Non è stata celebrata la messa a Etchmiadzin – sede del Patriarcato apostolico armeno – come la celebrò Giovanni Paolo II nel 2001, bensì una Divina liturgia alla quale ha presenziato papa Francesco. Questo tratto, insieme alla dichiarazione esplicita sul «genocidio» degli armeni, caratterizza e riassume il significato del viaggio compiuto da papa Francesco in Armenia dal 24 al 26 giugno, sotto il segno dell’ecumenismo. È riassunto – l’ecumenismo – nell’impegnativa e ampia Dichiarazione congiunta sottoscritta dal papa e da Karekin II, capo della Chiesa apostolica armena. Un testo nel quale trovano eco le preoccupazioni comuni religiose, etiche, politiche e sociali.
La Dichiarazione congiunta
«Siamo purtroppo testimoni – scrivono papa e patriarca – di un’immensa tragedia che avviene davanti ai nostri occhi: di innumerevoli persone innocenti uccise, deportate o costrette a un doloroso e incerto esilio da continui conflitti a base etnica, politica e religiosa nel Medio Oriente e in altre parti del mondo. Ne consegue che le minoranze etniche e religiose sono diventate l’obiettivo di persecuzioni e di trattamenti crudeli, al punto che tali sofferenze a motivo dell’appartenenza ad una confessione religiosa sono divenute una realtà quotidiana. I martiri appartengono a tutte le Chiese e la loro sofferenza costituisce un “ecumenismo del sangue” che trascende le divisioni storiche tra cristiani, chiamando tutti noi a promuovere l’unità visibile dei discepoli di Cristo. Insieme preghiamo, per intercessione dei santi apostoli Pietro e Paolo, Taddeo e Bartolomeo, per un cambiamento del cuore in tutti quelli che commettono tali crimini e in coloro che sono in condizione di fermare la violenza. Imploriamo i capi delle nazioni di ascoltare la richiesta di milioni di esseri umani, che attendono con ansia pace e giustizia nel mondo, che chiedono il rispetto dei diritti loro attribuiti da Dio, che hanno urgente bisogno di pane, non di armi. Purtroppo assistiamo a una presentazione della religione e dei valori religiosi in un modo fondamentalistico, che viene usato per giustificare la diffusione dell’odio, della discriminazione e della violenza. La giustificazione di tali crimini sulla base di idee religiose è inaccettabile». E pertanto – aggiungono – il rispetto per le differenze religiose è la condizione necessaria per la pacifica convivenza di diverse comunità etniche e religiose. Proprio perché siamo cristiani, siamo chiamati a cercare e sviluppare vie di riconciliazione e di pace. A questo proposito esprimiamo anche la nostra speranza per una soluzione pacifica delle questioni riguardanti il Nagorno-Karabakh.
Il tema del rifiuto della guerra e dell’accoglienza verso profughi e rifugiati impegna direttamente le due Chiese. «Chiediamo ai fedeli delle nostre Chiese di aprire i loro cuori e le loro mani alle vittime della guerra e del terrorismo, ai rifugiati e alle loro famiglie. È in gioco il senso stesso della nostra umanità, della nostra solidarietà, compassione e generosità, che può essere espresso in modo appropriato solamente mediante un immediato e pratico impiego di risorse. Riconosciamo che tutto ciò è già stato fatto, ma ribadiamo che molto di più si richiede da parte dei responsabili politici e della comunità internazionale al fine di assicurare il diritto di tutti a vivere in pace e sicurezza, per sostenere lo stato di diritto, per proteggere le minoranze religiose ed etniche, per combattere il traffico e il contrabbando di esseri umani».
Sul piano etico-sociale il documento ribadisce che «la secolarizzazione di ampi settori della società, la sua alienazione da ciò che è spirituale e divino, conduce inevitabilmente ad una visione desacralizzata e materialistica dell’uomo e della famiglia umana. A questo riguardo siamo preoccupati per la crisi della famiglia in molti paesi. La Chiesa apostolica armena e la Chiesa cattolica condividono la medesima visione della famiglia, basata sul matrimonio, atto di gratuità e di amore fedele tra un uomo e una donna».
Sul piano dei rapporti ecumenici il documento congiunto sottolinea il cammino percorso dalle due Chiese. «Nei decenni scorsi le relazioni tra la Chiesa apostolica armena e la Chiesa cattolica sono entrate con successo in una nuova fase, fortificate dalle nostre preghiere reciproche e dal nostro comune impegno nel superare le sfide attuali. Oggi siamo convinti dell’importanza cruciale di sviluppare queste relazioni, intraprendendo una profonda e più decisiva collaborazione non solo in campo teologico, ma anche nella preghiera e in un’attiva cooperazione a livello delle comunità locali, nella prospettiva di condividere una piena comunione ed espressioni concrete di unità. Esortiamo i nostri fedeli a lavorare in armonia per promuovere nella società i valori cristiani, che contribuiscono efficacemente alla costruzione di una civiltà di giustizia, di pace e di solidarietà umana. La via della riconciliazione e della fraternità è aperta davanti a noi».
Papa Francesco e il genocidio
Leggendo il testo si comprende perché papa Francesco abbia deciso di esprimersi in maniera così netta contro il «genocidio», pronunciando un termine – già nel vocabolario di Giovanni Paolo II – senza preoccuparsi delle prevedibili negative reazioni della Turchia.
E a questo proposito nell’incontrare i giornalisti sul volo papale, nel viaggio di ritorno, papa Francesco non si è sottratto dallo spiegare perché abbia deciso di usare il termine “genocidio”. In Argentina, quando si parlava dello sterminio armeno – ha detto – sempre «si usava la parola “genocidio”. E nella cattedrale di Buenos Aires, sul terzo altare a sinistra, abbiamo messo una croce di pietra ricordando “il genocidio armeno”. Non conoscevo un’altra parola. Io vengo con questa parola. Quando arrivo a Roma, sento l’altra parola, “Il Grande male” o “la tragedia terribile”, ma in armeno, che non so dirla. Da parte mia ho sempre parlato dei tre genocidi del secolo scorso: sempre, tre. Il primo, l’armeno, poi quello di Hitler e l’ultimo, quello di Stalin. Un legale mi ha spiegato che la parola genocidio è una parola tecnica, è una parola che ha una tecnicità, che non è sinonimo di sterminio. Si può dire sterminio, ma dichiarare un genocidio comporta azioni di riparazioni. L’anno scorso, preparando la celebrazione in Vaticano (il 12 aprile 2015, per il centenario del genocidio, ndr) ho poi visto che san Giovanni Paolo II ha usato tutte e due: “il Grande male” e “genocidio”. E ho citato tra virgolette quella. È stata fatta una dichiarazione del governo turco, la Turchia in pochi giorni ha richiamato ad Ankara l’ambasciatore ma ha il diritto: il diritto alla protesta l’abbiamo tutti, no? E nel discorso che avevo, all’inizio non c’era la parola. Perché l’ho aggiunta? Dopo aver sentito il tono del discorso del presidente e anche con il mio passato con questa parola e aver detto questa parola l’anno scorso a San Pietro, pubblicamente, sarebbe suonato molto strano non dire lo stesso. Ma lì volevo sottolineare un altro aspetto – e credo che non sbaglio – avendo osservato che in questo genocidio, come negli altri due, le grandi potenze internazionali guardavano da un’altra parte. E questa è stata l’accusa. Nella Seconda guerra mondiale alcune potenze avevano le fotografie delle ferrovie che portavano ad Auschwitz: avrebbero avuto la possibilità di bombardare e non l’hanno fatto. Un esempio: nel contesto della Prima guerra, dove c’è stato il problema degli armeni, e nel contesto della Seconda guerra, dove c’è stato il problema di Hitler e Stalin e dopo Yalta i lager e tutte le tragedie, perché nessuno parla? Si deve fare la domanda storica: perché non siete intervenuti? Voi potenze – non accuso, faccio una domanda».
Giovani: promuovete la pace
Per quanto riguarda altri contenuti religiosi, da rilevare l’appello ai giovani nell’incontro ecumenico di preghiera a Yerevan, affinché siano artefici di una pace ispirata dalla fede in Cristo. «Così, anche il dolore più grande, trasformato dalla potenza salvifica della Croce, di cui gli armeni sono araldi e testimoni, può diventare un seme di pace per il futuro. La memoria, attraversata dall’amore, diventa infatti capace di incamminarsi per sentieri nuovi e sorprendenti, dove le trame di odio si volgono in progetti di riconciliazione, dove si può sperare in un avvenire migliore per tutti, dove sono “beati gli operatori di pace” (Mt 5,9). Sarà bene a impegnarsi tutti per porre le basi di un futuro che non si lasci assorbire dalla forza ingannatrice della vendetta; un futuro dove non ci si stanchi mai di creare le condizioni per la pace: un lavoro dignitoso per tutti, la cura dei più bisognosi e la lotta senza tregua alla corruzione, che va estirpata. Cari giovani, questo futuro vi appartiene, ma facendo tesoro della grande saggezza dei vostri anziani. Ambite a diventare costruttori di pace: non notai dello status quo, ma promotori attivi di una cultura dell’incontro e della riconciliazione. Dio benedica il vostro avvenire e conceda che si riprenda il cammino di riconciliazione tra il popolo armeno e quello turco, e la pace sorga anche nel Nagorno Karabakh (Messaggio agli armeni, 12 aprile 2015)».
Papi emeriti?
Un aspetto ribadito sempre parlando con i giornalisti sull’aereo nel viaggio di ritorno, papa Francesco ha rilevato l’importanza di essere artefici di riconciliazione con la Turchia e con l’Azerbaigian (a causa della crisi con il Nagorno-Karabak a maggioranza azera staccatosi dall’Armenia) e ha promesso che tratterà ancora l’argomento in occasione del prossimo viaggio in Azerbaigian.
Infine molto significative le espressioni con cui papa Francesco è ritornato sulla presenza in Vaticano del papa emerito. «C’è stata un’epoca nella Chiesa in cui ce ne sono stati tre! Benedetto è papa emerito. Lui ha detto chiaramente, quell’11 febbraio, che dava le sue dimissioni a partire dal 28 febbraio, che si sarebbe ritirato per aiutare la Chiesa con la preghiera. E Benedetto è nel monastero, e prega. Io sono andato a trovarlo tante volte, o lo sento al telefono. L’altro giorno mi ha scritto una lettera facendomi gli auguri per questo viaggio. Mai dimentico quel discorso che ci ha fatto, ai cardinali, il 28 febbraio: “Fra voi ci sarà il mio successore. Prometto obbedienza”, e lo ha fatto. Poi ho sentito – sottolineo: ho sentito, forse saranno dicerie, ma vanno bene con il suo carattere – che alcuni sono andati lì a lamentarsi per il nuovo papa… e li ha cacciati via con il migliore stile bavarese: educato, ma li ha cacciati via. E ho ringraziato pubblicamente Benedetto – non so quando, ma credo su un volo – per aver aperto la porta ai papi emeriti. Settant’anni fa i vescovi emeriti non esistevano; oggi ce ne sono. Con questo allungamento della vita non si può reggere la Chiesa a una certa età con acciacchi o no? E lui, con coraggio – con coraggio! – e con preghiera, e anche con scienza, con teologia, ha deciso di aprire questa porta. E credo che questo sia buono per la Chiesa. Ma c’è un solo papa. Forse saranno come i vescovi emeriti: non dico tanti, ma potranno essercene due o tre».