Il documento Sinodalità e Primato nel secondo millennio e oggi (qui il testo inglese) approvato dalla Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa Cattolica e la Chiesa Ortodossa nella sua ultima sessione plenaria tenutasi ad Alessandria (1-7 giugno 2023), ha ripreso il lavoro iniziato sette anni fa a Chieti sul rapporto tra sinodalità e primato (con un’attenzione speciale alla primazialità del vescovo di Roma).
Con il documento di Alessandria si è così conclusa una fase di studio sull’esercizio del governo ecclesiale in Oriente e in Occidente nei primi due millenni dell’era cristiana. Il documento è dedicato, per quanto possibile, a una lettura comune della storia che offre alle due Chiese l’opportunità di spiegare la loro idea sull’esercizio del primato e della sinodalità nel quadro di una compressione più profonda di quanto, in modi diversi, è patrimonio comune. Il testo non si limita dunque a un semplice resoconto storico, ma trae delle «lezioni» a partire dalla storia.
Il documento si ispira al principio già messo in evidenza a Chieti, e prima ancora a Ravenna (2007), sull’interdipendenza tra sinodalità e primato. Per Alessandria, come pure per Chieti, sinodalità e primato sono due realtà correlate, complementari e inseparabili (Alessandria 5,3 e Chieti 4,7).
Su questa base, e tenendo conto del fatto che la «Chiesa Una» esiste nelle molte Chiese locali e che la comunione ecclesiale è sperimentata all’interno di ogni Chiesa locale e tra le Chiese locali sotto la forma di «unità nella diversità» (Chieti), il documento di Alessandria ha distinto quattro macro-periodi storici:
[a] dallo scisma del 1054 al Concilio di Firenze (1438-1439);
[b] dalla Riforma del Cinquecento al XVIII secolo;
[c] le dinamiche ecclesiologiche del XIX secolo;
[d] il rinnovamento e il riavvicinamento degli ultimi due secoli.
La vicenda nei contesti
Il documento ricorda il progressivo estraniamento tra Oriente e Occidente condizionato sia da fattori teologici sia extra-ecclesiali (come la conquista latina di Costantinopoli), i quali hanno accelerato la rottura del 1054.
Il testo ripercorre il periodo che va dalla riforma gregoriana all’affermazione di un ruolo sempre più politico del papato nel quadro dello sviluppo di un’ecclesiologia giuridica, secondo la quale il papa ha la prerogativa del governo e della cura pastorale dell’intero corpo ecclesiale.
Si ricordano anche la sostituzione dei sinodi romani con i concistori cardinalizi nell’elezione del vescovo di Roma e la convocazione di sinodi provinciali e generali (come quelli lateranensi del XII e XIII secolo). Tali spinte conciliari sono andate di pari passo con la proiezione dell’autorità papale su tutte le Chiese e della Chiesa di Roma come «Chiesa-madre» e «Chiesa-maestra» di tutta la cristianità. Ci si sofferma, infine, sulla creazione delle strutture ecclesiastiche latine in Oriente e sull’idea che il clero greco appartenga alla Chiesa latina e debba essere subordinato all’autorità papale.
In Oriente è stata esercitata una forma particolare di sinodalità (la synodos endemousa dei patriarchi orientali residenti a Costantinopoli) e la pratica della conciliarità ha seguito i principi canonici del primo millennio. Non sono mancati nel secondo millennio dei tentativi, seppur non riusciti, di avvicinamento con Roma (come al Concilio di Lione del 1274).
E, mentre il papato faceva i conti con il conciliarismo, ossia con l’idea che il governo della Chiesa è collettivo e che il papa ha solo una funzione esecutiva, nel Concilio di Firenze (1439) gli ortodossi preferirono interloquire con il papa piuttosto che con il concilio, secondo le linee della pentarchia del primo millennio. Purtroppo, gli sviluppi ecclesiologici che avevano fatto seguito allo scisma del 1054 resero allora irrealizzabile l’unione tra greci e latini.
Dalla Riforma ai nostri giorni
Il periodo che va dalla Riforma al Settecento si è caratterizzato, da un lato, per le tensioni tra Roma e il mondo protestante e, dall’altro, per le unioni tra Roma e diverse delle Chiese orientali (il cosiddetto «uniatismo»). Il tutto sullo sfondo del Concilio di Trento, dove il papato si era strutturato in una forma ancora più centralizzata. I sinodi provinciali non furono del tutto abbandonati, anche se in seno al mondo cattolico si dovettero affrontare altre forme conciliaristiche (come il gallicanesimo e il giansenismo). In Oriente, la pratica della sinodalità fu portata avanti attraverso la convocazione − da parte del Patriarca Ecumenico − di diversi concili interortodossi le cui delibere sinodali avevano spesso una forte indole anticattolica.
Il XIX secolo è stato segnato dalle decisioni del Concilio Vaticano I circa la giurisdizione universale e l’infallibilità del romano pontefice (affermazioni entrambe respinte dagli ortodossi) e dalla nascita di Chiese ortodosse autocefale nazionali nei Balcani. Nel primo caso si è dovuto fare i conti con un’ecclesiologia che riaffermava la giurisdizione universale e l’autorità del papa su tutte le Chiese e, nel secondo, con una nuova demografia ecclesiastica che sarebbe risultata determinante per il successivo esercizio della conciliarità nel mondo ortodosso.
Infine, il XX secolo è stato caratterizzato dal fiorire di nuove ricerche teologiche su temi come l’idea russa di sobornost (ossia di sinodalità allargata comprendente tutti i fedeli), la teologia eucaristica, sulla Chiesa locale quale luogo per eccellenza della manifestazione della Chiesa, sulla collegialità episcopale che ha affiancato l’autorità papale e sul riconoscimento della sinodalità come elemento costitutivo della Chiesa.
Se l’Ortodossia ha percorso un lungo cammino sinodale dall’inizio del XX secolo fino al Santo e Grande Concilio di Creta (2016), la Chiesa cattolica ha celebrato il culmine del suo cammino di rinnovamento e di ritorno alle fonti patristiche, bibliche e liturgiche con il Concilio Vaticano II, il quale ha inaugurato un tempo segnato da aperture ecumeniche capaci di superare visioni esclusiviste che avevano provocato varie lacerazioni tra ortodossi e cattolici.
Una impresa difficile ma riuscita
Va riconosciuto che l’esposizione del documento è chiara ed equilibrata. Evita visioni parziali e letture unilaterali che ne avrebbero compromesso lo scopo principale, ossia la lettura comune della storia. È stato un compito di non facile realizzazione, considerato che il secondo millennio è quello segnato dalla «divisione» e dagli sviluppi ecclesiologici distinti. Perciò, ci si deve complimentare con la Commissione per essere riuscita a sintetizzare percorsi ecclesiologici divergenti e per non aver mancato l’obiettivo di presentare la visione di ognuna delle due Chiese sull’esercizio della sinodalità e del primato.
Proprio per il suo tono imparziale, il documento sarà uno strumento utile non solo alle gerarchie ecclesiastiche e ai teologi, ma anche – e soprattutto – per il popolo fedele delle due Chiese, che spesso non ha gli strumenti per leggere la storia della Chiesa in una prospettiva «ecumenica». Il documento di Alessandria non solo informa, ma educa i fedeli a pensare e ad agire secondo una mentalità ecumenica, al di là di pregiudizi e di condanne reciproche.
Non bisogna poi dimenticare che ogni dogma ha uno sfondo storico e che la storia, con i suoi linguaggi, principi culturali e ideologie, determina non poco l’articolazione dei dogmi. Per parafrasare il metropolita greco Ioannis Zizioulas, recentemente scomparso, il dogma deve potersi incarnare nella storia per parlare al cuore dell’uomo. Ed è ciò che, nel loro cammino storico, hanno cercato di fare le due Chiese, rispondendo ciascuna a sfide differenti.
Il primo millennio come guida
È però la conclusione del documento a offrire degli spunti piuttosto interessanti. La Commissione ammette che la Chiesa non può essere concepita né come una piramide governata dall’alto (come vorrebbe una certa visione del papato) né come una federazione di Chiese autosufficienti (come desidererebbero diverse Chiese ortodosse che si rifanno a una recezione problematica della sobornost).
Lo studio sul secondo millennio, nota la Commissione, ha dimostrato l’inadeguatezza di entrambe queste visioni. Nella Chiesa Cattolica, infatti, la sinodalità non è mai stata soltanto di tipo consultivo, mentre in quella Ortodossa il primato non è mai stato un semplice titolo onorifico. Per tal ragione si può parlare di sinodalità/primato come un unico principio di governo ecclesiale piuttosto che come due realtà asintotiche. È per questo che la Commissione raccomanda, a ragione, di proseguire il cammino verso una compressione autentica del rapporto tra sinodalità e primato alla luce dei principi teologici, delle disposizioni canoniche e delle pratiche liturgiche del primo millennio.
È interessante, inoltre, che il documento ammetta che «le discussioni puramente storiche non sono sufficienti» («purely historical discussions are not enough») e che «un’ecclesiologia eucaristica della comunione è la chiave per articolare una solida teologia della sinodalità e del primato» («a eucharistic ecclesiology of communion is the key to articulating a sound theology of synodality and primacy»). Se ne deduce che la Commissione riconosce di aver esaurito il suo compito di analisi dei temi ecclesiologici in prospettiva storica? Se così fosse, si tornerà in futuro a frequentare linee di riflessione più teologiche, come era – ricordiamocelo – l’auspicio di Zizioulas?
In ogni caso, la lettura in prospettiva storica è un elemento di ispirazione per la messa in pratica di una corretta articolazione di sinodalità e primato. I membri della Commissione, pur avvertendo che l’ecclesiologia va esaminata in rapporto ai contesti storici, riconoscono che è il primo millennio, il millennio «dell’unità», a dover essere guida per la ricerca dell’interdipendenza tra sinodalità e primato. In altre parole: è necessaria un’applicazione nuova dei principi ecclesiologici fondanti del millennio dell’unità in rapporto a situazioni storiche nuove e diverse.
Gli assenti e le occasioni perdute
Ultima nota a margine. Da parte ortodossa non hanno preso parte ai lavori le delegazioni del Patriarcato di Mosca, della Chiesa bulgara (quest’ultima si astiene da tutti gli incontri ecumenici da venticinque anni, penalizzando così una nuova generazione di teologi che potrebbero inserire la loro Chiesa nei dibattiti teologici internazionali), del Patriarcato di Antiochia (presumibilmente a causa dei disaccordi con il Patriarcato di Gerusalemme circa la giurisdizione delle parrocchie di Qatar) e della Chiesa serba. Quest’ultima non ha fornito una giustificazione formale della sua assenza; è plausibile che si tratti di un’opposizione al Patriarcato Ecumenico per il conferimento dell’autocefalia ucraina, ma potrebbe anche essere indice della recente svolta nazionalista dell’ortodossia serba.
Il Patriarcato di Georgia, come sua abitudine, ha espresso dei non meglio precisati «disaccordi» su alcuni dei paragrafi del documento, con ogni probabilità per non condizionare il sinodo georgiano a recepirlo in toto.
Ma, come si sa, la storia è scritta dai presenti e da chi (Chiese, teologi, fedeli) ha la forza di farsi carico della vocazione profetica di lavorare per l’unità della «Chiesa Una» di Cristo e il coraggio di non indietreggiare rispetto a questo compito a motivo di effimeri conflitti politici.