Pubblicato a maggio da Il pozzo di Giacobbe (2022), editore trapanese, esce anche in Italia, dopo le edizioni in francese e in inglese, Gli Ebrei nel Corano, di Meir Bar-Asher. Un libro agile, leggibile, denso di informazioni e scientificamente fondato. L’autore, originario del Marocco, è professore di studi islamici all’Università ebraica di Gerusalemme; le sue ricerche includono l’esegesi coranica, le comunità religiose nell’islam (specialmente lo sciismo duodecimano e gli alawiti-nusayriti), così come i contatti storici e religiosi tra giudaismo e islam.
È in questo ultimo filone che si inserisce il libro in questione, che fa percorrere al lettore/lettrice un ampio tracciato storico e dottrinale. Si parte descrivendo il contesto della penisola araba dove emerge la figura del profeta dell’islam e dove si situa anche la comunità ebraica di Medina.
Ciò pone subito una questione ampiamente dibattuta: qual era il tipo di giudaismo conosciuto da Muhammad, e da qui la misura del travaso di idee. Una corrente “revisionista” di studiosi dell’islam ha in realtà cercato, nel corso degli ultimi decenni, di mettere in dubbio la narrazione “classica”, che individua appunto nella penisola araba la culla nativa dell’islam.
Si veda al proposito il saggio recentissimo di Stephen J. Shoemaker, Creating the Qur’an. A Historical Critical Study (University of California Press 2022); in italiano Alfred-Louis de Premare, Alle origini del Corano, curato da Caterina Bori per l’editore Carocci (2014). Meir Bar-Asher è ben al corrente del “tentativo rivoluzionario” di questa corrente, che sposta l’epicentro della “nuova rivelazione” molto più a Nord e molto più tardi della prima metà del VII sec., ma preferisce attenersi, globalmente, alla narrazione tradizionale, condivisa non solo dai sapienti musulmani ma anche da un gran numero di studiosi occidentali.
Il secondo capitolo tratta della rappresentazione del giudaismo e degli ebrei nel Corano: con grande rigore scientifico e libertà culturale, Meir Bar-Asher, non esita a mettere sotto gli occhi del lettore tutto il bene e il male possibile circa il popolo al quale egli stesso appartiene, così come risulta dai dati del Corano.
I “figli d’Israele”, secondo una delle loro denominazioni coraniche, sono il popolo eletto, scelto da Dio fra tutti i popoli per un’alleanza unica e irripetibile. D’altra parte, sono i figli indomiti e ribelli, idolatri e adoratori del vitello d’oro, assassini dei profeti. A ben guardare, tutte queste qualifiche negative non sono che la riproposizione in arabo di invettive e giudizi contenuti nella Bibbia ebraica, messi sulla bocca di profeti ebrei come Isaia, Geremia, Amos…
A tutte queste accuse si aggiunge quella di avere falsificato la Torah, alterandone il contenuto e rendendola quindi inaffidabile, nella forma attuale, come “libro ispirato”. Si tratta di un’accusa parallela a quella rivolta ai cristiani, colpevoli del tahrif (adulterazione) del Vangelo. È un argomento chiaramente apologetico: solo il Corano è oro puro disceso dal cielo, tutti gli altri libri sacri sono mescolanze di verità e falsità; quindi, non degni di essere letti nel culto e utilizzati nella vita, per dare forma alla comunità dei fedeli.
Rispetto a questa rappresentazione bianco/nero, il terzo capitolo del libro apre la finestra su un panorama di grande fascino e complessità, descrivendo l’ingresso nel tessuto del Corano di un’ampia eredità ebraica, che passa non soltanto dalla Bibbia, ma da un più ampio corpus di idee, suggestioni, narrazioni, circolanti in lungo e in largo soprattutto attraverso la trasmissione orale, di bocca in bocca, all’interno di una “società mosaico”, i cui “tasselli” erano strettamente correlati.
Molti temi dell’esegesi rabbinica si trovano inseriti negli episodi biblici riportati nel Corano: è il rapporto complesso tra midrashim (interpretazioni dei rabbi) e israʾīliyyat (nome dato dai sapienti musulmani a questi apporti) che «mostra come i diversi testi sacri e le loro tradizioni interpretative formino una trama plurale e riccamente intrecciata» (cito dall’introduzione di Fabrizio Mandreoli).
Dopo avere messo in rapporto legge coranica e legge ebraica su alcuni punti particolarmente interessanti (preghiera, digiuno, alimentazione, calendario), il libro procede oltre, nello spazio e nel tempo, presentando la questione della dhimma, cioè la forma pattizia della presenza di Gente del Libro (ebrei/cristiani) e per estensione i non-musulmani, nella comunità islamica. Un patto di “protezione” ma anche la consacrazione di una “cittadinanza diminuita” per chi non ha aderito all’islam.
L’ultimo capitolo riguarda il posto occupato dell’ebraismo e degli ebrei nello sciismo duodecimano, ambito di particolare competenza dell’Autore.
L’impressione che si ricava dal viaggio nei testi e nei contesti presentati da Meir Bar-Asher è quella di una profonda ambivalenza: da una parte, gli ebrei eletti e benedetti, alla radice della divina rivelazione; dall’altra, gli ebrei da cui guardarsi e da cui distinguersi, proprio per ribadire il carattere definitivo e genuino del messaggio islamico.
Ma c’è anche una terza impressione, ben inquadrata nella “vocazione” della collana che ospita il volume (Sponde, Pensare mediterraneo) ideata e curata dalla Pontificia facoltà teologica dell’Italia meridionale, «che si propone di ripensare – a partire dalla teologia – la categoria del Mediterraneo e le sue opportunità: da mare di morte a transito e traversata per nuovi approdi».
Ebrei e musulmani sono parte irrinunciabile del mosaico del Mediterraneo. Il mosaico, per sua natura, è fatto di tante tessere: come nessuna singola tessera può pretendere di essere, da sola, il mosaico, così l’intero mosaico, senza una sola delle sue tessere, può dirsi completo, perché privo di un pezzo irrinunciabile della sua identità.
Meir Bar-Asher, Gli Ebrei nel Corano, collana «Sponde», Il Pozzo di Giacobe, Trapani 2022, 192 pp. EAN 9788861249004.