Il 1° febbraio, al Palazzo del Viminale, è stato firmato il Patto nazionale per un islam italiano, espressione di una comunità aperta, integrata e aderente ai valori e principi dell’ordinamento statale. Il “Patto”, che reca le firme del ministro dell’interno Minniti e dei responsabili delle associazioni musulmane parte del Tavolo di confronto istituito presso il medesimo ministero, è stato redatto con la collaborazione del Consiglio per i rapporti con l’islam italiano, l’organismo tecnico di consulenza al ministro per le questioni relative alla presenza musulmana in Italia coordinato dal prof. Paolo Naso.
Il documento si apre con un’ampia premessa che
- ricapitola i fondamentali del diritto italiano di libertà religiosa (principio di laicità; ruolo delle formazioni sociali; uguaglianza e uguale libertà tra tutte le confessioni religiose; universalità nel godimento del diritto costituzionale di libertà religiosa e legislazione sui “culti ammessi”),
- li colloca nel contesto del “nuovo pluralismo religioso” fatto (anche) di associazioni e individui impegnati a conciliare rispetto della Costituzione italiana e appartenenza religiosa musulmana e a contrastare «ogni espressione di radicalismo religioso posta in essere attraverso propaganda, azioni e strategie contrarie all’ordinamento dello stato» e
- riconosce il tratto di strada già percorso insieme, valorizzando, così, le precedenti occasioni di dialogo tra istituzioni repubblicane e associazionismo musulmano ed evidenziando il ruolo centrale dello stato e delle comunità islamiche nel «favorire la convivenza armoniosa e costruttiva tra le diverse comunità religiose per consolidare la coesione sociale e promuovere processi di integrazione».
Seguono poi i contenuti veri e propri del “Patto”, vale a dire venti impegni, dieci per parte, assunti dalle associazioni musulmane e dal Ministero dell’Interno per concretizzare gli obiettivi esposti in premessa.
Sintetizzabili in tre punti gli impegni “a carico” delle associazioni musulmane:
- contrasto alla radicalizzazione anche attraverso la formazione di imam capaci di mediazione e dialogo con la società, le istituzioni pubbliche e gli altri gruppi religiosi;
- impegno per la predisposizione di un’organizzazione giuridica coerente con la normativa in materia di libertà religiosa, vale a dire impegno per il superamento delle forme di mimetismo (associazioni religiose con la veste di onlus) e la predisposizione di statuti associativi in grado di superare il triplice controllo (Ministero dell’Interno-Consiglio di Stato-Consiglio dei Ministri) funzionale al riconoscimento di enti di culto musulmani potenzialmente abilitati a richiedere l’apertura di una trattativa per la stipulazione di un’intesa a sensi dell’art. 8, terzo comma Cost. e, infine,
- apertura e gestione di luoghi di culto trasparenti nell’organizzazione burocratico-amministrativa (versante finanziamenti incluso) e nel rapporto con la società circostante (sermoni e comunicazioni associative in italiano; apertura ai non musulmani; disponibilità a diventare parte del “patrimonio” culturale-religioso nazionale).
Tre – e di carattere speculare – sono anche i punti in cui convergono i dieci impegni ministeriali.
- contribuzione alla formazione delle guide del culto musulmano attraverso specifiche iniziative di supporto del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione – Direzione centrale per gli Affari dei culti, anche in collaborazione con le Università;
- impegno nel favorire, in un orizzonte di apertura al quadro normativo europeo, la “messa a norma” dell’associazionismo musulmano rimuovendo ostacoli o intoppi pregiudiziali alla effettiva esperibilità delle tipologie associative e dei riconoscimenti funzionali messi a disposizioni dei gruppi religiosi dal diritto vigente (riconoscimento di enti di culto e approvazione dei ministri di culto) e coinvolgendo gli enti territoriali, a partire dall’ANCI, per conformare alla Costituzione l’esercizio delle fondamentali competenze di regioni e comuni in materia di libertà religiosa (si pensi, per tutti, alla “questione moschee”);
- infine, ampia attività volta all’integrazione dei musulmani e dell’islam nel panorama culturale e religioso italiano attraverso la promozione di un’adeguata conoscenza “reciproca”, la promozione di “tavoli interreligiosi” con la regia delle prefetture e l’organizzazione di grandi eventi tematici, a partire dall’organizzazione di «uno o più incontri di rilievo nazionale e pubblico tra le Istituzioni e i giovani musulmani in tema di cittadinanza attiva, dialogo interculturale e contrasto all’islamofobia, al fondamentalismo e alla violenza».
Tre motivi principali potrebbero rendere il Patto nazionale per un islam italiano il punto di svolta nella “gestione” della “questione musulmana” in Italia.
- Innanzitutto, esso rappresenta la formale rimarginazione della rottura consumata all’indomani della stipula della Carta dei Valori (2007) quando l’esclusione di una delle principali organizzazioni di associazioni musulmane l’UCOII dai tavoli di dialogo ministeriali aveva spinto ad alimentare il velleitario progetto di una confederazione “contro” una componente importante del panorama musulmano italiano. Il “Patto”, che ha potuto contare sull’opera di recupero dell’UCOII già avvenuta con la “Conferenza permanente religioni, cultura e integrazioni” del ministro Riccardi (2012), recupera il valore di un paradigma di base unitario nei rapporti tra associazionismo musulmano e istituzioni pubbliche, che non impone l’omologazione delle identità e non esclude la diversificazione dei percorsi ma fa convergere sui fondamentali principi costituzionali comuni pubblica amministrazione (il Ministero dell’Interno) e la grande maggioranza dell’associazionismo musulmano in Italia. In questo modo il “Patto” costituisce un vero e proprio nuovo punto di partenza nelle relazioni tra stato ed associazioni musulmane, punto di partenza che evidenzia con trasparenza i nodi problematici di un percorso che attende ora di essere concretamente avviato.
- In un Paese caratterizzato dal “principio pattizio” e da una bilateralità estesa alle confessioni diverse dalla cattolica, parlare di “Patto” assume un’importanza del tutto peculiare. Da una parte, esso significa incoraggiamento e riconoscimento della progressiva confessionalizzazione dell’islam in Italia e, cioè, della sua progressiva trasformazione in “religione” secondo i canoni del diritto italiano di libertà religiosa; dall’altro, evidenziando la distinzione degli attori firmatari, il “Patto”, differenziandosi in questo da altri documenti europei, ne evoca anche la rispettiva autonomia interpretando i reciproci impegni non come rigurgiti giurisdizionalisti o un indebito entanglement, ma come volontarie – e contestuali – assunzioni di responsabilità alla luce di norme, quelle costituzionali, vincolanti per tutti.
- Infine, il “Patto” rende meno effimera la prospettiva di un’intesa “con l’islam”. Certificando la necessità di una “messa a norma” dell’associazionismo musulmano in Italia, il “Patto” pone con evidenza l’intesa tra le possibili mete del percorso proposto. In un orizzonte reso più nitido, spetterà principalmente ai musulmani – ma anche ai loro interlocutori statali – valutare se, nella riorganizzazione statutaria che coinvolgerà, a diversi livelli, molte associazioni musulmane, la costituzione di una o più federazioni potrà risultare funzionale a tale stipulazione.
Il funzionamento del “Patto” richiede l’impegno convinto di tutti i firmatari. Certo dei musulmani, ma non meno dello stato. Il “Patto” di un Ministro forte di un Governo debole – come (troppo) facilmente si potrebbe dire – funzionerà solo all’interno di una “politica ecclesiastica” coerente, lucida e lungimirante, consapevole della rilevanza politica e sociale delle religioni e dei loro fedeli e che attende urgentemente altri tasselli, a partire da una legge sulla libertà religiosa capace di rispondere agli interessi e alle esigenze comuni di libertà religiosa.
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