In attesa dell’enciclica sulla fratellanza, diviene urgente la riflessione sulla dimensione ecumenica della fede cristiana, che trova il suo momento culmine nella cena del Signore. Mentre ci sentiamo fratelli in quanto tutti figli dello stesso Padre e in relazione all’umanità intera, dobbiamo ancor più sentirci fratelli in Cristo con quanti condividono lo stesso Battesimo, continuando a sperare che un giorno si possa sedere alla stessa mensa.
Il vivace dibattito che si sta verificando in Germania, a margine dell’assemblea dei vescovi cattolici tedeschi e in relazione al gruppo di lavoro interconfessionale intorno al tema dell’ospitalità eucaristica, con la lettera della Congregazione per la dottrina della fede, che ribadisce l’impossibilità di tale compartecipazione, almeno allo stato attuale della riflessione teologica, forse non entusiasma molto noi italiani, penso soprattutto a causa del carattere estremamente minoritario della presenza protestante nel nostro Paese (per una ricostruzione della vicenda cf. la rivista on line Riforma).
Il collega prof. Fulvio Ferrario, decano e docente della Facoltà Teologica Valdese, nella sua pagina Facebook, invita a mettersi il «cuore» in pace e quindi a rinunziare a questa prospettiva nell’ambito della prassi ecumenica e forse anche del dialogo teologico. La rassegnazione non mi appartiene, in quanto preferisco una «teologia inquieta» come lettore di Fernando Pessoa, ma soprattutto di Agostino. E da questa inquietudine nascono alcune riflessioni, tendenti piuttosto a proseguire il dialogo teologico, che a chiuderlo, anche perché, se posso mettere in pace il cuore, la mente, al contrario, non riesco proprio a metterla a tacere.
Un duplice ricordo
Parto da un duplice ricordo. Il primo attiene a quanto espresso da papa Francesco nella sua visita alla chiesa luterana di Roma, domenica 15 aprile 2015. Riporto solo un passaggio della domanda/risposta, che in quell’occasione mi ha molto colpito e ha fatto molto discutere (qui il testo completo):
La signora: «Mi chiamo Anke de Bernardinis e, come molte persone della nostra comunità, sono sposata con un italiano, che è un cristiano cattolico romano. Viviamo felicemente insieme da molti anni, condividendo gioie e dolori. E quindi ci duole assai l’essere divisi nella fede e non poter partecipare insieme alla Cena del Signore. Che cosa possiamo fare per raggiungere, finalmente, la comunione su questo punto?». Il papa: «Grazie, signora. Alla domanda sul condividere la Cena del Signore non è facile per me risponderle, soprattutto davanti a un teologo come il cardinale Kasper! Ho paura! Io penso che il Signore ci ha detto quando ha dato questo mandato: “Fate questo in memoria di me”. E, quando condividiamo la Cena del Signore, ricordiamo e imitiamo, facciamo la stessa cosa che ha fatto il Signore Gesù. E la Cena del Signore ci sarà, il banchetto finale nella Nuova Gerusalemme ci sarà, ma questa sarà l’ultima. Invece nel cammino, mi domando – e non so come rispondere, ma la sua domanda la faccio mia – io mi domando: condividere la Cena del Signore è il fine di un cammino o è il viatico per camminare insieme? Lascio la domanda ai teologi, a quelli che capiscono».
Non possiamo lasciare la questione a una disputa fra tedeschi: penso che non dobbiamo più considerare la Germania l’ombelico del mondo teologico, per quanto interessanti siano le problematiche che vi si affrontano, anche perché, quando lo abbiamo fatto, non ci siamo solo procurato del bene. Vorrei sottolineare anche a mia volta che la questione della partecipazione alla mensa eucaristica, intesa come panis viatorum, piuttosto che come panis angelorum ci ha impegnati anche in occasione del passaggio più discusso dell’Amoris laetitia.
L’altro ricordo riguarda il pluriennale lavoro fra un gruppo di teologi della Lateranense, coordinati dal sottoscritto, e i luterani Eilert Herms e Christoph Schwöbel, allora a Tubinga, e Wilfried Härle, di Heidelberg. Spesso i lavori si svolgevano full time nei week end e i colleghi tedeschi chiedevano di partecipare all’eucaristia che presiedevo e presiedo la domenica sera nella parrocchia romana di San Fulgenzio. Con grande dolore loro e mio, al momento della distribuzione della comunione i colleghi si astenevano.
Mi sembra riduttiva e, per certi aspetti fuorviante, l’affermazione di Ferrario, secondo cui sarebbe ora di metterci tutti quanti il cuore in pace, per il semplice fatto che «il Vaticano non vuole spostarsi di un millimetro, perché significherebbe rinunciare al monopolio di Cristo del quale si ritiene detentore. Questo è l’unico problema, non ce ne sono altri». Ferrario sa meglio di me che alcuni nodi teologici permangono, ma al tempo stesso trovano, da una parte e dall’altra, grovigli sempre più profondi.
«Presenza reale»
Si tratta del primo di tali nodi. Lo scorso anno le edizioni Studium hanno pubblicato, a cura di Antonio Sabetta e per la prima volta nella sua versione integrale nella nostra lingua, la Confessione sulla cena di Cristo (opera di Martin Lutero datata 1528). Qui il padre della Riforma afferma senza mezzi termini che le parole della cena indicano la realtà della presenza del Signore nelle specie eucaristiche contro quanti, nell’ambito dello stesso movimento riformatore, affermavano la valenza meramente simbolica del sacramento. Il documento Dal conflitto alla comunione (della Commissione mista cattolico-romana e evangelico-luterana sull’unità, del 2013) recepisce la dottrina sia di Trento che di Lutero, esprimendosi in questi inequivocabili termini (n. 154):
«La questione della realtà della presenza di Gesù Cristo nella santa Cena non è materia di controversia tra cattolici e luterani. Il dialogo luterano-cattolico sull’eucaristia ha potuto dichiarare: “La tradizione luterana afferma, insieme con la tradizione cattolica, che gli elementi consacrati non rimangono semplicemente pane e vino, ma che, in virtù della parola creatrice, ci vengono donati come corpo e sangue di Cristo. In questo senso potrebbe anch’essa parlare, in un certo senso con la tradizione greca, di una trasformazione” (L’eucaristia, n. 51). Cattolici e luterani “si oppongono insieme a una concezione spaziale o naturale di questa presenza e a una comprensione del sacramento puramente commemorativa o metaforica” (L’eucaristia, n. 16)» [le citazioni interne sono tratte da: Commissione Congiunta Cattolica Romana – Evangelica Luterana, L’eucaristia, 1978; EO 1/1258].
All’interno del protestantesimo è quindi evidente che permangono notevoli differenze di interpretazione della presenza del Signore nel sacramento della cena. Il che non ha impedito la partecipazione delle diverse denominazioni «classiche» alla Concordia di Leuenberg del 1973, con la possibilità dei pastori delle diverse Chiese di presiedere il culto. Una sorta di «consenso differenziato», che non impedisce la comunione, ma la rafforza.
Altro problema le denominazioni evangelicali e pentecostali, che tuttavia risultano prevalenti almeno numericamente nel contesto protestante. Ma un confronto serio non può partire proprio dal testo di Lutero in modo che l’affermazione del documento Dal conflitto alla comunione sopra riportata possa essere realmente condivisa non solo fra luterani e cattolici?
Sacrificio
È il secondo nodo. Il documento sopra citato (n. 157) così si esprime:
«Riguardo alla questione che per i riformatori era della massima importanza – il sacrificio eucaristico – il dialogo luterano-cattolico ha dichiarato come principio basilare: “Cattolici e luterani riconoscono insieme che Gesù Cristo nell’eucaristia è presente come crocifisso, morto per i nostri peccati e risorto per la nostra giustificazione, come vittima offerta una volta per sempre per i peccati del mondo”. Questo sacrificio non può essere né continuato né ripetuto né sostituito né completato; ma può e deve diventare operante in modo sempre nuovo in mezzo alla comunità. Sul modo e la misura di questa efficacia esistono fra di noi diverse interpretazioni».
La domanda allora è: possiamo ritenere il conflitto delle interpretazioni come elemento di divisione, che preclude la comunione? Certo, in questo senso la nuova versione italiana del Messale romano, per il rito cattolico latino, non aiuta affatto l’ecumene, col ricorso continuo alla categoria del sacrificio e con una teologia soggiacente a dir poco ambigua e fuorviante, soprattutto allorché si dichiara la «piena identità tra il sacrificio della croce e la sua rinnovazione sacramentale nella Messa» (Proemio, p. XVIII).
Anche se più volte si usa il termine memoriale, questa espressione identificante denota scarsa conoscenza della teologia in chi ha redatto questo testo. Infatti, che fine fa l’«una volta per tutte» (ἐφάπαξ; Eb 7,27) del Nuovo Testamento, se si dà questa presunta «identità» fra il venerdì santo e l’eucaristia?
Del resto, come ha opportunamente notato Massimo Naro, al quale non posso certo dire «te l’avevo detto!», perché lo sapeva già: «Ho l’impressione che chi ha curato la nuova edizione italiana del Messale abbia ceduto alla sirena estetizzante che già aveva frastornato i curatori dei nuovi lezionari pubblicati qualche anno fa. Qui la situazione, sotto questo riguardo, appare peggiorata, perché la tendenza estetizzante, che del resto si sposa bene con la tendenza letteralistica (ne è esempio emblematico quella “rugiada dello Spirito Santo” che nella seconda preghiera eucaristica sostituirà la precedente “effusione dello Spirito Santo”), abbia distratto i curatori proprio da quei passaggi importanti in cui la comunitaria (vogliamo dire “agapica”?) soggettualità ecclesiale finisce per pagare un dazio pesante a certe tendenze chiericalizzanti e gerarchizzanti» (qui).
Ministero
Il terzo nodo (da sciogliere con l’aiuto della Madonna che scioglie i nodi) è quello del ministero, connesso col tema della successione apostolica. La questione qui si complica e forse è proprio questo aggancio ecclesiologico/ministeriale che può giustificare la reazione di Ferrario, relativa al «monopolio». Qui si rilevano le principali differenze, anche nel documento Dal conflitto alla comunione (cf. nn. 187-194), non senza ulteriori differenziazioni all’interno del protestantesimo, laddove vi sono Chiese che riconoscono l’episcopato come ministero, altre di fatto lo negano e ne attribuiscono le prerogative ai sinodi.
Se per il tema del “sacrificio” le principali chiusure si rinvengono in espressioni della comunità romano-cattolica, per il ministero dobbiamo rilevare l’abisso creato dalla scelta di molte Chiese di ordinare le donne. Perché girarci intorno? Qui si deve constatare una rottura della tradizione da parte di quelle comunità che hanno optato per il ministero femminile (mi riferisco ovviamente al culto). Né si può pensare che tali scelte, come altre, a mio avviso discutibili, possano incoraggiare l’evangelizzazione.
La foto postata da Ferrario con la pastora protestante seduta sui banchi di una chiesa vuota la dice lunga a questo riguardo (qui). E se Atene piange, Sparta certo non ride. L’irrilevanza è sotto gli occhi di tutti, come il sempre maggior divario fra culto e vita.
Non possiamo rassegnarci
È in gioco il futuro nel cristianesimo, quindi non possiamo semplicemente rassegnarci. Mentre discutiamo di ospitalità eucaristica fra noi, le chiese si svuotano.
Mi permetto di segnalare, come possibili motivi di riflessione e di discussione, due inviti o riferimenti, almeno parzialmente convergenti, che rinvengo nella plenaria della Conferenza episcopale tedesca e nel commento sul tema di Ferrario. Il presidente dei vescovi ha precisato che «il votum del Gruppo di lavoro teologico delle due Chiese riguarda i singoli e si profila come una decisione di coscienza personale – né inter-comunione né concelebrazione, quindi» (come riportato da Settimana News). E fin qui si segue la linea di papa Francesco nella risposta alla signora luterana sopra accennata.
Devo riconoscere al collega teologo il fatto che si spinge oltre, comunque rimandando alla «coscienza», io direi nel frattempo, la questione: «I cattolici “ospitali” vogliono rispettare i diktat vaticani? Lo facciano, nessuno si arrabbierà, sopravviveremo senza ospitalità eucaristica e, possibilmente, senza contorcerci troppo per il mal di pancia. Essi vogliono invece praticarla? Lo facciano, assumendosi le responsabilità del caso nei confronti delle loro gerarchie». E sarei d’accordo con lui, senza tuttavia interpretare gli orientamenti del Vaticano come diktat monopolistici.
Mi intrometto volentieri in questo appassionato e arricchente dibattito con grande plauso a chi mi ha preceduto e al sano formicolio lasciato dal testo del prof. Lorizio.
Alla domanda “cosa farei se un protestante si mettesse in fila per la comunione nella mia parrocchia?”, risponderei che non avrei il minimo dubbio che mi comporterei come se avessi davanti un amico delle scuole elementari che convive con la compagna: gli “comunicherei” (“voi stessi date loro da mangiare», Mt 14,16) il Corpo di Cristo “in voto”, o, se si preferisce “in desiderio”, o ancora, perché no, “in prophetia”. Ma attenzione: prima di tutto, non intendo certo “voto, desiderio o profezia miei”, non certo “voto, desiderio o profezia del mio amico protestante o convivente”, ma voto, desiderio e profezia di un Amico comune, un “grande fratello” comune che nel suo Testamento pregava il Padre (il Padre nostro) dicendo: «Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola: perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,20-21). E in secondo luogo vedrei l’occasione come una benedizione per iniziare una chiacchierata eucaristica improntata sulla sofferenza di non poter condividere ancora pienamente la Comunione nelle differenze (teologiche) e sulla speranza di partecipare un giorno alla stessa Mensa. Per essere spiritualmente “rilevanti” (mi riferisco ad un recente post del prof. Ferrario) occorre essere resilienti e studiare (c’è proprio bisogno di sforzo, fatica, passione, di studium) una teologia dell’“ospitalità reciproca”. E poi, dove vogliamo mettere la gioia e la fruttuosità pastorale di poter parlare con un amico battezzato proveniente da un altro culto su un tema come quello della mensa eucaristica che occupa pagine e pagine nei nostri rispettivi vocabolari teologici? Anche perché, prima di tutto, è ormai merce rara l’incontro fraterno, schietto e appassionato con spiritualità diverse, e soprattutto perché un protestante che si accosta all’Eucaristia da un ministro cattolico, salvo quella manciata di volgari e blasfemi ideologi dell’irriverenza verso l’Eucaristia cattolica (esattamente simmetrici ai tradizionalismi cattolici dell’esclusivismo eucaristico), certamente ha una profonda inquietudine interiore saziabile col “desiderium” di essere ospitati in un’Eucaristia teologicamente diversa dalla sua, ma spiritualmente ugualmente e massimamente “rilevante” nei sui frutti spirituali. Suggerisco un documento speculare all’Amoris laetitia sempre «sull’amore nella famiglia», ma sull’amore fraterno nella famiglia dei battezzati, con un “capitolo ottavo” (sempre sotto il titolo dei tre verbi cari a papa Francesco: «accompagnare, discernere e integrare») che dia sempre più “rilevanza” alla categoria teologica del discernimento e faccia parlare talmente tanto l’opinione pubblica da costringere i teologi a far cessare l’epoca del “ciascuno mangi in casa propria” e dare al mondo testimonianza “rilevante” di ospitalità eucaristica reciproca: per troppi secoli abbiamo fatto fare figuracce a Gesù ritardando le sue volontà testamentarie. Buon lavoro teologi: noi, “Fratelli tutti” nel Battesimo siamo seduti assieme a tavola, aspettiamo con preghiera e speranza (ma anche con fame!) le vostre deliziose portate!
Come sacerdote cattolico non ho problemi a comunicare una persona protestante se lo desidera. Significa che riconosce nel pane eucaristico il Corpo di Cristo. Ho una cara amica protestante, che si comunica da me, perchè sente questo bisogno. Chi sono io per negare questo nutrimento?
Gianluca Bracalante
La questione della piena comunione eucaristica è qualcosa al cui non raggiungimento non possiamo mai rassegnarci perché finché non potremo condividere la mensa eucaristica non potremo mai parlare fino in fondo di vera unità. La presenza reale è un dato acquisito nella teologia luterana e Lutero la difende con veemenza nei suoi scritti polemici verso gli “entusiasti” fino a quel punto di arrivo che è la Confessione sulla cena di Cristo del 1528, una pietra miliare. Ne ho curato l’anno scorso la prima edizione italiana e diversi vescovi che l’hanno letto hanno avuto la chiara impressione che la “res” è la stessa pur cambiando il “dictum”. Non dimentichiamoci che anche la categoria della “transustanziazione” suscitò molte perplessità in seno al Concilio di Trento dove venne opportunamente ribadito da diversi vescovi che si trattava di una categoria troppo filosofica e che il magistero deve preoccuparsi del fatto più che del come. Dal punto di vista poi della messa come sacrificio, le incertezze e gli equivoci che perdurano anche nel nuovo messale (come evidenziato da Lorizio) non devono farci dimenticare il dato acquisito ormai in seno al mondo cattolico della messa come ripresentazione sacramentale all’unico sacrificio sulla croce avvenuto una volta per sempre. Forse la distinzione luterana fra “factum” e “usus facti” ci sarebbe di aiuto. Circa il ministero vorrei ricordare che la negazione della sacramentalità dell’episcopato in Lutero lo colloca perfettamente nella teologia del suo tempo dove (a partire dall’autorevole Pietro Lombardo) si annoveravano tra gli ordini maggiori solo il diaconato e il presbiterato. Ad ogni modo sulla questione dell’apostolicità della chiesa andrebbe lettere l’ampio documento The Apostolicity of the Church (2006) della Commissione Luterano-Cattolica sull’unità. Tutto questo senza nascondere o negare le differenze e le criticità soprattutto sul fronte del ministero. Il cammino va avanti e fa passi avanti se si torna alle fonti superando il conflitto delle interpretazioni. Non c’è rassegnazione ma solo operoso lavoro di ascolto, dialogo e confronto, compito che appartiene anzitutto alla teologia che profeticamente deve guardare avanti e oltre
Sulla “presenza reale” il primo anonimo commentatore (“un rompiscatole”) non concorda (ne ha facoltà) con le conclusioni recenti del dialogo teologico luterano-cattolico (vedi sopra, Dal conflitto alla comunione, n. 154). E tuttavia non porta argomenti in favore delle sue conclusioni, che così hanno solo il valore di affermare una sua personale convinzione (giusta o sbagliata che sia). Lo stesso commentatore anonimo attribuisce all’autore una tesi che non si trova leggendo il testo (la negazione del carattere sacrificale dell’eucaristia). Ancora una volta si resta sorpresi della sicurezza con cui “risolve” (ricorrendo alla categoria di “sacramento”) una questione delicata e aperta nel dibattito teologico (a proposito del rapporto tra il sacrificio della croce e il sacrificio eucaristico). Per un dialogo costruttivo sarebbe auspicabile esprimersi con maggiore umiltà, maggior rigore e più coraggio (firmando col proprio nome). Anche partendo da posizioni legittimamente diverse. Altrimenti, si fa rumore. E allora non serve.
Perché chi vuole discutere tematiche decisive per il Cristianesimo non si fa riconoscere col suo nome e cognome e si nasconde dietro uno pseudonimo o un semplice nome? Come diceva il rabbino Neusner, per noi la discussione è come il culto, ma perché ci sia c’è bisogno di reciproco riconoscimento. Non discuto solo con chi disprezzo o non riconosco, perché mascherato. La critica gratuita è troppo facile sul web, ma fa parte del gioco, solo che bisogna assumersene la responsabilità e l’onere della documentazione seria e rigorosa da parte di chi si confronta con persone che per una vita intera hanno studiato e discusso le problematiche che, credendo in chi legge, mettono gratuitamente a disposizione di tutti. Chi mi ha contestato, in altra occasione, firmandosi, merita tutto il mio rispetto, anche se ovviamente non ne condivido i contenuti, chi si nasconde resti nell’ombra! Quanto al nocciolo del ministero: bisogna proseguire il dialogo teologico: ho segnalato un ostacolo e sono disposto a farmene carico, per le mie competenze. Grazie dell’ospitalità!
Un grande ringraziamento al prof Lorizio a Massimo Naro e Fulvio Ferrario. In particolare ho molto apprezzato quanto notato da Massimo Naro sul Nuovo Messale in merito alla mancanza del “popolo sacerdotale” e la sostituzione del “collegio episcopale” con “ordine episcopale”. Due mancanze che rattristano! Tuttavia il vostro intelligente e audace contributo consola e dona speranza.
https://www.facebook.com/FulvioFerrarioFVT/
Specchio delle mie brame, chi è il vero rassegnato nel reame?
Tra coloro che hanno reagito al mio piccolo intervento della scorsa settimana sull’ospitalità eucaristica ringrazio in modo particolare i colleghi cattolici Andrea Grillo e Giuseppe Lorizio per l’attenzione che mi hanno dedicato.
https://www.cittadellaeditrice.com/…/lo-sguardo-sulla-comu…/
http://www.settimananews.it/…/ospitalita-eucaristica-rasse…/
Si tratta, come è facile constatare, di riflessioni molto diverse tra loro per impostazione e impianto. Entrambe sono assai articolate: anziché discuterle qui, preferisco segnalarle come apporti di rilievo al prosieguo del dibattito.
Vorrei solo dire una parola sulla rassegnazione. Naturalmente, nel mio invito a “metterci in cuore in pace” c’è una buona dose di ironia. Secondo me, quello le chiese evangeliche potevano fare, lo hanno fatto, nonostante la persistenza di rigurgiti iperdottrinari anche tra noi (ce n’erano alcuni anche nei commenti al mio post); il magistero cattolico non ne vuole sapere; i cattolici si regolino come detta la loro coscienza (Lorizio ha colto benissimo questo punto) e andiamo avanti come possiamo. La mia “rassegnazione” è tutta qui. Sono solo un po’ impaziente di fronte all’eterno lamento per una situazione che non piove dal cielo, ma è frutto di decisioni facilmente individuabili; e tengo a dire che non sono “le chiese”, al plurale, a porre barriere: è una decisione unilaterale.
Giuseppe Lorizio, però nota: la colpa è anche di voialtri evangelici, perché scavate fossati ordinando le donne e facendo altre cosette “discutibili”; non basta dunque lamentarsi dei cosiddetti diktat del magistero cattolico.
Secondo me, comunque la si pensi nel merito, l’osservazione aiuta non poco a capire dov’è il vero problema.
Cioè il vero problema siamo noi? Ma a che serve impostare la discussione così scusi?
È tutto inutile…
lasciali perdere, loro se la cantano e se la suonano tra di loro
Ho qualche libro in casa di Ferrario, conosciuto attraverso alcune introduzioni a Barth, se non ci arriva lui a capire la situazione non ho davvero più speranza che ci arrivi alcuno.
L’autore mi sembra che riduca di molto le differenze presenti tra i luterani e i cattolici sul tema della presenza reale: è vero che i luterani riconoscono veramente presente nell’Eucarestia il Signore Gesù, ma al massimo ammettono una compresenza del Corpo e del Sangue assieme al pane e al vino, e in gran parte restringono questa presenza al tempo della celebrazione eucaristica o addirittura solo al momento della Comunione si vede che queste tesi fanno a pugni con la dottrina e la prassi della Chiesa cattolica e delle Chiese ortodosse.
Sul tema di sacrificio l’autore per me perde un po’ la bussola: parlando di “rinnovazione sacramentale” il Proemio del Messale salvaguardia bene la distinzione tra il Sacrificio della Croce (unico e irripetibile) e la sua attualizzazione che è l’Eucarestia, usando il concetto di “sacramento” (erede del patristico binomio tipo-antitipo), ovvero di segno che rende realmente presente e noi presenti, seppur in maniera mediata, a ciò che significa negare il carattere sacrificale dell’Eucarestia è uno sminuire il mistero e fare un torto alla lex orandi.
Sul ministero: è vero che molte chiese luterane riconoscono l’episcopato storico, ma non lo ritengono istituito da Gesù e dagli Apostoli ma, come anche la distinzione dell’ordine in tre gradi, un semplice ‘fatto organizzativo’ umano che può essere modificato (e lo si vede anche dai loro riti di ordinazione).