E venne un papa di nome Francesco. Nomen omen: con la sua elezione, il popolo del dialogo, non solo cattolico – reduce da stagioni segnate più da delusioni che da attese compiute – ha risollevato il capo, tornando a coltivare speranze. Grazie a segnali emersi all’impronta, dalla cordialità inattesa del saluto al mondo al suo strategico autodefinirsi vescovo di Roma, prima di papa: perché si è papi in quanto vescovi della Chiesa che presiede nella carità tutte le Chiese (Ignazio d’Antiochia, Lettera ai Romani I,1); e non viceversa. Un’opzione carica di significati soprattutto nella grammatica dell’ecumenismo, se le modalità con cui si percepisce il primato petrino sono a oggi fra gli ostacoli più ingombranti in vista dell’unità: l’aveva già ammesso Giovanni Paolo II nell’enciclica Ut unum sint (1995).
Il dialogo come stile
Da allora, per Bergoglio sarà un susseguirsi inesausto di gesti, incontri, dichiarazioni, con uomini e donne di Chiese diverse, forte di una sensibilità largamente maturata in terra argentina. Una settimana dopo il conclave, ad esempio, a replica di Paolo VI con il patriarca di Costantinopoli Athenagoras a Gerusalemme (5/1/1964): l’abbraccio al Bartholomeos I chiamandolo Andrea in quanto erede dell’apostolo, come Athenagoras chiamò Pietro Montini. Un gesto che, nel seguente anno e mezzo, si sarebbe ripetuto tre volte in sedi quanto mai simboliche, a Gerusalemme (25/5/2014), Roma (8/6/2014) e Istanbul (29/11/2014), suggerendo l’idea di un asse strategico. Nell’occasione Bergoglio dichiara di voler «continuare nel cammino verso l’unità della Chiesa»: senza retorica, avremmo appreso in seguito.
In realtà, al di là dei passi avanti nei rapporti fra leader, motivi di conforto per il movimento ecumenico sono rintracciabili nel suo stile di pontificato, in riferimento alla visione del teologo Cristoph Théobald quando rilegge il cristianesimo come stile. Perché da Francesco emerge quotidianamente la provocazione di un cristianesimo che apprende dalle Chiese sorelle, rallegrandosi dei doni fatti loro da Dio e rattristandosi per le patologie e le infedeltà al vangelo che impediscono un pieno raduno. Atteggiamenti che, sancita la fine di quello che il cardinale Kasper aveva definito il dialogo delle coccole (Sibiu 2007), stanno favorendo l’avvio di una stagione di dialogo della franchezza e della collaborazione, di cui le Chiese stesse hanno estremo bisogno.
«L’impegno ecumenico risponde alla preghiera del Signore Gesù che chiede che “tutti siano una sola cosa” (Gv 17,21). (…) Dobbiamo sempre ricordare che siamo pellegrini, e che peregriniamo insieme. A tale scopo bisogna affidare il cuore al compagno di strada senza sospetti, senza diffidenze, e guardare anzitutto a quello che cerchiamo: la pace nel volto dell’unico Dio»: così, al n. 244, l’esortazione Evangelii gaudium (24/11/2013), autentico programma di governo. In cui compaiono tre paragrafi sul dialogo ecumenico: a confermare che fra le priorità di Francesco tale impegno ha un posto di rilievo. Vi si riflette sul fatto che «l’unità dello Spirito armonizza tutte le diversità», nel quadro di un patto «che faccia emergere una diversità riconciliata» (n. 230), citando i vescovi congolesi (2012). Ma alludendo anche alla formula cara al teologo protestante Oscar Cullmann, autore di uno studio su L’unità attraverso la diversità (Queriniana, Brescia 1987), e corroborata, in altri passaggi, dalla dichiarazione della necessità di una «conversione del papato» (n. 32); dalla constatazione della grave controtestimonianza della divisione intercristiana, per una Chiesa richiesta di annunciare il vangelo in modo coerente (n. 246); e dal richiamo conciliare al principio della gerarchia delle verità (ivi): anche perché già ora «sono tante e tanto preziose le cose che ci uniscono!» (ivi). E perché, letto in tale luce, l’ecumenismo è un fondamentale apporto all’unità della famiglia umana (n. 245), più che mai necessaria. Due anni dopo, nell’enciclica Laudato si’ (24/5/2015), impossibile non notare un paio di citazioni ecumenicamente esemplari: una, assai estesa, di Bartholomeos, e l’altra di Paul Ricoeur, filosofo protestante. Ma la prospettiva ecumenica si declina non di rado anche in forma di ecumenismo del sangue: «In alcuni paesi ammazzano i cristiani perché portano una croce o hanno una Bibbia, e prima di ammazzarli non gli domandano se sono anglicani, luterani, cattolici o ortodossi. (…) Uniti nel sangue, anche se tra noi non riusciamo ancora a fare i passi necessari verso l’unità» (intervista di A. Tornielli, in La Stampa, 15/12/2013).
Incontrarsi
Gli incontri, dicevamo, fanno il resto. Tanti, ed eloquenti: impossibile, qui, ripercorrerli uno a uno. Il 14/6/2013, con il neoarcivescovo di Canterbury, Justin Welby. Nell’occasione, il papa invita le due confessioni a lavorare insieme, poiché «tra i nostri compiti vi è quello di dare voce al grido dei poveri, affinché non siano abbandonati alle leggi di un’economia che sembra talora considerare l’uomo solo in quanto consumatore»: tema su cui Bergoglio rivela di condividere con Welby molte idee. Con l’auspicio a non attendere la risoluzione dei problemi teologici per operare congiuntamente, destinato ad affacciarsi a più riprese. Come nel discorso in Turchia nella Chiesa di San Giorgio, rivolto a Bartholomeos, il 30/11/2014: «Incontrarci, guardare il volto l’uno dell’altro, scambiare l’abbraccio di pace, pregare l’uno per l’altro sono dimensioni essenziali del cammino verso il ristabilimento della piena comunione». Esperienze che precedono e accompagnano il dialogo teologico, rendendolo meno traumatico, e liberandolo da derive ideologiche, freddezza diplomatica e logiche politiciste. Cammino in cui Francesco immette quasi un senso di fretta, e una svolta umana dai riflessi ecclesiali, più che di diplomazia ecumenica; coinvolgendovi anche le voci del mondo e del popolo. Egli rammenta infatti che le Chiese sono chiamate ad ascoltare i poveri, le vittime di guerra e i giovani, che chiedono, in vari modi e linguaggi, di essere discepoli del vangelo, quindi di essere uniti. Sottolineando, di nuovo, che solo lo Spirito Santo può suscitare la diversità, la molteplicità e, al contempo, operare l’unità: senza cedere al rischio, per chi vive la condizione di minoranza, di chiusure particolaristiche ed esclusivistiche. Colpiscono l’opinione pubblica, qui, la fraternità di relazioni e l’inchino davanti al patriarca, con la richiesta di essere da lui benedetto.
A segnare un passaggio dalla pedagogia dei gesti di Giovanni Paolo II, che traduceva la traiettoria inaugurata da Nostra aetate, e dal dialogo delle culture di Benedetto XVI, in risposta all’irrigidimento causato dal timore di un conflitto di civiltà dopo la tragedia dell’11/9/2001, all’odierna teologia dei gesti del papa venuto quasi dalla fine del mondo: la sensazione è che Bergoglio stia ridisegnando il paradigma dell’incontro fra le Chiese, puntando sui tratti dell’esperienza spirituale, della preghiera, dell’ascolto. In una parola: della teologia, non quella dei manuali ma quella della vita vissuta. Il che non esclude interventi di largo respiro, come quando, il 12/6/2015, a San Giovanni in Laterano nel contesto del ritiro mondiale dei presbiteri, egli non solo conferma che la divisione fra i cristiani è uno scandalo, e l’ecumenismo non un compito in più da fare, ma un preciso mandato d’amore affidato da Gesù ai cristiani; ma si spinge a ipotizzare apertamente che in tempi brevi ogni cristiano possa festeggiare la Pasqua lo stesso giorno, «segno tangibile per i fedeli e per tutti».
Il poliedro
Mi soffermo infine su un incontro solo apparentemente periferico, che in realtà ha fatto rumore, quello avvenuto a Caserta, il 28 luglio 2014, tra Francesco e il pastore della locale Chiesa Evangelica della Riconciliazione, Giovanni Traettino. Per più di un motivo, primo fra i quali il fatto che Bergoglio si fosse recato nella città campana appena due giorni prima, per una visita alla diocesi; ma anche perché, si apprese, Traettino era legato a lui da un’amicizia di lunga data, nata in Argentina. Inoltre, perché il papa, nell’occasione, ha dapprima chiesto perdono per il ruolo avuto da ambienti cattolici nella persecuzione dei pentecostali, e poi ha additato una volta di più nell’unità nella diversità riconciliata, riprendendo la sua Evangelii gaudium (n. 230), il modello cui tendere per riavvicinarsi tra fratelli di confessioni diverse e poter camminare insieme verso Dio. Tanto da dare l’impressione di un cambio di passo al riguardo, fino ad adottare un linguaggio proprio del movimento ecumenico cui il protestantesimo ha largamente contribuito, ecumenismo non come sfera dell’uniformità bensì come poliedro, unità con tutte le parti diverse in cui ciascuna ha la sua peculiarità, il suo carisma: «Noi siamo nell’epoca della globalizzazione e pensiamo cosa sarebbe l’unità nella Chiesa: una sfera, dove tutti i punti sono equidistanti dal centro, tutti uguali? No. Questa è uniformità. E lo Spirito Santo non fa uniformità. Che figura possiamo trovare? Pensiamo al poliedro: il poliedro è una unità ma con tutte le parti diverse; e ognuna conserva e ha la sua peculiarità, il suo carisma. […] unità nella diversità. In questo cammino noi cristiani facciamo ciò che chiamiamo ecumenismo». Per Francesco, per dirla in sintesi, l’identità cristiana non potrà essere mai compresa attraverso la negazione dell’altro, ma solo e costantemente in relazione all’altro, colto nella sua irriducibile diversità. E si tratta di un processo centripeto, in controtendenza alla dinamica vorticosamente centrifuga che sta caratterizzando questa fase della globalizzazione, che può significare molto anche al di fuori dei tradizionali recinti religiosi.
Brunetto Salvarani ci accompagna lungo la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani con un medaglione quotidiano, nella rubrica «Unitatis redintegratio». È docente di Teologia della missione e del dialogo presso la Facoltà teologica dell’Emilia Romagna. Dirige il movimento e rivista CEM Mondialità e la rivista trimestrale QOL (di cui è anche cofondatore), nata per dare voce alla ricerca biblica, al mondo dell’ecumenismo, al dialogo ebraico-cristiano. Dirige inoltre la collana della EMI Parole delle fedi. È membro del comitato editoriale della trasmissione Rai Protestantesimo.
è un po’ troppo lungo però bello
è bello però è anche un po’ troppo lungo