Dieudonné Nzapalainga, nato nel 1967 da padre cattolico e madre protestante, è arcivescovo metropolita di Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana. È stato ordinato vescovo nel 2012 ed è cardinale dal 2016: tutt’ora è il più giovane porporato della Chiesa cattolica. È noto per il suo impegno ecumenico e interreligioso, orientato alla riconciliazione, in un Paese tra i più poveri dell’Africa, tormentato da conflitti sanguinosi. A maggio è uscita nelle librerie italiane il suo ultimo libro La mia lotta per la pace. A mani nude contro la guerra in Centrafrica (edito da Libreria Editrice Vaticana con prefazione di Andrea Riccardi) in cui racconta il suo lavoro in prima linea (insieme a rappresentanti delle Chiese protestanti e delle comunità islamiche), nel processo di riconciliazione e pacificazione del Paese dilaniato dalla guerra civile.
- Signor Cardinale, Lei è celebre in Europa per il Suo impegno per la riconciliazione nel conflitto che lacera il Suo Paese, la Repubblica Centrafricana. Può riassumere brevemente, per chi ci legge, la storia di questa tragedia?
Il nostro Paese ha conosciuto parecchi colpi di Stato e sommovimenti istituzionali. Nel 2010, si è scatenata una ribellione nel Nord della Repubblica. Un pastore e un imam sono venuti da me e mi hanno chiesto: «Anche tu hai udito le notizie che abbiamo udito noi, che cioè i ribelli attaccano pastori, suore, preti e altri responsabili religiosi?», ho risposto affermativamente e abbiamo subito individuato la necessità di fare blocco, redigere un messaggio e incontrare le autorità, per dire loro: «Il nostro Paese non conosce guerre di religione e noi non ne vogliamo; non vogliamo manipolazioni né strumentalizzazioni delle religioni per fini politici.
Abbiano chiesto di incontrare il presidente dell’epoca, Bozize, il quale non ha risposto. Le posizioni si indurivano. C’era chi affermava che i cristiani avevano troppo a lungo governato il Paese, e chi temeva che i musulmani imponessero il burqa alle donne. Noi abbiamo ripetuto: «Il potere vuole utilizzare la religione, ma noi non siamo d’accordo. E con i musulmani abbiamo sempre mantenuto una bella coesistenza pacifica, non dobbiamo dunque cedere a questo demone della divisione (il diavolo, etimologicamente, è appunto colui che divide).
- Con ciò, lei ha già parzialmente risposto alla seconda domanda: voi avete scelto fin dall’inizio un approccio ecumenico al conflitto. Quali sono le caratteristiche del vostro lavoro interconfessionale e interreligioso?
Io parto dal presupposto di non avere, da solo, tutte le risposte: intorno a me ci sono donne e uomini, che non frequentano la stessa chiesa che frequento io, ma che hanno convinzioni e condividono valori su cui ci incontriamo spesso.
Può avvenire al mercato, in ufficio, per strada: condividiamo parecchio. E quando si condivide il buon senso, lo Spirito santo soffia su tutti. Io ho avuto la fortuna di nascere in una famiglia interconfessionale, papà cattolico e mamma protestante, non vi è mai stato conflitto religioso, sempre rispetto, stima, accoglienza e ospitalità.
Ho ereditato l’ecumenismo nel mio sangue, la collaborazione con i protestanti l’ho vissuta già in casa. E ora è il tempo di allargare questa fraternità ai musulmani: quando arriva la morte, con i soldati e le armi, non seleziona tra le religioni.
Lo abbiamo detto ai nostri fedeli, a tutti coloro che hanno preso le armi. Per me, cristiano, vale la preghiera di Gesù in Gv. 17, affinché siamo uno. L’unità non è monolitismo, è differenza. Musulmani, protestanti, cattolici, sono diversi, ma possiamo unirci per annunciare un messaggio che ci riguarda tutte e tutti.
L’imam è venuto da me, con sua moglie e i suoi figli, abbiamo vissuto sei mesi insieme e abbiamo gestito assieme i tempi dei pasti, della preghiera rispettiva, dell’accompagnamento dei figli. Il Corano e la Bibbia ci insegnano il monoteismo. Ci siamo detti: non andiamo a cercare ciò che ci divide, ma cerchiamo nel Cora- no e nella Bibbia ciò che ci permette di parlare di pace.
E ciascuno viene con la propria bisaccia, col proprio sacco, che contiene le parole degli scritti canonici, le quali, a loro volta, contengono valori. Sia la Bibbia, sia il Corano, affermano che l’essere umano è immagine di Dio. E anche chi non cre- de, per noi è figlio o figlia di Dio e siamo chiamati a fare il possibile per proteggerne la vita.
- Per aiutarci a capire: qual è la composizione religiosa della Repubblica Centrafricana?
La maggioranza è protestante, un po’ più del 50%; più del 30% sono cattolici, c’è un 10% musulmano, gli altri sono animisti.
- E il dialogo coinvolge tutti?
Sì, è aperto a tutti. Ognuno può portare il proprio contributo religioso, per costruire un mondo di fraternità.
- Signor cardinale, Lei ci ha detto di provenire da una famiglia interconfessionale. Che cosa significa per Lei, nato in questo contesto, essere vescovo della Chiesa cattolico-romana?
Comincio col dire: cattolico significa universale. Tutti dovrebbero trovare il proprio posto nella Chiesa cattolica, intesa in tal modo. Io ho aderito a questa Chiesa e dunque vi è posto, nel mio cuore, per sorelle e fratelli che non vengono a pregare nella stessa chiesa nella quale mi reco io.
Anche gli altri aspirano a questa universalità. Partendo da una lettura cattolico-romana della Bibbia, o da una protestante, o dalla frequentazione del Corano, ci troviamo spesso a difendere gli stessi valori e lo stesso patrimonio di vite umane. Ciò significa imparare che l’altro ha una parola ispirata da dirmi e che io non ho il monopolio della verità.
Ciò richiede un bel po’ di modestia, di umiltà. Essere cattolico-romano, in questo contesto, significa vivere una reale apertura. Diversamente, mi definisco cattolico e poi mi rinchiudo nel mio piccolo gruppo e la mia cattolicità si riduce al mio piccolo gruppo. Ma la faccenda è ben più ampia, perché Dio è ben più grande.
- Pubblicato sul sito della rivista Confronti.