Le prime voci ecclesiali a congratularsi con il nuovo presidente dell’Ucraina, Vladimir Zelensky, sono state la Chiesa ortodossa ucraina filo-russa e il patriarca Cirillo di Mosca. A cavallo delle elezioni (avvenute il 23 aprile) il tribunale amministrativo di Kiev ha dichiarato illegali i processi di applicazione della legge che obbligava la Chiesa filo-russa a cambiare il proprio nome da «Chiesa ortodossa ucraina» a «Chiesa ortodossa russa in Ucraina». Sono i primi segnali del cambiamento di clima religioso provocato da elezioni segnate dal candidato “anomalo” Zelensky.
Il comico e l’oligarca
Raccogliendo un consenso plebiscitario (oltre il 70%), Zelensky arriva alla presidenza con un percorso sorprendente. Nasce come comico in un collettivo (KVN), fonda un proprio gruppo per teatro e TV (Kvartal 95), diventa protagonista di una serie televisiva sul canale 1+1: “Servo del popolo”.
Un professore di storia, grazie ai social dei suoi studenti, si impone, attraverso una narrazione comica e surreale, all’attenzione pubblica, diventando presidente del paese. Il travolgente successo della serie televisiva alimenta la fondazione di un partito politico con lo stesso nome (“Servo del popolo”) il 28 marzo 2018.
Dieci mesi dopo, Zelensky, diventa ufficialmente candidato per le elezioni presidenziali. Senza tradizione politica, senza confronti diretti coi concorrenti (in particolare Julia Tymoshenko e il presidente in carica Petro Poroshenko, a parte una kermesse allo stadio olimpico di Kiev), senza programmi definiti, con la forza di una immagine di onestà, novità ed estraneità al ceto politico, il giovane candidato (41 anni) ha convinto prima i giovani e poi gli adulti a dargli il voto.
Nello sfondo politico del paese, determinato dalla vicinanza-lontananza dalla Russia (e dall’Unione europea) e dal gioco di interessi degli oligarchi, carichi di soldi e spesso con un proprio esercito personale, il nuovo presidente non ha scoperto le carte, assemblando elementi diversi e contraddittori: rigore monetario per sbloccare i prestiti del Fondo monetario internazionale, adozione del pareggio in bilancio, legge anti-corruzione, amnistia sui capitali non dichiarati, referendum per entrare nella NATO, riapertura del dialogo con la Russia sulla guerra nel Donbass e liberazione di tutti i militari ucraini prigionieri.
Di origine ebraica, dopo aver sempre parlato russo è passato all’ucraino dandosi un profilo nazionale.
La rapidità degli eventi non ha permesso di scavare molto dietro l’esibita inesperienza politica. Non solo fra i consiglieri (fra cui l’ex ministro dell’economia A. Abromavicius, e delle finanze, A. Danykyuk), ma anche fra gli sponsor (l’oligarca ucraino-cipriota-israeliano, Igor Kolomoisky, con un patrimonio di tre miliardi di dollari e fiero oppositore di Poroshenko) e fra le destinazioni dei suoi personali proventi (una villa a Forte dei Marmi).
Toni più distesi
Un arcivescovo filo-russo della laura delle Grotte di Kiev nel gennaio scorso ammoniva a pazientare in ordine alle acute tensioni ecclesiali determinate dalla nascita della nuova Chiesa ortodossa unita: «La questione è estremamente politicizzata in questo momento. Ma nessuno avrà più interesse ad agitare i contrasti religiosi all’indomani delle elezioni presidenziali».
Mentre Poroshenko ha messo tutto il suo percorso politico a favore della Chiesa nascente, contro quella filo-russa, ottenendo da Costantinopoli il tomo dell’autocefalia, Zelensky non si è per nulla esposto in merito.
Con un profilo più laico del suo predecessore, aveva risolto in una battuta la cessione del tomo dell’autocefalia parlando di thermos. È ritornato sulla questione a pochi giorni dalle elezioni addebitando il successo dell’autocefalia non al predecessore, ma a Filarete, il “patriarca” di Kiev.
L’elezione di Zelensky ridefinirà anche i rapporti fra le Chiese (quella ortodossa unita, la filo-russa, i greco-cattolici ecc.). Non in base a una tematizzazione diversa, ma per assenza di interessi e di pregiudizi, creando uno spazio maggiore di libertà.
Il tribunale di Kiev ha già disinnescato una delle due leggi più pericolose per la Chiesa filo-russa. Il suo rifiuto a cambiare il nome avrebbe messo, dal 26 aprile, la Chiesa fuori del campo giuridico ucraino, perdendo tutti i diritti di uso di chiese e di edifici (che sono proprietà dello stato). Le 12.000 parrocchie, i 12.400 preti, i 258 monasteri con 4.500 monaci e i 400 seminaristi si sarebbero trovati privi di copertura giuridica.
È ancora in vigore la seconda legge che permette alle comunità parrocchiali di passare all’obbedienza della nuova Chiesa con un voto assembleare di maggioranza, senza nessun filtro fra praticanti e no, fra occasionali e residenti. Sono circa 500 le parrocchie che si sono già accasate nella nuova Chiesa (7.000 parrocchie) e la facilità dei processi decisionali fa intuire che il flusso continuerà, anche se meno vigoroso.
Continuano le polemiche interne sia nella Chiesa ortodossa unita (contro la paventata emarginazione del “patriarca” Filarete) sia nella Chiesa filo-russa (per l’intransigenza del rifiuto di ogni contatto con il patriarcato di Costantinopoli).
La tensione in corso in tutta l’Ortodossia dopo l’autocefalia da parte di Costantinopoli e la scomunica da parte di Mosca non accenna a diminuire. Nessuna delle 13 Chiese storiche ha riconosciuto la nuova Chiesa unita ucraina, ma anche la scomunica moscovita non raccoglie molte adesioni, se i quattro patriarchi del Medio Oriente (Cipro, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme) il 18 aprile hanno invitato tutte le Chiese all’unità eucaristica. Non si spegne la richiesta di un sinodo pan-ortodosso sul caso ucraino o almeno una consultazione pan-ortodossa in merito.
Difficile prevedere se una maggiore tranquillità nelle relazioni in Ucraina possa avere un riscontro nelle tensioni ortodosse mondiali.