L’Ucraina attuale è nata dalla fissazione di confini politici molto variabili nel corso della storia e che racchiudono al loro interno una varietà di popolo non omogenea. I tre quarti dei circa 45 milioni di abitanti (77,5%) sono di etnia ucraina e il 17,2% russi, meno di quanti sono i russofoni. Anche i “confini” dell’identità etnica sono vaghi. Gli abitanti di radici polacche, ad esempio, sono più dello sparuto 0,3% indicato dalle statistiche. Per non parlare delle regioni del confine sudorientale e della Crimea, dove le percentuali fra ucraini e russofoni si invertono. Cumuli di detriti storici, come il fronte di una frana che si muove a lambire i fianchi di una vallata, rigogliosa ma minacciata dai sommovimenti tellurici sempre incombenti.
Niente di nuovo sul fronte orientale
Della malleabilità dei confini politici e dei rapporti tesi con l’ingombrante vicino russo il primo tragico emblema è il conflitto militare tuttora aperto nel Donbass. Le regioni (oblast’) Donec’k (4.600.000 abitanti) e Luhans’k (2.400.000 abitanti) hanno dichiarato unilateralmente la propria indipendenza dall’Ucraina il 6 aprile 2014 (confermata con referendum l’11 maggio dello stesso anno) e si sono autoproclamate repubbliche. Da allora non c’è pace nel Donbass e il conflitto si è incancrenito e parcellizzato, fino a dispiegarsi sui lati opposti della medesima strada.[1] Sono passati due anni dai nostri ultimi reportage sulla situazione (cf. Ucraina: al limite e Ucraina: sine fine dolentes) e purtroppo non ci sono buone notizie. Si spostano i fronti ma non i confini, la pace o anche solo la tregua non riportano cifre in crescita, le quali sono appannaggio soltanto della fame, della morte, della popolazione stremata.
Una guerra aperta nel fianco dell’Europa della quale l’Europa non parla: «Tutti hanno dimenticato, tranne papa Francesco», dice al SIR mons. Claudio Gugerotti, nunzio a Kiev dando resoconto dei frutti della colletta straordinaria condotta nelle chiese cattoliche d’Europa il 24 aprile 2016.
Incertezza (voluta) sul fronte interno
C’è un secondo emblema del magmatico e incandescente composito della popolazione in Ucraina. È una tensione che si ripercuote sul piano religioso, si sovrappone alle questioni identitarie e si attorciglia sul piano politico. L’Ucraina è un mondo variegato anche dal punto di vista delle religioni. Non ci sono dati sufficientemente precisi e aggiornati, ma i quasi due terzi della popolazione (62,5%) si dichiara ateo o indifferente. Il credo religioso più diffuso è la confessione cristiana ortodossa, suddivisa in tre Chiese: Chiesa ortodossa ucraina – Patriarcato di Kiev (14,9%), Chiesa ortodossa russa in Ucraina (10,9%) e Chiesa autocefala ortodossa di Ucraina (1,9%). Sufficientemente rappresentativa è anche la Chiesa cattolica, di rito orientale (greco-cattolici: 5,3%) e di rito latino (0,6%), diffusa soprattutto nelle regioni occidentali tra le popolazioni ungherese e polacca.[2]
Autonoma Chiesa in autonomo Stato
Nel giugno del 1992 il metropolita Filarete della Chiesa ortodossa ucraina ha ritirato la direzione della Metropolia di Kiev e dell’intera Ucraina (quindi Crimea e Donbass compresi) dal Patriarcato di Mosca e ha fondato la Chiesa autocefala ucraina – Patriarcato di Kiev nella quale ha assunto nel 1995 il titolo di patriarca. Comprende oltre 40 vescovi, dei quali 11 metropoliti, 13 arcivescovi, 17 vescovi titolari ed ausiliari. Le sedi titolari replicano quelle della Chiesa ortodossa russa in Ucraina (obbediente al Patriarcato di Mosca).
Già in passato erano stati mossi passi dalla Chiesa ucraina per ottenere il riconoscimento di Costantinopoli. A dicembre 2017 i russi riuniti per il Sinodo giubilare (in occasione del centenario della restaurazione del Patriarcato) si videro recapitare una lettera di Filarete nella quale chiedeva «di mettere fine alla divisione e ai conflitti fra cristiani ortodossi, ristabilendo la comunione nell’eucaristia e nella preghiera. … Come confratello e concelebrante, domando perdono per i peccati che ho compiuto in parole, atti e sensi, come io perdono a tutti, sinceramente e di cuore». A Sinodo ancora aperto, però, Filarete ha smentito durante una conferenza stampa l’intenzione di ritornare nella Chiesa russa e ha accusato il Sinodo di aver equivocato la sua lettera. Ha anche annunciato il proprio sostegno a ogni iniziativa volta a ottenere dal patriarca ecumenico il riconoscimento dell’autocefalia per la Chiesa ortodossa ucraina.
Così è stato. Dopo che il presidente Petro Porošenko ha recapitato personalmente a Costantinopoli (9 aprile) la richiesta del tomos dell’autocefalia (appoggiata dal Parlamento 10 giorni dopo), in una conferenza stampa a Bruxelles (3 maggio) Filarete ha confermato di esserne l’ispiratore; ne ha declinato le ragioni («L’Ucraina rimane l’unico Paese con una popolazione prevalentemente ortodossa, che non ha una propria Chiesa locale riconosciuta, sebbene abbia cercato tale riconoscimento dal ripristino dell’indipendenza»), e ha legittimato l’interpretazione della richiesta in chiave antirussa: il Cremlino usa il Patriarcato di Mosca come «uno degli strumenti della diffusione dell’ideologia della “misura russa” – quell’ideologia, che è alla base dell’aggressione dell’Ucraina, della Georgia e della Moldavia» (Asia News 7.5.2018). «Il presidente dell’Ucraina ha paragonato la costituzione di una Chiesa autocefala nel Paese alle aspirazioni di Kiev di aderire all’Unione Europea e alla Nato. “Perché”, ha spiegato, “il Cremlino considera la Chiesa russa uno degli strumenti chiave per esercitare la propria influenza nella nostra nazione” … “L’unità”, ha ribadito Poroshenko al Parlamento, “è la nostra principale arma nella lotta contro l’aggressore russo”» (M. Mercuriali su Italia Oggi del 21.4.18).
Una saldatura utile ai proponenti per coagulare il sentimento nazionale attorno al progetto di un’unica Chiesa in Ucraina. Una saldatura utile al governo in calo di consensi per accreditarsi quale tutore della sovranità nazionale contro l’aggressore russo. Un saldatura pericolosa, perché legittima le intromissioni dei soggetti politici in una questione ecclesiale. In Ucraina non c’è separazione fra Chiesa e Stato; dopo Maidan 2014 c’è identificazione di progetti.
«Durante la Rivoluzione della dignità, in piazza Maidan c’erano ucraini, russi, polacchi», ha dichiarato sua beatitudine Svjatoslav Ševčuk, arcivescovo maggiore dei greco-cattolici il 13 giugno. «La guerra in Ucraina non è un conflitto tra gli ucraini e i russi. È un conflitto tra due direzioni di sviluppo: il ritorno all’Unione Sovietica, che per noi è la via verso la perdita della libertà religiosa e dell’identità nazionale; o il movimento in avanti, verso l’autentica, sviluppata democrazia europea: la vera libertà per tutte le religioni e il pegno di libero sviluppo di tutti i popoli residenti in Ucraina, senza eccezione. E noi, in quanto Chiesa, difendiamo il progetto di costruzione del nostro Stato sui principi di tutela e di rispetto della dignità umana, del bene comune e della solidarietà».
Interessi incrociati e divergenti
Lo scenario più rispondente agli schemi tradizionali vede da una parte la Russia di Putin alleata del Patriarcato di Mosca fare pressioni sul Patriarcato di Costantinopoli perché non conceda l’autocefalia all’autoproclamatosi Patriarcato di Kiev; dall’altra gli Stati Uniti alleati delle rivendicazioni autonomiste ucraine, per le quali fanno buon gioco le sintonie ecclesiali. In mezzo, il bisogno di consensi del governo di Porošenko (in vista delle elezioni 2019) e la latitanza dell’Unione Europea che vorrebbe estendere la sua influenza sull’Ucraina, ma non riesce a costruirne i percorsi.
1) Le pressioni del Patriarcato di Mosca su Costantinopoli sono esplicite fino ad assumere il tono della minaccia. Il metropolita Hilarion Alfaeev, presidente del Dipartimento degli affari esteri del Patriarcato di Mosca, afferma, per quanto “a titolo personale”: «Non voglio nemmeno tentare di immaginare cosa potrebbe succedere il giorno dopo [la concessione dell’autocefalia al Patriarcato di Kiev, ndr]. La divisione in seno all’Ortodossia universale, che sarebbe la conseguenza inevitabile di questa mossa sbagliata, potrebbe essere paragonata alla divisione fra Oriente e Occidente del 1054. Se si producesse qualcosa del genere, seppelliremo l’unità dell’Ortodossia».[3]
2) «Il coinvolgimento degli USA nella vicenda ucraina è ovvio», secondo quanto ha affermato il giornalista Viacheslav Pikhovshek nella sua rubrica Cronologia del giorno sul canale News One il 30.6. «Gli Stati Uniti partecipano attivamente alla creazione di un’unica Chiesa in Ucraina. Ciò è confermato dalla crescente attenzione dei diplomatici americani nei confronti delle questioni di ortodossia in Ucraina e spiega perché Bartolomeo si spinga così avanti nell’avventura che sta dividendo il mondo ortodosso». Pikhovshek parla dell’incontro tra l’arcivescovo Jerome di Atene e di tutta la Grecia e l’ambasciatore statunitense in Grecia, Jeffrey Payet (ambasciatore in Ucraina durante Euromaidan nel 2014), incentrato sulla creazione della Chiesa locale unica in Ucraina. Durante l’incontro tenutosi il 29 maggio, l’ambasciatore statunitense ha affermato che «la Chiesa ortodossa può dare un contributo decisivo al rafforzamento della pace e alla riconciliazione dei popoli».
3) Se ci si interroga sul cui prodest dell’operazione nelle sue ricadute più ampie, non si può escludere che a Mosca non dispiaccia poi tanto l’azzardo di Filarete e di Porošenko, che potrebbe finire per ottenere effetti paradossali: dividere le Chiese, spaccare il fronte delle rivendicazioni autonomiste, esacerbare gli animi tra appartenenze nazionali e appartenenze ecclesiali. Una palingenesi dei fini. Ma forse è solo dietrologia.
Comunque vada, che l’autocefalia venga concessa o meno, i problemi non saranno finiti. Qualora il Patriarcato di Kiev si vedesse riconosciuto lo statuto di Chiesa autocefala, saranno da rivedere le rappresentanze (nel Consiglio Ecumenico delle Chiese, ad esempio), ridefinire gli assetti immobiliari perché, essendo le proprietà restituite in precedenza da entità “occupanti”, devono essere riconfermate e dove le comunità passassero alla Chiesa autocefala si porterebbero dietro anche le legittime proprietà; in proposito sono già state emanate due leggi, mai passate in esecuzione.
Non è detto che la piazza accolga di buon grado, al contrario, il diniego dell’autocefalia.
Un effetto si è già palesato: il dilemma davanti al quale è posto il Patriarcato ecumenico, che, comunque vada, ne esce ammaccato. Concedere l’autocefalia significherebbe riaffermare il proprio ruolo in seno all’Ortodossia e rappresenterebbe un allargamento significativo dell’influenza di Costantinopoli per i prossimi decenni; quell’influenza che il recente Grande e santo Sinodo non è riuscito a rappresentare. Ma produrrebbe una rottura drammatica con Mosca e forse con altre Chiese. Non concedere l’autocefalia verrebbe inevitabilmente letto come un’abdicazione al proprio ruolo, un cedimento alle pressioni – anche esogene – che potrebbe consegnare all’insignificanza la vocazione ecumenica dell’unico patriarcato al quale è riconosciuta.
L’uovo e la gallina
A differenza del grande scisma che ha sconquassato la Chiesa nell’XI secolo, le due Chiese ortodosse che si scomunicano a vicenda in Ucraina hanno il medesimo credo, il medesimo martirologio, la medesima liturgia. Sono opposte una all’altra sul versante canonico e gerarchico.
Dagli interlocutori che abbiamo contattato all’interno delle due Chiese ortodosse ucraine,[4] risulta che le due denominazioni sono unite anche nell’aspirazione all’autonomia nazionale, cioè all’autocefalia riconosciuta. Ma sono divise sul percorso da intraprendere per raggiungerla.
La Chiesa ortodossa ucraina – Patriarcato di Kiev propone l’autocefalia come primo necessario passo per candidarsi a raccogliere le altre espressioni della Chiesa ortodossa ucraina in un’unica Chiesa nazionale: prima si affermi la propria identità e si scindano i vincoli con Mosca così da potersi poi trovare uniti come Chiesa ucraina autocefala.
La Chiesa ortodossa ucraina – Patriarcato di Mosca esige che prima “gli scismatici” ritornino alla comunione con l’unica Chiesa ortodossa riconosciuta in Ucraina per procedere poi uniti alla richiesta di riconoscimento della propria identità e autonomia di Chiesa nazionale autocefala.
Nel frattempo, la divisione è profonda, i rapporti logori, i sacramenti non sono riconosciuti gli uni dagli altri.
Il terzo in campo
Nel dilemma dell’autocefalia ha preso la parola anche la Chiesa greco-cattolica per voce del suo arcivescovo maggiore Svjatoslav Ševčuk. La Chiesa ucraina greco-cattolica valuta «positivamente» la concessione dell’autocefalia alla Chiesa ortodossa ucraina, ma «non partecipa e non è coinvolta in questo processo perché lo considera un affare interno delle Chiese ortodosse». È quanto si legge in un comunicato diffuso all’indomani del viaggio di Porošenko a Costantinopoli dalla Chiesa greco-cattolica ucraina, che considera questo processo «un passo importante per il superamento della divisione tra le Chiese ortodosse ucraine e dell’isolamento nell’ambito del mondo ortodosso».[5] Secondo i greco-cattolici, «la creazione di unica Chiesa ortodossa in Ucraina è, tuttavia, solo il primo passo per raggiungere l’unità delle Chiese in una sola Chiesa locale di Kiev».
L’unità delle Chiese in una sola Chiesa locale di Kiev è l’ambizioso progetto che giustifica, secondo Ševčuk, la richiesta ribadita a Roma perché si riconosca alla Chiesa greco-cattolica di Kiev lo statuto di patriarcato. «Il mito ecclesiologico [ortodosso, ndr] vuole che l’unica Chiesa locale in Ucraina possa essere raggiunta soltanto quando i greco-cattolici rinunceranno alla comunione con la Santa Sede di Roma, quando la romperanno. E solo allora potrà avvenire l’unione di tutti i membri, di tutti gli eredi del cristianesimo di Kiev. E qui, secondo me – dice il capo della Chiesa greco-cattolica[6] – c’è il grande compito della nostra Chiesa: testimoniare sia alle Chiese ortodosse in Ucraina, sia alla Santa Sede di Roma come il nostro Patriarcato (sic!) potrà aiutare nell’opera di unione delle Chiese».
Progetto contestato dal Patriarcato di Mosca, che, per voce del metropolita Hilarion, fa sapere: «Nella retorica legata al progetto della cosiddetta Chiesa locale unica dell’Ucraina, spesso si associa un gruppo, quello dei greco-cattolici ucraini, guidati dall’arcivescovo Svjatoslav Ševčuk. Egli continua a fare dichiarazioni di appoggio al progetto dell’unica Chiesa locale, dicendo anche che l’unità di tale Chiesa dovrebbe appoggiarsi sul successore dell’apostolo Pietro, cioè sul papa di Roma».
La Santa Sede ha risposto ancora una volta negativamente alla richiesta dello statuto di patriarcato. Papa Francesco, rivolgendosi proprio al metropolita Hilarion in occasione dell’udienza del 30 maggio, ha detto con parole nette: «Alla vostra presenza, e specialmente di fronte a voi, caro fratello, vorrei ancora una volta sottolineare che la Chiesa cattolica non permetterà mai che da parte sua si manifestino atti che provochino delle divisioni. Noi questo non lo permetteremo, io questo non lo voglio. In Russia esiste soltanto un Patriarcato, il vostro, e noi non ne riconosceremo un altro».
È evidente che, in senso stretto, il papa si riferiva alla Russia, ma non v’è chi non senta nelle sue parole un riferimento alla richieste provenienti dall’Ucraina. Tanto più che, in quel medesimo contesto, papa Francesco ha ribadito che l’uniatismo non può essere considerato un metodo accettabile per il raggiungimento dell’unità ecclesiastica. E ha aggiunto: «Le Chiese cattoliche non devono immischiarsi negli affari interni della Chiesa ortodossa russa, soprattutto per ragioni politiche. Questa è la mia posizione, e la posizione attuale della Santa Sede. Coloro che agiscono diversamente non si sottomettono alla Santa Sede».
[1] Cf. «Ukraine: à Marinka, la rue Lénine traversée par la guerre», in Le Monde 24.04.2018, pp. 12-13.
[2] Un milione circa i protestanti, in crescita. Mezzo milione i musulmani, concentrati soprattutto in Crimea.
[3] Cf. Jivko Panev su orthodoxie.com il 2.5.18 e SettimanaNews 11.5.18.
[4] Vedi le interviste riportate in SettimanaNews.
[5] Cf. AgenSIR 25.4.18.
[6] In una relazione tenuta a Kiev il 9.2.18, al termine dell’anno giubilare dedicato al 125° anniversario della nascita del “patriarca” Josyp Slipiy, nella quale argomenta le ragioni per riconoscere a Kiev il titolo di patriarcato.