Riccardo Burigana è docente di Ecumenismo presso la Facoltà Teologica dell’Italia Centrale. Dal 2008 è direttore del Centro Studi per l’Ecumenismo in Italia e dal 2014 presidente della Associazione Docenti di Ecumenismo. Ha recentemente pubblicato: Alla scoperta dell’unità. Ildialogo ecumenico nel XXI secolo, per Pazzini Editore. Gli abbiamo posto alcune domande in occasione della trascorsa Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani.
- Professor Burigana, qual è lo stato dell’Ecumenismo in Italia?
Da cattolico penso che, nel XXI secolo, sia imprescindibile vivere la propria fede all’interno della dimensione ecumenica. Nella recente Settimana per l’unità dei Cristiani, sono state più di 180 su 227 le Diocesi italiane che si sono impegnate in iniziative ecumeniche.
Uno dei problemi del movimento, tuttavia, risiede nel fatto che, nonostante il grande impegno, non riesce a mettere in evidenza le proprie attività. Esiste una rivista – Veritas in caritate – che viene spedita da ormai sedici anni a più di sedicimila indirizzi: certo, possono sembrare pochi in relazione a tutti gli italiani, eppure costituiscono un segno eloquente di vitalità e capillarità del movimento ecumenico.
- Tra le figure dell’ecumenismo da lei citate nel suo libro, quale ha avuto modo di conoscere e di stimare personalmente?
Le figure che ho presentato nel libro non sono più in questo mondo; di altre, ancora viventi e tuttora importanti punti di riferimento, ho scelto di non trattare, per evidenti ragioni. Ricordo qui, perciò, persone straordinarie come Maria Vingiani, mons. Luigi Sartori, don Divo Barsotti. Ma potrei ricordarne tante altre.
Per me, personalmente, due figure sono state molto importanti, ovvero mons. Alberto Ablondi, vescovo di Livorno, e mons. Pietro Giachetti, vescovo di Pinerolo, perché entrambi hanno testimoniato un ecumenismo della quotidianità, fatto di sorrisi, di accoglienza, di ascolto e alimentato da una spiritualità profonda, sia rispetto al dialogo teologico, sia in riferimento alla puntuale conoscenza dei documenti del Magistero della Chiesa Cattolica sul tema.
Queste persone partivano sia dall’idea che il dialogo si costruisce ogni giorno sul piano della diretta testimonianza, sia nelle sedi deputate come pure in ogni manifestazione pubblica. Ricordo che mons. Giachetti, una volta terminato il suo episcopato a Pinerolo, è tornato al Cottolengo di Torino e anche là ha dato una grande testimonianza di comunione e di condivisione di stile ecumenico.
- Il suo libro è maturato in qualche particolare circostanza?
Ho insegnato e insegno Ecumenismo da diversi anni e in varie sedi: a Venezia, fino allo scorso anno, poi a Treviso e Firenze, oltre ad essere professore collaboratore dell’Università Cattolica del Pernambuco a Recife (Brasile). In forza di questa esperienza mi sono reso conto di quanto poco si sappia del grande lavoro ecumenico svolto sino ad oggi.
Quando si entra in questo mondo si scoprono tante ricchezze, tante speranze, tanta gioia nel dialogare e nello scoprire le differenze, con tutte le difficoltà del caso.
Penso che queste ricchezze vadano quanto più condivise. Quello ecumenico è un movimento molto dinamico – perché è ancora molto giovane – e possiede una globalità che rende difficile seguire tutto e scrivere compiutamente. Per queste ragioni mi sono sentito in dovere di presentare un quadro complessivo della situazione, allo stato attuale. Aggiungo che devo questo libro anche al prezioso aiuto dell’amico Professor Natalino Valentini.
I documenti e i vissuti
- Quali documenti può citare, per lei particolarmente significativi?
Ne cito due molto importanti. Il primo è La Dichiarazione congiunta sulla dottrina della Giustificazione del 1999 a cui sono molto legato perché è stato il primo documento che ho letto con occhi davvero ecumenici e che ha suscitato in me molto interesse e molte domande. Nel corso degli anni, nonostante lo scetticismo iniziale di molti, tale documento ha avuto un grande impatto e grandi conseguenze. Ricordo che è stato sottoscritto e fatto proprio da Metodisti, Riformati e Anglicani.
L’altro documento è la Carta Ecumenica, sia perché legato a un’altra figura importante per me sul piano della formazione ecumenica quale mons. Aldo Giordano – purtroppo prematuramente scomparso -, sia perché è un testo “evangelico”, nel senso di semplice e fontale, tale da richiedere poi tanto concreto impegno.
Entrambi i documenti hanno avuto peso nella mia vita, perché mi hanno fatto capire il senso pieno del consenso differenziato, ossia del compiere passi fermi comuni, uno alla volta, con attenzione, dopo essere riusciti ad accordarsi sull’essenziale, nonostante tante diverse sfumature di pensiero.
Siamo tutti d’accordo nell’annunciare Cristo e nel viverlo nel mondo, in un certo modo: questo è l’essenziale, senza banalizzare alcunché. La Carta Ecumenica parla di un Cristianesimo che annuncia Cristo e invita a viverlo in maniera concreta e diretta.
Questi due testi hanno avuto infine un grande impatto sull’ecumenismo feriale, che è poi la grande sfida di questo XXI secolo.
- Agli innegabili progressi di “vertice” del cammino ecumenico, non sempre pare corrispondere la stessa sensibilità nel popolo dei fedeli. Quali ne sono, a suo parere, le ragioni principali e quali le strade da percorrere?
Le iniziative ecumeniche di quest’anno, dopo la crisi pandemica, sia diocesane che parrocchiali, sono state numerosissime e vivaci. Parliamo sempre di piccoli numeri. Ma scopriamo però che in Italia ci sono più di cinquecento luoghi di culto ortodosso e orientale, la stragrande maggioranza in luoghi concessi o donati dalla Chiesa cattolica, quale segno di ospitalità e di fraternità.
Spesso, accanto a questo, c’è anche molto altro: c’è la relazione, la voglia di conoscersi e di dialogare. Quando c’è stata l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, è avvenuta una massiccia mobilitazione ecumenica, con decine di famiglie impegnate nell’accoglienza e nel sostegno dei profughi ucraini nel nostro Paese.
Si tratta evidentemente di un rapporto concreto tra persone cristiane di diverse confessioni che – differenze teologiche a parte – si sentono sorelle e fratelli in Cristo, incontratesi spontaneamente sui valori fondamentali della vita cristiana.
Oggi parlo piuttosto di una difficoltà delle Chiese – al loro interno – di farsi veramente ecumeniche. La comunione all’interno delle comunità ecclesiali, anche locali – vera sfida del Sinodo – è condizione essenziale, come recita il Vaticano II, per il cammino ecumenico.
- Lo scandalo della divisione dell’unica Chiesa di Cristo è stato avvertito, in primo luogo, storicamente, nella realtà della missione. Anche il mondo Occidentale può essere ormai considerato a sua volta terreno di evangelizzazione. L’ecumenismo può essere la via prioritaria da percorrere in futuro?
È vero che ci sono delle divisioni, così come permangono questioni aperte tra le Chiese, ma è anche vero che esistono parrocchie divise al loro interno, ove sono presenti persino celebrazioni alternative. Questo avviene a livello ecumenico mondiale, per cui mi pare necessario progettare e pensare assieme passi comuni di unità. Occorre interrogarsi su cosa fanno le singole Chiese sul tema della pace, non solo in riferimento alla guerra, ma anche alla pace al loro interno perché gli organismi ecumenici sono fatti da cristiani che poi vivono nelle loro comunità.
Secondo me l’Ecumenismo non è una via, ma la via da percorrere in questo tempo per una testimonianza vera e credibile di comunità ricche di differenze: differenze che vanno ricercate e valorizzate. Questo discorso è valido per tutte le comunità cristiane, cattoliche e non cattoliche.
- Lettura della Parola, catechesi e azione liturgica: quali elementi di novità ecumenica possiamo rintracciare oggi nelle nostre chiese particolari?
Direi che è proprio nei tria munera che si misura la dinamicità dell’Ecumenismo. Si pensi alle iniziative della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani in cui non si leggono solo le traduzioni interconfessionali – che sempre, a mio avviso, dovrebbero essere utilizzate – ma viene pure vissuta la ricchezza dello scambio di ambone, da cui ascoltare diverse voci dal medesimo brano della Scrittura.
La difficoltà della trasmissione della fede alle nuove generazioni è un problema per tutte le Chiese. A livello ecumenico si cerca di fare di tutto e di più per un coinvolgimento diretto dei giovani e, in alcuni casi, la cosa sta funzionando.
Sulla liturgia si fa ancora molta fatica. Non mi riferisco qui alla ospitalità eucaristica, bensì all’aspetto del vivere il rapporto con Dio nel tempo. Quando ci si trova negli incontri ecumenici è proprio il tempo ad essere scandito in maniera diversa e su questo tema c’è ancora molto da lavorare.
Rimane il fatto che ascoltare la Parola di Dio – insieme tradotta – è già una grande acquisizione, ed è una fonte, perché la comunione si costruisce a partire dalla preghiera e senza la preghiera non si va da nessuna parte: questo dato, per nulla scontato, mi sembra acquisito da tutti i cristiani nel cammino ecumenico.
A volte, infatti, si pensa che l’Ecumenismo si possa risolvere nella firma di documenti o in dichiarazioni comuni, mentre si dimentica che il centro rimane la comunione tra i fratelli e le sorelle delle diverse tradizioni egualmente credenti in Cristo e alla ricerca di una comunione vera, nella immersione della preghiera.
Cristianesimi e religioni
- Il fenomeno dell’immigrazione e della formazione di nuove comunità, in Italia, in questi anni, ha cambiato la prospettiva dell’Ecumenismo?
Certamente il fenomeno dell’immigrazione ha cambiato in Italia la configurazione del Cristianesimo: ormai non c’è Diocesi che non annoveri al suo interno comunità cristiane non cattoliche. Considero poi un fatto provvidenziale che, in concomitanza a questo afflusso e alla formazione di nuove comunità, una componente cristiana presente in Italia da decenni con memorie ferite – penso al mondo avventista e pentecostale – abbia deciso, di iniziare un cammino con altri cristiani, talvolta su aspetti molto concreti, quali leggere insieme la Bibbia, andare a trovare le persone sofferenti, condividere campagne di denuncia della violenza, ripensare il rapporto con il creato. Ciò sta determinando ancora più ricchezza e sta aprendo mille questioni.
Nel libro mi sono proposto di raccontare qualche numero e la complessa articolazione di tale ricchezza determinata dall’immigrazione. La vulgata narra una stragrande maggioranza di immigrazione islamica, ma questo non è vero. In Italia c’è un milione e mezzo di ortodossi, quindi cristiani. Non siamo stati evidentemente in grado di raccontare questa realtà.
- Qual è il rapporto tra Ecumenismo e Dialogo interreligioso?
Nel libro – chiaramente dedicato all’unità dei cristiani – non tratto di Dialogo interreligioso perché, per il Magistero della Chiesa, Dialogo ecumenico e interreligioso appartengono a due diversi ambiti, anche se, naturalmente, con molte interazioni pastorali tra loro. In Italia, spesso, lo stesso delegato diocesano si occupa di Ecumenismo e di Religioni. Ma le prospettive restano e devono restare diverse: il dialogo ecumenico affonda le sue radici nella Sacra Scrittura e impegna i cristiani nella realizzazione della unità visibile, mentre quello interreligioso – così come formulato dai documenti del Concilio – è volto alla ricerca e al consolidamento di valori comuni per il bene del mondo: innanzi tutto per la pace.
Il rapporto con le Religioni viene poi di fatto modulato secondo gli interlocutori effettivamente presenti nelle varie Diocesi: in Italia, forte è stata la spinta esercitata dalla crescente presenza islamica, con i tanti pregiudizi che l’hanno accompagnata. Mentre l’Ecumenismo, di per sé, prescinde dalla presenza fisica di altre comunità cristiane nello stesso territorio.
Detto questo, è bene ricordare le numerose iniziative ecumeniche a carattere interreligioso: il 27 ottobre è divenuta la giornata della amicizia islamo-cristiana, non solo cattolica: è nata nel 2002 da un gruppo di laici, sacerdoti e pastori italiani per rispondere alla esplosione della violenza scatenata dall’11 settembre 2001. La giornata non ha ancora ottenuto riconoscimento ufficiale da parte della Chiesa cattolica e delle Chiese; e tuttavia la giornata del 27 ottobre si è radicata ed è cresciuta – con sentire ecumenico – all’accrescersi delle diverse presenze islamiche e cristiane immigrate nel nostro Paese.
Evidentemente esistono – tra cristiani e musulmani dei diversi Islam – esperienze storiche molto diverse tra loro. Papa Francesco sta dando impulso ad un Ecumenismo cristiano che sappia rapportarsi ad una sola voce con gli Islam e con le Religioni. Cosa non facile, ma sicuramente da tentare.
- Nel suo libro, un capitolo è dedicato all’Ebraismo: questo è un’altra religione o i rapporti con la religione ebraica sono da considerarsi parte organica dell’Ecumenismo?
Quel capitolo fa parte del portato della amicizia spirituale che ho per monsignor Ablondi: su sua sollecitazione ho studiato le carte del Concilio, per il quale l’Ebraismo, per il Cristianesimo, non è un’altra religione alla pari di altre religioni non cristiane.
All’inizio del Concilio, l’Ebraismo stava dentro agli schemi sull’Ecumenismo quale radice di tutto il Cristianesimo. Molti teologi ponevano la frattura con l’Ebraismo quale frattura delle comunità delle origini cristiane. Perciò il Concilio non pensava ad una “semplice” ricomposizione della amicizia con gli ebrei, a modo di riparazione delle terribili vicende del XX° secolo. Si è pensato che alla Chiesa fosse altresì indispensabile la conoscenza dell’Ebraismo, sia perché l’elezione divina del popolo ebraico non ha subito alcuna sostituzione, sia perché solo questa intima conoscenza può consentire a tutti i cristiani di vivere pienamente insieme.
Come sappiamo, nel Vaticano II, la riflessione sull’Ebraismo è stata collocata – per votazione, con padri favorevoli e padri contrari – nella Nostra Aetate, ossia nella Dichiarazione sulle Religioni non cristiane, ma di Ebraismo si tratta anche in Lumen Gentium, Ad Gentes e Dei Verbum. È stato Paolo VI° a riprendere l’idea conciliare forte sull’Ebraismo istituendo nel 1974 una specifica Commissione dentro il Dicastero per l’Unità dei Cristiani. Da allora il Magistero non ha cessato di andare in quella direzione, anche se molto resta ancora da fare, a tutti i livelli, perché ancora si sente parlare dell’ebraismo come di una parte del dialogo interreligioso.
- Non è avvenuta forse una certa forzatura degli stessi testi conciliari in proposito?
Non c’è dubbio che Paolo VI° abbia preso una delle ricezioni importanti del Concilio e l’abbia forzata per andare oltre. Peraltro, la stessa cosa ha fatto Giovanni Paolo II – andando chiaramente oltre Nostra Aetate – quando ha voluto l’incontro delle Religioni ad Assisi del 27 ottobre 1986.
Nel mio libro metto in evidenza come quella ricezione conciliare sia stata confermata e sviluppata dalla Chiesa italiana con l’istituzione della Giornata del Dialogo ebraico-cristiano, ogni 17 gennaio, con finalità di conoscenza e di approfondimento dell’Ebraismo, nell’ascolto. Vediamo quanto faccia bene prendere un testo biblico comune e ascoltarsi nelle diverse letture.
Anche in questo caso, si prescinde dalla presenza fisica di comunità ebraiche nelle varie Diocesi e dal fatto che gli ebrei del tempo di oggi non siano gli stessi del tempo di Gesù. Anche i cristiani non sono più evidentemente gli stessi delle comunità delle origini.
In Italia dovremmo avvertire con particolare senso di necessità questo rapporto perché, sino al XV° secolo almeno, abbiamo avuto una presenza ebraica fortissima e diversificata. Neppure ci dovremmo limitare alla considerazione – sebbene importante – dell’antigiudaismo e dell’antisemitismo. C’è qualcosa di ancora più forte e positivo da recuperare nel nostro rapporto con l’Ebraismo, come i grandi sostenitori dell’Ecumenismo, quali Maria Vingiani, Clemente Riva, Alberto Ablondi, hanno ripetutamente affermato.
La giornata del 17 gennaio è stabilita dalla Conferenza Episcopale Italiana ed è, quindi, tecnicamente, una giornata cattolica, ma già dalla prima edizione, a Roma, nel 1990, è stata vissuta in modo ecumenico, con la partecipazione di tanti cristiani di confessione diversa.
Kiev e Nicea
- L’Ecumenismo non sta vivendo oggi un momento facile per ragioni “altre”: quanto pesa la politica o la geopolitica sui rapporti ecumenici?
Io non sono d’accordo con chi scrive che la guerra in Ucraina sta determinando la morte definitiva dell’Ecumenismo. L’Ecumenismo non è riducibile ad una circostanza per quanto gravissima per il mondo. Certamente c’è una contro-testimonianza cristiana che sta lacerando il mondo ortodosso. Ma il dialogo di questi decenni non è stato vano: il dialogo rimane irrinunciabile. C’è una profonda sintonia di intenti tra la maggior parte dei cristiani su questo. Ne sono convinto.
La guerra è la manifestazione di una parte dei cristiani che ancora pensa di risolvere i problemi con le armi. Il Patriarca di Mosca Kirill ne è il rappresentante. Io lo metto sullo stesso piano di altri cristiani, anche cattolici, che ancora oggi nel mondo sono a favore della pena di morte, oppure che pensano di distruggere la foresta amazzonica per i loro affari, oppure che ritengono che sia possibile portare la democrazia in tutto il mondo solo con le armi. L’atteggiamento di guerra, purtroppo, non è una esclusiva del patriarcato di Mosca.
Certo, Kirill – oltre che della benedizione delle armi – è fautore di una valutazione complessiva, assai negativa, dell’occidente. Ma per questo non dobbiamo più parlarci? Gli organismi ecumenici hanno saputo condannare nettamente la guerra e gli atteggiamenti evidentemente distorti, ma non hanno chiuso le porte al dialogo con la Chiesa ortodossa che vive in Russia e nella diaspora.
Questi cristiani stanno vivendo un momento terribile: non sono tutti per la guerra! Bene ha fatto il Segretario del Consiglio Ecumenico delle Chiese, padre Iona Sauca, a rendere una visita ufficiale al Patriarca per ricordare che il cammino ecumenico è sempre possibile. Kirill è stato il rappresentante ecumenico del patriarcato di Mosca prima di diventare Patriarca. E Sauca è andato a dirgli che la testimonianza cristiana non passa attraverso il legame stretto col potere politico e che la guerra, a fianco di questo potere, non porta la fede e la tradizione cristiana da nessuna parte.
Non chiudere mai le porte al dialogo – per noi cristiani d’Europa – in questo momento, vuol dire, ad esempio, essere disponibili ad accogliere anche i russi – oltre agli ucraini – che fuggono dalla guerra. Oggi si fa molta fatica a dire queste cose. Bisogna saper dire, con coraggio, che gli altri cristiani sono per noi sempre cristiani, perché pregano in Cristo. Tale verità dovrebbe, in questo momento, essere “urlata” per costruire la pace, che non è semplicemente la fine della guerra. Chi prova a farlo viene oggi percepito con fastidio, come lo stesso Papa Francesco. Ma proprio per questo non si può restare in silenzio.
- Professore, lei conclude il libro nella prospettiva dell’anniversario del Concilio di Nicea (325-2025): cosa potrà significare questa data per l’unità dei cristiani?
Provvidenzialmente, nel 2025, la data della Pasqua coinciderà nei calendari delle confessioni cristiane. Sarebbe dunque davvero bello che in quella data si potesse fare una riflessione comune sul senso della Pasqua. Non penso tanto alla professione di fede e ai dogmi, per quanto importanti, bensì al vivere in comunione nella gioia della Pasqua.
Penso, dunque, a qualcosa di molto positivo. Sicuramente ci saranno tante iniziative culturali e spirituali attorno a quella parte – condivisa – della storia del Cristianesimo. Riunirsi nel segno del Concilio fondativo della espressione della fede cristiana potrà significare un ritorno alla essenzialità della stessa fede: alla nostra comunione che è una luce per tutto il genere umano.