliche vedono un arricchimento nel fatto di aprirsi, secondo lo spirito del concilio Vaticano, ai problemi e ai doni delle Chiese nate dalla Riforma. Questa vita ecumenica può significare delle restrizioni e delle rinunce, ma la riconciliazione non è mai possibile senza rinunciare a qualcosa.
Si può considerare la storia di Taizé come un tentativo di riunirsi “sotto uno stesso tetto”. Siamo un centinaio di Fratelli di circa 30 Paesi diversi che vivono sotto lo stesso tetto. Tre volte al giorno ci riuniamo per la preghiera comune sotto lo stesso tetto della chiesa della riconciliazione.
La nostra preghiera comune riunisce anche giovani di tutto il mondo. Cristiani cattolici, protestanti e ortodossi prendono così parte a questa parabola della comunità.
Rimaniamo sempre più stupiti come in questo modo delle persone esperimentino una profonda reciproca unità senza ridurre a un minimo denominatore comune le loro differenze di fede o i loro valori. Nella preghiera comune si crea un’armonia tra persone di differenti confessioni, culture e perfino fra popoli tra i quali a volte esistono forti tensioni.
Il secondo ambito della nostra ricerca della comunità fraterna è la convivenza di diverse culture. Fa parte di questa parabola della comunità anche condividere la vita e le condizioni di coloro che sono diversi da noi. L’aveva compreso anche Fratel Roger già pochi anni dopo la guerra, quando i Fratelli della comunità provenivano ancora esclusivamente dai paesi europei. Egli inviò dei Fratelli a condividere in piccole comunità provvisorie, spesso in condizioni difficili, la vita delle persone di altri continenti. Ciò continua a far parte essenziale anche oggi della vita della comunità – e da un anno si trovano due fratelli della comunità anche a Cuba.
Noi Fratelli veniamo oggi da diverse culture di tutti i cinque continenti e abbiamo inoltre caratteri molto diversi. Nei nostri rapporti vicendevoli siamo a volte malaccorti e compiamo degli errori, è fuor di dubbio. Ma c’è anche un problema più profondo che non dipende da noi: capita che la distanza tra i diversi “volti” dell’umanità che rappresentiamo è troppo grande, talvolta a causa delle ferite dovute alla storia dei nostri Paesi e continenti. Non ce la facciamo sempre a superare questi fossati.
È una cosa che ci rattrista e dobbiamo domandarci come comportarci. Anzitutto non dobbiamo lasciarci paralizzare; non dobbiamo fermarci, ma continuare a cercare l’unità e la riconciliazione. Dobbiamo guardare in questo a Cristo: egli solo può riunire tutto e tutti. Dobbiamo in questo seguirlo. Non dobbiamo tirarci indietro per paura dell’altro, non dobbiamo giudicarlo e dobbiamo anche resistere all’impressione di essere noi stessi giudicati. È importante non interpretare le cose negativamente, ma discutere apertamente i problemi che sorgono – e in tutte le cose mai rifiutare a nessuno la comunione fraterna. Ciò che dico può sembrare arduo. Ma paradossalmente è la fonte di una gioia profonda, la gioia di seguire fino in fondo l’invito del Vangelo.
L’impegno per l’unità dell’Europa
Questa parabola della comunità, che noi Fratelli viviamo e a cui partecipano i giovani, ha un significato anche per l’Europa, soprattutto in questo difficile momento. Vorrei a questo proposito ricordare il nostro incontro con la gioventù europea che ha avuto luogo nel passaggio dell’anno 2016-17, a Riga, capitale della Lettonia. È stato il 39° incontro di questo genere e ha rappresentato un’ulteriore stazione del “pellegrinaggio di fiducia sulla terra” iniziato da Fratel Roger alla fine degli anni ’70.
C’erano molti giovani venuti a Riga da Paesi che non fanno parte dell’Unione Europea, e che hanno vissuto l’esperienza di una comunità che riunisce persone di ogni parte del nostro continente. Molti di loro hanno esperimentato in quei giorni sul Baltico la molteplicità dei paesi d’Europa con la loro propria storia e tradizione.
In questo ritrovarsi c’è un messaggio per l’Europa: venire come pellegrini in un piccolo Paese come la Lettonia vuole significare che in Europa la voce di ogni singolo popolo conta e dovrebbe essere ascoltata da tutto il continente. Questi giovani desiderano che sia rispettata la condivisione fraterna nelle sue caratteristiche sia locali che regionali. Essi sanno quanto sia importante per la pace, la solidarietà tra i singoli paesi del continente. Per questa ragione dobbiamo conoscerci ancor meglio tra noi e favorire lo scambio reciproco e una più solida collaborazione.
L’unità del continente si farà soltanto se tutti i paesi europei giungeranno a dialogare in maniera più profonda tra loro e cercheranno di comprendersi gli uni gli altri. Ogni Paese, grande o piccolo che sia, deve trovare ascolto ed essere rispettato nella sua particolarità. Soltanto cercando di immedesimarci con gli altri, potremo anche comprendere gli atteggiamenti contrastanti ed evitare le reazioni emotive.
Ma il “pellegrinaggio di fiducia” deve costruire ponti anche verso gli altri continenti. Recentemente, nell’agosto dello scorso anno, ha avuto luogo a Cotonou, in Africa occidentale, in Benin, un incontro in cui 7.500 giovani di diversi paesi hanno riflettuto per cinque giorni sul tema “Dove sta la speranza per noi in Africa?”.
Quest’anno, su invito della Chiesa locale, avrà luogo un incontro del genere a Saint Louis (USA), dove la violenza razzista, dopo i fatti di Fergusson di tre anni fa, non accenna a placarsi.
Non lasciamoci impaurire di fronte al flusso dei migranti
Vorrei a questo punto rispondere ad un altro problema molto delicato davanti al quale si trova oggi l’Europa, quello del flusso dei migranti verso il nostro continente.
In tutto il mondo ci sono persone costrette a lasciare il loro Paese. La loro situazione è talmente insopportabile che nessuna barriera di confine potrà arrestare. A questo riguardo, non cambia niente per quanto si reagisca in maniera preoccupata e inquieta.
Alcuni dicono: “non possiamo accogliere tutti”. In effetti non solo è legittimo, ma anche necessario regolare i movimenti dei migranti; lasciare queste persone in mano ai trafficanti che le mandano, col rischio della vita, attraverso il Mediterraneo è una cosa che contraddice tutti i valori umani.
Nessuno può negare che i paesi ricchi siano corresponsabili delle ferite storiche e dello squilibrio ecologico che provoca enormi movimenti di popolazioni in diverse parti della terra, e continuerà a provocarli, specialmente in Africa, nel Vicino Oriente e nell’America Centrale.
Infatti, è nei paesi del benessere che continuano ancora ad essere prese delle decisioni politiche ed economiche che provocano l’instabilità in altri continenti.
È tempo che gli abitanti dei paesi occidentali superino le loro paure di fronte agli estranei e alle altre culture e comincino decisamente ad adeguare il loro modo di vivere alle nuove realtà.
Il flusso di persone in fuga ci pone davanti a grandi sfide, ma per l’Europa può essere anche un’occasione per aprirsi maggiormente e diventare più solidale. Questo vale già all’interno dell’Europa. Soltanto se i Paesi europei affronteranno insieme la sfida, si potrà impedire che a persone di determinati luoghi sia chiesto troppo dalla nuova situazione. Molti giovani sono convinti che l’Europa potrà continuare a costruirsi solamente se cerchiamo ciò che ci accomuna a un livello più profondo. Ma l’Europa non deve essere solamente unita in se stessa; deve rimanere aperta anche agli altri continenti ed essere solidale verso gli altri Paesi che conoscono tempi difficili.
Quando andiamo verso le persone che sono più povere di noi, proviamo una grande gioia. A Taizé lo costatiamo continuamente. Abbiamo accolto tra noi due famiglie cristiane dell’Iraq e una famiglia musulmana della Siria; inoltre, un gruppo di giovani del Sudan e dell’Afghanistan e, in via provvisoria, un gruppo di profughi minorenni del Sudan e dell’Eritrea. Se non lasciamo sole queste persone nel loro bisogno e ci prendiamo il tempo per ascoltarle e conoscere tutto ciò che hanno sofferto, allora nasce spesso una profonda amicizia. Io dico di continuo ai rifugiati che abbiamo accolti: “Dio vi ha mandato a noi!”.
Non dobbiamo nemmeno mai dimenticare che in tutti i nostri Paesi da lungo tempo convivono diverse culture. Anche verso le persone che da molto tempo vivono tra noi e con noi dobbiamo cercare il contatto personale e costruire ponti. Niente può sostituire un contatto personale. Questo vale in particolare per l’incontro con l’islam. Musulmani e cristiani possono insieme porre dei segni di pace e opporsi alla “violenza in nome di Dio”.
Francesco d’Assisi, 800 anni fa, non esitò a far visita al sultano in Egitto per promuovere in questo modo la pace.
Madre Teresa ha dedicato a Calcutta l’intera sua esistenza ai più poveri dei poveri – senza guardare alla religione.
Isolarsi all’interno dell’Europa significherebbe finire in un vicolo cieco. Sia tra gli europei come con i profughi esiste una condivisione fraterna dell’unica via verso la pace.
1 Il testo originale in lingua tedesca è stato pubblicato nella rivista di VC in lingua tedesca OK – Ordens Korrespondenz col titolo Herausforderungen für Taizé in der heutigen Zeit n. 1. 2017.