Aspettiamo il successore di Francesco (sperando sia meglio di lui)! Questo il succo della decisione presa dalla Fraternità sacerdotale san Pio X (lefebvriani). Il comunicato del superiore generale, mons. Bernard Fellay (29 giugno), pubblicato dopo tre giorni di riflessione con i suoi diretti collaboratori, i superiori delle comunità e la consultazione con gli altri due vescovi, Tissier de Mallerais e mons. de Galarreta, (Anzère, Svizzera, 25-28 giugno) pone l’ennesimo «no» alla soluzione della deriva scismatica del movimento. Dopo il prolungarsi dei colloqui con la Commissione Ecclesia Dei e l’incontro diretto con il papa, il primo aprile 2016, si era diffusa la percezione di una possibile soluzione. Ne aveva parlato lo stesso Francesco in un’intervista al quotidiano cattolico francese La Croix (9 maggio). A una domanda sul tema, rispondeva: «Si dicono cattolici. Amano la Chiesa. Mons. Fellay è un uomo con cui si può dialogare. Non è così per altri elementi un po’ strani, come mons. Williamson, o altri che si sono radicalizzati. Penso, come avevo detto in Argentina, che siano cattolici in cammino verso la piena comunione… Si dialoga bene, si sta facendo un buon lavoro».
I punti critici sono sempre quelli: il magistero, la tradizione, l’accettazione del Vaticano II. Il comunicato ha una parte di “detto” e una parte di “non detto”.
Il “detto”: – tornare a proclamare la «la dottrina cattolica», denunciando gli errori «incoraggiati purtroppo da numerosi pastori, fino al papa stesso»; – la fraternità «non è alla ricerca di un riconoscimento canonico prima di ogni cosa, riconoscimento al quale essa ha diritto in quanto opera cattolica»: – la restaurazione «non potrà realizzarsi senza l’appoggio di un papa che favorisca concretamente il ritorno alla santa tradizione»; – la fraternità prega «perché il papa abbia la forza di proclamare integralmente la fede e la morale».
L’eventuale soluzione canonica non ha mai costituito il problema centrale – si torna a parlare con insistenza di prelatura – mentre l’elemento irricevibile per i lefebvriani è il Vaticano II. Anche se mons. G. Pozzo, segretario dell’Ecclesia Dei, ha fatto notare che «il riconoscimento canonico da parte della Santa Sede è condizione essenziale perché un’opera cattolica sia nella piena comunione ecclesiastica, conforme al diritto … il riconoscimento canonico non è un fatto notarile, è condizione essenziale».
C’è una parte di “non detto”, non meno importante. Al tentativo di alcuni amici dei tradizionalisti di scivolare sulle differenze dottrinali per concentrarsi sugli elementi canonici, la fraternità oppone la sua irricevibile richiesta di annullare un concilio i cui documenti sono stati firmati nel loro insieme anche dal loro fondatore, mons. Lefebvre, poi pentito. Non emerge nel testo la minaccia, un tempo assai sottolineata, di possibili nuove ordinazioni episcopali. Elemento positivo che si accompagna al silenzio sulle posizioni strampalate di Williamson, estromesso dalla fraternità, ma non privo di consensi all’interno delle truppe tradizionalistiche.
Il “no” a Roma nasconde l’incapacità di Fellay di mantenere unito il gregge nel possibile ritorno alla piena comunione ecclesiale. Per nascondere questa radicale fragilità – un’identità che si può dar solo contro qualcuno – vi è il paradossale e ossessivo richiamo al papa. Non ha funzionato la “prossimità ecclesiologica” di papa Benedetto. Sembra non funzionare la “prossimità dialogante” di papa Francesco. Quello che Fellay e i suoi non hanno capito è che la loro questione è stata, per un tratto, centrale ed ora è periferica. Il loro rientro poteva condizionare la Chiesa. Oggi e domani potrà condizionare solo le loro biografie.
Ottima analisi