Rapporto finale «Sulla situazione in Ucraina. Analisi teologico-critica e alcune riflessioni sull’unità dell’Ortodossia», redatto dai membri del Centro di Studi Ecumenici, Missiologici e Ambientali «Metropolita P. Papageorgiou» (CEMES, Salonicco). Il testo raccoglie le analisi elaborate dal CEMES nel corso di un progetto sulla questione iniziato nell’agosto del 2018.
Il CEMES ha ritenuto suo dovere presentare in tutta umiltà i risultati del suo progetto accademico con il quale ha esaminato attentamente, in questo momento alquanto critico e vulnerabile per l’unità ortodossa, l’attuale crisi ucraina da una prospettiva teologica, storica e canonica, fornendo delle osservazioni critiche, alla luce della tradizione ortodossa e del Santo Grande Concilio della Chiesa Ortodossa.
Il CEMES ha tenuto conto della decisione del Santo Sinodo del Patriarcato di Mosca (PM) di interrompere la comunione eucaristica con il Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli (PE), e ritiene che tale azione canonica abbia enormi ripercussioni nella diaspora, dove la maggior parte degli ortodossi delle diverse giurisdizioni è orientata a stabilire una cooperazione in spirito di unità e di testimonianza comune.
Il progetto del CEMES è stato lanciato a metà agosto 2018 e ha coinvolto i suoi soci accademici. I teologi del CEMES si sono impegnati nel dibattito riguardante la questione della concessione dell’autocefalia alla Chiesa Ortodossa in Ucraina e hanno deciso di studiare il tema sotto la prospettiva del trittico «Primato-Conciliarità-Autocefalia». Il progetto si è concluso ad aprile 2019.
Lo stato della questione
Dopo la catalizzazione della questione ufficialmente messa in campo dal PE nel mese di settembre 2018 si era in attesa della risposta da parte del PM. Quest’ultimo ha seguito inizialmente una strategia che potremmo definire di tipo «comunicativo»: riportando i discorsi di Sua Santità, il Patriarca di Mosca Cirillo, nonché avanzando la tesi che nel processo dell’autocefalia siano presenti delle motivazioni politiche. Secondo questa ottica si tratterebbe di «forze del male» che vogliono distruggere la Chiesa russa.
In merito, sono stati pubblicati dei commenti anonimi o semi-ufficiali, il più importante dei quali (a metà ottobre) è stato quello del prof. Mickail Zheltov (membro di una commissione sinodale del PM) – con un suo vecchio saggio che chiaramente non poteva rispondere agli argomenti più recenti del PE.
Il documento che potrebbe dare una soluzione a questa dolorosa divisione di un paese abitato principalmente da ortodossi è l’«Atto Patriarcale» del 1686 che, a causa delle difficili circostanze di quel periodo, concedette al patriarca di Mosca il diritto di ordinare il metropolita di Kiev con l’esplicito requisito di seguire la decisione dell’assemblea clero-laicale di Kiev e, cosa ancor più importante, di commemorare il patriarca ecumenico (fatto che dimostra che la Metropolia di Kiev continuava a rimanere sotto l’omoforion di Costantinopoli).
Invece, il PE ritiene che allora Mosca estese in maniera non canonica la propria giurisdizione sulla Metropolia di Kiev e tutto il territorio ucraino.
In ritardo rispetto a tutto il processo (fine ottobre 2018), vi è stato poi un tentativo di risposta ufficiale agli argomenti del PE da parte del PM. A fine novembre il sito web del Dipartimento per le Relazioni Esterne del PM ha pubblicato una traduzione greca dello studio del Prof. Zheltov. Pur essendo un liturgista di fama, Zheltov ha glissato sulla condizione posta dall’«Atto» del 1686 per quanto concerne la commemorazione del Patriarca Ecumenico da parte del metropolita di Kiev (chiara prova dell’appartenenza giurisdizionale della Metropolia di Kiev a Costantinopoli).
Di contro, Zheltov ha interpretato questa condizione solo come «un semplice auspicio». Sia la risposta ufficiale del PM che il lungo articolo del Prof. Zheltov hanno correttamente insistito sull’unità ecclesiastica tra Kiev e la Russia moscovita. Tuttavia, questa è storia passata che non ha rilievo per la situazione attuale in cui la stragrande maggioranza degli ucraini considera i russi quali aggressori del loro paese e il primate del PM come persona non grata.
Le responsabilità per la situazione presente
Questi argomenti sono stati respinti dal PE: prima con un testo altrettanto lungo del prof. emerito Vlasios Feidas pubblicato il 29 novembre 2018; in seguito dal vescovo Makrios di Christoupolis parlando in rappresentanza del PE presso l’Unione Europea; infine, da un consigliere del PE, il diacono prof. John Chryssavgis in una breve ma convincente presentazione video.
Per l’attuale infelice situazione non si può biasimare né PE, che è canonicamente obbligato a tutelare i propri diritti, né il PM che ha cercando di difendere la propria giurisdizione impiegando ogni argomentazione che ha ritenuto opportuna.
La colpa – per ciò che riguarda l’unità dell’Ortodossia e, soprattutto, l’unità tra Kiev e Mosca – è da attribuire esclusivamente alla Chiesa Ortodossa Ucraina sotto il Patriarcato di Mosca (COU-MP).
In particolare alla sua leadership che ha seguito ciecamente tutte le decisioni della Chiesa russa: rifiutando di incontrare gli esarchi di Costantinopoli, ai quali avrebbe potuto chiedere tutte le condizioni che desiderava, e ripetendo gli argomenti del PM nel suo ultimo Sinodo tenutosi al Lavra delle Grotte di Kiev – invece di incontrare il Presidente d’Ucraina, come concordato.
Un Sinodo che a detta di molti ha rasentato il colpo di stato per la sua improvvisa convocazione e perché ha negato ai suoi gerarchi il diritto di prendere decisioni in coscienza, senza considerare (aggiungiamo noi) la precedente lettera di ottobre del PE al primate della COU-MP, metropolita Onofrio.
A parere della commissione scientifica, rifiutandosi di partecipare nella sua totalità al processo di unificazione, la COU-MP ha perso un’occasione unica per mantenere in larga misura il controllo canonico del processo che ha condotto alla Chiesa Ortodossa Autocefala d’Ucraina; e, cosa ancor più importante, non ha giovato all’unità reale tra l’Ortodossia ucraina e quella russa.
Una riserva verso Mosca
L’unica riserva che si può avanzare nei confronti il PM è stata la sua decisione di utilizzare l’eucaristia, elemento supremo di unità tra le Chiese e di auto-identità Ortodossa, per una disputa di natura puramente amministrativa. Ciò ha creato, come si è notato, numerosi problemi nello sforzo di assicurare l’unità ortodossa, in particolare quella della diaspora.
Azioni di questo tipo sono state numerose nel corso della nostra lunga storia, sia nel primo che nel secondo millennio, e molte di esse sono state gradualmente sanate. Il PM aveva già impiegato questa misura nella disputa territoriale con il PE sull’Estonia, ma tolse l’interruzione della comunione eucaristica dopo pochi anni. Preghiamo che questo succeda anche in questo caso.
Altrimenti, e considerando la possibilità che la Chiesa greco-cattolica ucraina aderisca, dopo aver messo in atto i necessari provvedimenti canonici, alla nuova Chiesa Ortodossa Autocefala, potrebbe essere possibile che molti devoti ortodossi preferiranno l’unità con la Chiesa Cattolica, specialmente col Papa attuale, piuttosto che con la Chiesa russa (in particolare con la sua attuale teoria sulla Russkij Mir che, per diversi aspetti, è contraria al documento missionario olistico del Santo e Grande Concilio della Chiesa Ortodossa La missione della Chiesa ortodossa nel mondo contemporaneo). Un documento nei confronti del quale la Chiesa Ortodossa russa, in ultima analisi, ha sollevato un grande numero di riserve.
La lezione della storia
In casi simili nel passato e nel secolo precedente, in cui irregolarità canoniche hanno provocato situazioni scismatiche (si ricordi in particolare l’autocefalia della Chiesa greca), il PE è intervenuto seguendo i canoni dei Concili Ecumenici e ha sanato gli scismi provocati: riportando milioni di ortodossi alla canonica Chiesa Ortodossa attraverso la concessione dello status dell’Autocefalia.
Questo è ciò che è successo a tutti i nuovi Patriarcati e alle Chiese Ortodosse Autocefale. La commissione scientifica del CEMES non ha affrontato la questione sull’opportunità o meno di risolvere a livello panortodosso il tema dell’Autocefalia ucraina, poiché a tale livello, secondo la tradizione ortodossa, l’Autocefalia non viene concessa ma soltanto riaffermata.
Dopo tutto, la riaffermazione dell’autocefalia dei nuovi Patriarcati e delle Chiese autocefale, a eccezione della Chiesa di Cipro, è in attesa di conferma.
Diverse sono state le argomentazioni presentate in via non ufficiale contro la decisione del PE di procedere all’autocefalia ucraina: «perché ora?» è stato chiesto; ma la vera obiezione dovrebbe essere: «perché così in ritardo?». Per tre secoli il PM ha esercitato la sua autorità sull’Ucraina senza che nessuno mettesse in dubbio questo status anche se di fatto non era canonico.
È chiaro che dal punto di vista canonico, e in generale giuridico, una situazione irregolare non può modificare la tradizione canonica.
Per essere onesti, sebbene sia stata messa in questione diverse volte dalla Chiesa russa la qualità del Patriarca Ecumenico quale prōtos nella Chiesa ortodossa – cosa che ha creato non pochi ostacoli al dialogo ecumenico, specialmente con i cattolici –, il PE ha preferito non arrestare il lungo processo verso il tanto atteso Sinodo Panortodosso.
Un altro argomento è stato che gli scismatici e gli scomunicati, misure queste prese negli anni ’90 in modo legalistico e semi-nazionalista, quindi non secondo lo spirito filantropico di economia che caratterizza quasi tutte le decisioni canonico-disciplinari, non si fossero pentiti.
L’incapacità della COU-MP di trovare una soluzione al problema, e quindi di mantenere l’unità ortodossa nel paese, ha inevitabilmente costretto il PE ad agire come ha fatto: revocando l’atto del 1686 nella sua interezza, poiché le sue condizioni non erano mai state canonicamente rispettate (dobbiamo riconoscere che in seguito il PM ha portato prove del contrario, ma solo per ciò che riguarda la partecipazione dei laici all’elezione del metropolita di Kiev), accogliendo gli appelli degli scomunicati e scismatici – ripristinando in tal modo l’unità ortodossa in Ucraina e il suo Stavropegion a Kiev, e facendo tornare di nuovo la Metropolia di Kiev sotto il suo omoforion.
Quale modello di unità ecclesiale?
Altri hanno sostenuto che i sacri canoni, in quanto norme risalenti a tempi antichi, non possono risolvere le assai più complesse situazioni odierne perché la loro applicazione oggi darebbe origine a pesanti conseguenze politiche e geopolitiche. Chi segue questa logica, sostenuta dal PM, non è spinto naturalmente a rifiutare la secolare tradizione canonica stabilita dai Concili Ecumenici, ma propone – indirettamente – un modello di unità ecclesiale senza un prōtos, vale a dire senza un primato di onore e di servizio (e con delle determinate prerogative).
In pratica, tutti gli ortodossi senza eccezioni – e senza che vi sia alcuna argomentazione teologica contraria – seguono un primato a tutti i livelli della vita della Chiesa (parrocchiale, diocesana, di Chiesa autocefala), eccetto quello universale.
La commissione non ha insistito sul seguire i sacri canoni ciecamente senza contestualizzarne il contenuto, ma ha invece sostenuto che vi è bisogno di mantenersi fedeli alla nostra tradizione canonica e di interpretarla dinamicamente. Altrimenti, vi è il pericolo di cadere in una confederazione di Chiese Ortodosse indipendenti di stile protestante; una situazione quasi inevitabile, questa, se si segue la proposta alternativa.
Se ciò accadesse, non potremmo più parlare della Chiesa «una, santa, cattolica e apostolica», ma di qualcosa di estraneo all’ecclesiologia cristiana autenticamente ortodossa.
Sfortunatamente, per molti secoli dopo il Grande Scisma noi ortodossi abbiamo sviluppato inconsciamente un’identità «negativa»: non siamo primariamente ciò che la nostra tradizione ci ha lasciato in eredità, ma soprattutto ciò che gli altri – specie i cattolici – non sono. In altre parole, una Chiesa senza un primato, espressione visibile dell’unità della Chiesa, accompagnato ovviamente dalla sinodalità.
Un’autentica sinodalità
Qual è, infine, il risultato più promettente di questa crisi – continua la relazione della commissione –, ora che il processo verso l’autocefalia ucraina ha raggiunto la sua fase finale e il PE sta facendo rivivere un’antica prassi ecclesiologica: ossia, la partecipazione di tutto il popolo di Dio (clero e laici) nei processi decisionali della Chiesa, cosa che al giorno d’oggi le Chiese Ortodosse Autocefale hanno dimenticato o, nel migliore dei casi, lasciato ai margini.
In altre parole, è stata riportata in vita l’autenticità della sinodalità e si spera che sarà seguita non solo dai vertici ma a tutti i livelli della vita della Chiesa: parrocchiale, diocesana, regionale/nazionale, universale.
Nella sua lettera di invito al Concilio di Unificazione, il PE aveva sottolineato quest’antica procedura conciliare e, nel caso ucraino, la tradizione precedente al 1686: «Vescovi, sacerdoti, coloro che guidano la vita monastica e laici parteciperanno al Concilio di Unificazione del 15 dicembre a Kiev. Tutti coloro a cui questa la lettera è stata spedita, avranno il diritto di voto».
Si spera che ciò sarà avvertito anche dalle altre Chiese Ortodosse che hanno sperimentato una crisi simile, come quella greca e russa tra le altre, per fuggire dalle catene della schiavitù poste dagli stati secolari.
Validità delle ordinazioni
Recentemente è sorto un ulteriore problema: quello riguardante la validità dell’ordinazione di coloro che si trovavano in uno status non canonico (scismatici, scomunicati ecc.) e, in particolare, la validità dell’elezione del primate della Chiesa Autocefala Ucraina, Epifanio.
La commissione, dopo aver studiato in fondo sia le ragionevoli preoccupazioni dei credenti scandalizzati sia gli argomenti proposti da rinomati studiosi di diritto canonico e dai primati ortodossi, e specialmente la lunga storia dei sinodi locali ed ecumenici della Chiesa Ortodossa fino al XX secolo, ha concluso che la riammissione allo status canonico dei sacerdoti della Chiesa Ortodossa (inclusi i gerarchi) non richiede la loro riordinazione e nemmeno che i loro fedeli vengano ribattezzati.
La recente lettera della Chiesa di Albania si è concentrata giustamente sulla persistente ossessione e sul comportamento dell’ex primate della Chiesa Ortodossa Ucraina – Patriarcato di Kiev (COU-PK). Questa lettera rappresenta la miglior documentazione per ciò che concerne gli appelli alla riconciliazione dello scandalo percepito da parte dei fedeli.
Il PE, tuttavia, nonostante i suoi sforzi, non è stato in grado di far valere le sue decisioni senza essere accusato di interferenze illegali nel processo di conferire canonicamente un’autocefalia piena.
Il futuro dell’Ortodossia
Quanto al futuro dell’Ortodossia in Ucraina, nonché l’unità dell’Ortodossia nel suo insieme, la commissione ritiene che tutti gli sforzi debbano d’ora in poi concentrarsi sul graduale ripristino dell’unità degli ortodossi in Ucraina.
Prendendo atto del fatto che il PM sembra aver trovato un accomodamento rispetto a una doppia giurisdizione in Ucraina (ossia, l’inevitabile esistenza sia della COU-PM sia della Chiesa Autocefala di Ucraina), l’unica proposta realistica di una soluzione provvisoria sarebbe quella di seguire il modello del famoso «Atto Patriarcale» del 1928 (ancora in vigore nella Chiesa di Grecia).
Anche se una doppia giurisdizione è cosa fortemente non canonica, ed è stata criticata nel caso dell’Estonia, mentre nella diaspora ortodossa è in via di superamento, risulta oggi l’unica soluzione possibile per ridurre l’inimicizia accumulata e il continuo scontro lungo il corso di oltre 20 anni.
L’obiettivo dovrebbe essere la co-decisione di creare un Santo Sinodo Permanente quale organo ecclesiastico esecutivo supremo, composto da sei gerarchi della COU-PM e sei della Chiesa Autocefala di Ucraina, secondo il modello che è stato operativo per circa un secolo nella Chiesa di Grecia.
Petros Vassiliadis è professore emerito di teologia biblica presso il Dipartimento di teologia dell’Università di Tessalonica e presidente in carica del CEMES.