Innanzitutto, vi ringrazio per questo invito a partecipare insieme a voi alla preghiera vespertina della vostra comunità parrocchiale al termine del Giorno della Riforma. In preparazione a questo momento, con il pastore Friedrich ci siamo trovati per uno scambio di idee sull’attualità della Riforma in questo nostro tempo, su quale significato essa possa avere nella cultura tedesca ed europea di oggi. In quest’ottica, mi sono chiesto cosa dice e dà a me la Riforma per la mia vita di fede (cattolica) in questo frangente della storia umana?
- Già nel vocabolo stesso, oltre che nella sua storia effettiva, Riforma ha a che fare con la forma – della Chiesa, della fede. In particolare, il Vangelo deve prendere ogni volta di nuovo forma nei vissuti di fede, incessantemente, senza poter pensare che questo prendere forma in noi del Vangelo possa essere qualcosa che arriva a una sua quieta stabilità. Ma questo è solo un lato della dinamica. La fede cristiana vive in una tensione, o forse meglio è fatta dalla tensione tra questo prendere forma del Vangelo e le configurazioni evangeliche della nostra fede con cui attraversiamo la nostra storia e quella del nostro tempo. Il cristianesimo sa che queste configurazioni della fede, senza le quali il Vangelo non prenderebbe forma alcuna, non coincidono mai col Vangelo stesso, non sono il Vangelo. Anzi, potremmo dire che il cristianesimo è fatto di questa incrinatura che lo attraversa dagli inizi alla fine. Lo scarto fra il prendere forma del Vangelo e le configurazioni della fede che gli danno forma è una benedizione, perché riscatta il cristianesimo da ogni auto-affermazione di sé e da qualsiasi ossessiva ricerca di conferme di sé. Questo scarto inocula nella carne del cristianesimo una dimensione di auto-critica che gli è essenziale per poter rimanere nei pressi del Vangelo. La capacità di auto-critica lascia essere il cristianesimo sempre aperto per l’inatteso di Dio, per l’irruzione di colui che non è né la risposta alle nostre attese né la realizzazione dei nostri progetti, ma la sorpresa imprevedibile del Regno che verrà.
- Una delle caratteristiche della Riforma è stato affermare con forza e persuasione il sacerdozio comune di tutti i battezzati. La pratica di questo principio ecclesiale porta all’edificazione di una comunità cristiana dove non ci sono gradi qualitativi diversi dell’essere cristiani, ma si è tutti sullo stesso piano con la medesima dignità e con la medesima responsabilità nel servizio a Dio nella preghiera e nella celebrazione. L’ideale, insomma, di una comunità fraterna da praticare sapendo di avere tutto quello di cui c’è bisogno per realizzarla. Ora, mi chiedo se il nostro tempo non abbia urgentemente bisogno di una trasposizione socio-politica di questa figura del vivere-insieme come fraternità? In questo, la Riforma mantiene non solo una sua attualità, ma è investita anche da un’urgenza: quella di far transitare la forma della fraternità, che ha costruito sulla base del sacerdozio comune di tutti battezzati, nel tessuto quotidiano delle relazioni umane del nostro tempo. Sarebbe una via molto concreta per mettere mano a un impegno diffuso per una giustizia sociale che sappia rendere onore a ogni uomo e ogni donna. Viviamo in un tempo in cui, quasi «naturalmente», si moltiplicano i processi di marginalizzazione ed esclusione di molti dallo spazio sociale della convivenza umana – senza accorgercene e senza sentire tutto ciò come qualcosa che ci interpella a pensare un modo altro dell’essere e vivere insieme. La nonchalance con cui guardiamo all’incremento sistemico dell’ingiustizia sociale rappresenta il lato oscuro dell’essere umano, quella dimensione di peccato che la modernità non è riuscita a secolarizzare in alcun modo – davanti alla quale la nostra epoca tecnocratica non ha la più pallida idea di dove iniziare a mettere le mani.
- Della Riforma e della fede evangelica mi ha sempre colpito l’arte e la serietà dell’ascolto (della parola di Dio). Il linguaggio inizia con questo ascolto; anzi, probabilmente l’ascolto stesso è già linguaggio. E solo un linguaggio che si genera nell’ascolto può essere un linguaggio che ha una destinazione, che sa rivolgersi a uomini e donne che vivono concretamente. Ancora di più, che sa lasciarsi intendere da loro. Oggi attraversiamo una stagione di povertà del linguaggio, della sua riduzione a funzione strumentale su cui appoggiare rabbia e frustrazione, del suo uso «ideologico» al fine di ledere coloro che non la pensano come noi. In questo imbarbarimento del linguaggio, lo Spirito fa la sua bella fatica a trovare una qualche parola su cui posarsi. Ogni giorno vivo in università con giovani donne e uomini che, credo, non abbiano la più pallida idea di cosa sia il cristianesimo e la sua fede. Eppure, queste generazioni più giovani portano con se una domanda, una ricerca sincera di qualcosa che non si consuma, di qualcosa che rimane, di qualcosa che sa rendere onore all’investimento della dedizione e della passione di una vita. A questo atteggiamento sincero, mai banale, sembra quasi mancare la parola, la grammatica minima per riuscirsi a dire, per sbocciare, per generarsi davanti a loro stessi. Oppure, forse, questo semplice interrogare e cercare quello che non si consuma, che non si scambia con nulla, è già il compitare di un nuovo linguaggio che non dobbiamo impedire e che dobbiamo imparare ad ascoltare.
Meditazione tenuta presso la Sankt Nikolai Kirche di Flensburg nel corso della preghiera vespertina del Giorno della Riforma (31 ottobre 2018).