La prolusione per l’inaugurazione dell’anno accademico presso la Pontificia facoltà teologica dell’Italia meridionale (Napoli) – lo scorso giovedì 23 novembre 2023 – è stata la Lectio magistralis tenuta dal Patriarca Ecumenico Bartolomeo I (cf. qui su SettimanaNews), a cui la facoltà ha conferito il dottorato honoris causa in Teologia. Il giorno seguente, presso l’Aula magna della Sezione San Tommaso, il Patriarca Ecumenico ha aperto i lavori di un convegno intitolato «La liturgia segno del cammino di unità nella chiesa sinodale», dove sono intervenuti – moderati dal prof. Nicola Salato – docenti delle due sezioni della PFTIM (San Luigi e San Tommaso), insieme ad alcuni relatori invitati a portare il loro contributo secondo una studiata ricerca del confronto tra gli sguardi delle Chiese di Oriente e di Occidente. Il prof. Piero Coda, Segretario della Commissione teologica internazionale, ha tenuto il suo intervento – che qui riprendiamo – sul tema: «Trinità, Chiesa e sinodalità. Un kairós per il cammino ecumenico».
I Padri della Chiesa, tanto in Oriente quanto in Occidente, conoscono e declinano in molteplici variazioni la metafora della Chiesa che non brilla di luce propria ma riflette, inondandone la creazione, la luce di Cristo Sole di giustizia. «Fulget Ecclesia non suo sed lumine Christi»: così, ad esempio, Sant’Ambrogio nel suo farsi eco di Origene e San Basilio il Grande[1].
E insieme i Padri sottolineano con vigore, ispirandosi all’insegnamento vivo della Sacra Scrittura e della Divina Liturgia che, se Cristo irradia sulla Chiesa, Sua Sposa, la sua stessa luce, a Sé associandola nella celebrazione cosmica ed escatologica del mystérion méga della sua Pasqua (cf. Ef 5,32), è perché questa luce è la luce stessa del Dio Tre volte Santo, che tutto irradia e circonfonde nello Spirito Santo della Sua gloria divina e divinizzante: la dóxa che s’irradia sulla creazione dall’eikón toû Theoû aorátou, l’icona del Dio invisibile (cf. Col 1,15). E questo perché Egli, il Cristo, è apaúgasma tês dóxes kaì charaktèr tês hypostáseos autoû, irradiazione della gloria di Dio e impronta della Sua sostanza (Eb 1,3).
La via ecumenica è aperta
Non è dunque una semplice coincidenza il fatto che, nel corso del XX secolo, le «Chiese sorelle» d’Oriente e d’Occidente si siano incamminate decisamente e in modo irreversibile sulla via della piena e visibile unità proprio perché si sono disposte a far propria con sincero anelito e generosa responsabilità la preghiera rivolta da Gesù al Padre nell’ultima cena, che lega il dono dell’unità al dono nello Spirito Santo della doxa del Padre e del Figlio alla Chiesa per la salvezza del mondo: «Che tutti siano uno, come tu Padre sei in me e io in te, anch’essi siano in noi uno perché il mondo creda che tu mi hai mandato. E io la gloria (dóxa) che hai data a me, l’ho data a loro, perché siano uno come noi siamo uno» (cf. Gv 17,21-22).
Nell’accogliere il dono di questa luce e nella percezione del suo irradiarsi efficace, sprigionandosi dalla partecipazione alla grazia del Battesimo e dell’Eucaristia, sul volto della Chiesa una nella molteplicità delle sue espressioni è il segreto e la via dell’unità per la missione come dono eccedente e sempre nuovo della Santa Trinità lungo i sentieri accidentati della nostra storia. Grazie a questa ritrovata consapevolezza – lo ha rimarcato Sua Santità il Patriarca Ecumenico Bartolomeo, in occasione della celebrazione del sessantesimo anniversario del Concilio Vaticano II – «la via ecumenica è aperta a Oriente e a Occidente e non potrà più essere chiusa»[2].
L’impegno a camminare insieme – senza più volgere lo sguardo indietro – sulla via dell’unità, getta dunque le sue radici, e di qui trae la linfa per aprirsi a una nuova fioritura nella missione della Chiesa una, santa, cattolica e apostolica di Cristo, dall’aver riaperto insieme lo sguardo – Cristiani d’Oriente e d’Occidente – sulla luce che illumina il disegno d’amore della Santa Trinità sulla Chiesa nella sua essenza e vocazione originariamente e costitutivamente sinodale.
Non a caso, sia Papa Francesco sia il Patriarca Ecumenico Bartolomeo, hanno richiamato l’attenzione sulla illuminante affermazione di San Giovanni Crisostomo che mirabilmente compendia la testimonianza dei Padri: «Ecclesía è nome che sta per sýnodos»[3].
Questa la grazia e questa la responsabilità della Chiesa più che mai nel nostro tempo: annunciare e testimoniare, con l’essere prima che con la parola, che Dio Trinità è entrato nella storia dell’umanità «una volta per sempre» in Cristo Gesù (cf. Eb 7,27), e cammina con noi nella divina Eucaristia al cuore della santa Chiesa; e così farsi in Lui, al soffio dello Spirito Santo, «luce per tutti quelli che sono nella casa» (cf. Mt 5,14-15) e lievito di fraternità e di pace che fermenta la pasta della società (cfr. Mt 13,33) ormai planetaria, ma segnata da tragiche e inquietanti lacerazioni, che vive il travaglio di una gestazione di portata epocale.
Non basta cogliere e professare in virtù della fede che nella partecipazione alla koinonía della Trinità è la sorgente, il modello e la meta della sinodalità della Chiesa: occorre mostrare, nell’esercizio effettivo dell’agápe reciproca e verso tutti, a partire dagli ultimi e dagli esclusi, che il cammino di una Chiesa che si fa ciò che è, e cioè sinodale, è la risposta in atto del Popolo di Dio alla chiamata di Dio e alla sua missione nel mondo oggi. Come si legge nella Relazione di Sintesi della recente prima sessione dell’Assemblea del Sinodo dei Vescovi della Chiesa cattolica (ottobre 2023):
«Si può affermare che la pratica sinodale fa parte della risposta profetica della Chiesa a un individualismo che si ripiega su se stesso, a un populismo che divide e a una globalizzazione che omogeneizza e appiattisce. Non risolve questi problemi, ma fornisce un modo alternativo di essere e di agire pieno di speranza» (1.l).
Esperienze di grazia
Prendo ispirazione, nell’offrire un semplice pensiero in questa luce, da due esperienze di grazia che vivo, la prima da ormai quasi vent’anni, la seconda da due anni appena: il cammino del dialogo teologico tra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa e il processo sinodale in cui Papa Francesco ha convocato la Chiesa cattolica appena richiamato. Dalla condivisione di queste esperienze ho guadagnato la percezione vivida e interpellante che − lo dico con le parole di Papa Francesco − «la Chiesa è “un popolo adunato nell’unità del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo” (così la Lumen gentium, Costituzione dogmatica del Vaticano II sulla Chiesa, al n. 4). Per questo, nella realtà che denominiamo “sinodalità”, possiamo localizzare il punto in cui converge misteriosamente ma realmente la Trinità nella storia»[4].
La Relazione di Sintesi della prima sessione del Sinodo dei Vescovi già richiamata sottolinea che la coscienza ecumenica è stata riconosciuta dimensione non solo rilevante ma per molti aspetti decidente della messa in opera del processo sinodale. Vi si legge:
«Questa sessione dell’Assemblea sinodale si è aperta nel segno dell’ecumenismo. La veglia di preghiera “Together” ha visto la presenza a fianco di papa Francesco di numerosi altri capi e rappresentanti di diverse Comunioni cristiane: un segno chiaro e credibile della volontà di camminare insieme nello spirito dell’unità della fede e dello scambio di doni. Anche questo avvenimento, altamente significativo, ci ha permesso di riconoscere che ci troviamo in un kairós ecumenico e di riaffermare che ciò che ci unisce è più grande di ciò che ci divide. In comune, infatti, abbiamo “un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo, un Dio unico e Padre di tutti, che è sopra tutti, fra tutti e in tutti” (Ef 4,5-6)» (7.a).
Cammino ecumenico: una nuova stagione
È d’altra parte significativo, e illustra la fondatezza evangelica e la portata realistica della nuova stagione nel cammino ecumenico che in questa luce si viene profilando, il fatto che il dialogo teologico instaurato a partire dal 1980 tra le due «Chiese sorelle» (che sino ad oggi prosegue non senza ostacoli, ma con frutti sostanziali) abbia rinvenuto proprio nel rapporto tra la SS.ma Trinità, la Chiesa e la sua natura e vocazione sinodale il tema decisivo da approfondire e la realtà centrale su cui convergere. In una parola, la luce da cui farsi trasfigurare nel chiaro-scuro sempre indeciso e drammatico della storia.
Già nel Piano per la messa in cammino del dialogo, adottato a Patmos e Rodi (il 1 giugno 1980), si sottolinea che l’unità della Chiesa va concepita in conformità con l’evento di Cristo Gesù quale Sacramento fondante e permanente dell’Agape della SS.ma Trinità nel suo farsi efficacemente presente alla storia attraverso la Chiesa, generandola ed edificandola per mezzo del Battesimo e dell’ Eucaristia (cfr. III, 5)[5].
Così che nel primo momento del dialogo, confluito nel documento congiuntamente approvato a Monaco (il 6 luglio 1982) su Il Mistero della Chiesa e dell’Eucaristia alla luce del Mistero della Santa Trinità − documento che resta senz’altro fondamentale −, si concorda nel professore che la Chiesa «trova il suo modello, la sua origine e la sua meta nel Mistero di Dio Uno in Tre Persone. Di più: l’Eucaristia così compresa alla luce del Mistero trinitario costituisce il criterio per il funzionamento della vita ecclesiale (…). Gli elementi istituzionali non devono essere che un riflesso visibile della realtà misterica» (II,1).
Da ciò consegue, in particolare, al fine di una corretta interpretazione e di un corretto esercizio dell’ecclesiologia, che «poiché il Dio uno e unico è la comunione di tre Persone, la Chiesa una e unica è comunione di molte comunità, e ogni Chiesa locale è comunione di persone. La Chiesa una e unica s’identifica con la koinonia delle Chiese. (…). È questa relazione costitutiva della Chiesa che le istituzioni rendono visibile e, si potrebbe dire, storicizzano» (III, 2).
Si tratta di una postura ecclesiologica in cui non è difficile riconoscere lo specifico apporto del compianto Ioannis Zizioulas, di cui anche recentemente Papa Francesco ha ricordato il prezioso e permanente contributo alla causa ecumenica.
Il dialogo teologico: tre passi significativi
In coerenza con questo risultato di partenza, nella seconda tappa del dialogo, che contempla tre importanti documenti: quello di Ravenna del 2007, quello di Chieti del 2016 e quello di Alessandria del giugno di quest’anno, il proposito coerentemente assunto e con perseveranza eseguito è stato quello di mettere a fuoco – come recita il titolo del documento di Ravenna – il rapporto tra Comunione ecclesiale, sinodalità e autorità. Una scelta che sempre più, col passare del tempo, si mostra di portata strategica.
Nel documento di Ravenna si concorda infatti, innanzi tutto, sul fatto che «la sinodalità riflette (ecco il lessico della luce!) il Mistero trinitario e ha il suo fondamento in tale mistero. Le tre persone della Santa Trinità sono «enumerate», come afferma San Basilio il Grande, senza che la designazione come «seconda» o «terza» persona, implichi una diminuzione o una subordinazione. Analogamente, esiste anche un ordine tra le Chiese locali che tuttavia non implica disuguaglianza nella loro natura ecclesiale» (n. 5). Lungo questa strada si giunge a esprimere il consenso su questo basilare principio ecclesiologico:
«Primato e sinodalità sono reciprocamente interdipendenti. Per tale motivo il primato ai diversi livelli della vita della Chiesa, locale, regionale e universale, deve essere sempre considerato nel contesto della sinodalità e, analogamente, la sinodalità nel contesto del primato» (n. 43)».
Proseguendo il cammino in questa prospettiva, il documento di Chieti s’impegna a rispondere alla domanda: che ne è stato, in Oriente e in Occidente, nel corso del primo millennio, del principio ecclesiologico messo in rilievo a Ravenna dell’interdipendenza tra sinodalità e primato sui diversi livelli della vita della Chiesa? Ed ecco la risposta, che esprime il consenso raggiunto nel documento:
«La storia della Chiesa nel primo millennio è decisiva. Nonostante alcune temporanee rotture, i Cristiani dell’Oriente e dell’Occidente sono vissuti in comunione durante questo tempo, e dentro questo contesto le strutture essenziali della Chiesa sono state costituite. La relazione tra sinodalità e primato assunse varie forme, le quali possono offrire una guida vitale agli Ortodossi e ai Cattolici nei loro sforzi di restaurare la piena comunione oggi» (n. 7). Di qui la conclusione: «Questa comune eredità di principi teologici, provvisioni canoniche e pratiche liturgiche dal primo millennio costituisce un punto di riferimento necessario e una potente fonte d’ispirazione per entrambi, Cattolici e Ortodossi, mentre cercano di guarire la ferita della loro divisione all’inizio del terzo millennio. Sulla base di questa comune eredità, entrambi devono considerare come primato, sinodalità, e l’interrelazione tra loro può essere concepita ed esercitata oggi e in futuro» (n. 21).
Giungiamo così al documento approvato ad Alessandria lo scorso giugno: Sinodalità e primato nel secondo millennio e oggi. In esso – e non era cosa facile né tantomeno scontata – si perviene a una lettura condivisa (per la prima volta!) della storia della Chiesa in Oriente e in Occidente nel secondo millennio attraverso la chiave ermeneutica del rapporto tra sinodalità e primato, sino a rilanciare il significato decisivo del «ritorno alle fonti» e della strategia del dialogo della carità tra le «Chiese sorelle» promosso, nella scia del Vaticano II, da Papa Paolo VI e dal Patriarca Ecumenico Athenagoras. La Conclusione del documento, con chiarezza, sottolinea che
«la Chiesa non è intesa con proprietà come una piramide, con un primate che governa dall’alto, ma nemmeno come una federazione di Chiese autosufficienti. Il nostro studio storico della sinodalità e del primato nel secondo millennio ha mostrato l’inadeguatezza di entrambe queste visioni. Allo stesso modo è chiaro che per i Cattolici romani la sinodalità non è solo consultiva e per gli Ortodossi il primato non è solo onorifico» (5.1).
In prospettiva, si rileva infine, guardando al futuro, che il Vaticano II ha inaugurato per la Chiesa cattolica la stagione di una più integrale intelligenza della Chiesa come Communio Ecclesiarum alla luce della Trinità, in cui – secondo l’auspicio formulato da Giovanni Paolo II nella Ut unum sint (1995) e più volte ripreso da Papa Francesco – la comprensione e l’esercizio del primato del Vescovo di Roma, da parte cattolica, si aprono a una situazione nuova, mentre, da parte ortodossa, si afferma il riconoscimento che la sinodalità è interdipendente, complementare e inseparabile dal primato anche a livello universale (cf. Chieti, n. 5).
Tale interdipendenza – questo il punto fermo acquisito che costituisce una solida piattaforma di partenza per una nuova fase del dialogo – è «un principio fondamentale nella vita della Chiesa. È intrinsecamente legato al servizio dell’unità della Chiesa a livello locale, regionale e universale. Tuttavia i principi devono essere applicati in contesti storici specifici e il primo millennio offre una guida preziosa per l’applicazione di tale principio (cf. ibid., n. 21). Ciò che si richiede nelle nuove circostanze è una nuova e corretta applicazione dello stesso principio regolatore» (Alessandria, n. 5.4).
Ne consegue – conclude il documento di Alessandria – che «Ortodossi e Cattolici romani sono impegnati a trovare il modo di superare l’alienazione e la separazione che si sono verificate durante il secondo millennio» (n. 5.5).
L’ecumenismo del «come»
A partire da questi significativi risultati del dialogo teologico, s’impone ormai – e sarebbe una resistenza all’agire dello Spirito ogni pregiudizio di pensiero e ogni tattica di comportamento che vi opponesse consapevole ostacolo – una conversione del cuore e della mente, da parte di tutti, in ascolto di «ciò che lo Spirito dice alle Chiese» (cf. Ap 2,7) in sintonia con quanto messo in moto – anche a livello ecumenico – dal processo sinodale in cui Papa Francesco ha convocato la Chiesa cattolica. Già nella Evangelii gaudium egli affermava:
«Sono tante e tanto preziose le cose che ci uniscono! E se realmente crediamo nella libera e generosa azione dello Spirito, quante cose possiamo imparare gli uni dagli altri! Non si tratta solamente di ricevere informazioni sugli altri per conoscerli meglio, ma di raccogliere quello che lo Spirito ha seminato in loro come un dono anche per noi. Solo per fare un esempio, nel dialogo con i fratelli Ortodossi, noi Cattolici abbiamo la possibilità di imparare qualcosa di più sul significato della collegialità episcopale e sulla loro esperienza della sinodalità. Attraverso uno scambio di doni, lo Spirito può condurci sempre di più alla verità e al bene» (n. 246).
È quanto si è sperimentato con gioia e gratitudine, e con promettenti prospettive per il prosieguo del cammino, nella recente prima Sessione dell’Assemblea del Sinodo dei Vescovi. La convinta affermazione di Papa Francesco secondo cui «il cammino della sinodalità, che la Chiesa cattolica sta percorrendo, è e dev’essere ecumenico, così come il cammino ecumenico è sinodale»[6], si sta dunque rivelando assai più di un semplice auspicio: suscitando echi di sincero apprezzamento in tutte le Chiese cristiane e prospettando una praticabile e promettente traiettoria di sviluppo nel cammino verso la piena unità.
Sua Santità il Patriarca Bartolomeo – ispirandomi alle sue parole mi piace concludere –, dal canto suo, nell’intervento già citato a proposito del 60° anniversario del Concilio Vaticano II, ha invitato a puntare lo sguardo, per lasciarsene trasfigurare nel cuore e nella mente, sulla luce che s’irradia nel volto della Chiesa dalla Divina Liturgia e in particolare dalla celebrazione della Santa Eucaristia. La cui centralità anche nella Relazione di Sintesi della prima sessione dell’Assemblea del Sinodo dei Vescovi è richiamata con forza: «L’immagine biblica del banchetto di nozze (Ap 19,9), è emblematica di una Chiesa sinodale e immagine dell’Eucaristia, fonte e culmine della sinodalità, con la Parola di Dio al centro» (1,c).
Scrive dunque il Patriarca Bartolomeo: col Vaticano II, nella Chiesa cattolica la Liturgia
«torna ad essere “opera del popolo” in cui collegio sacerdotale e fedeli formano un solo corpo liturgico, nel quale ciascuno riveste la sua funzione particolare. La centralità dell’Eucarestia, la preghiera comune, le letture bibliche, la concelebrazione, l’utilizzo della lingua viva, la possibilità della comunione nelle due specie, rimandano alle parole di san Giovanni Crisostomo: “Tutta l’Eucaristia è stata offerta una volta e non è mai esaurita. L’Agnello di Dio, sempre mangiato e mai consumato” (In Epist. Ad Hebr., Hom. 17; pg 63, 131). […]; la liturgia è segno di unità tra Dio e l’uomo e tra l’uomo e Dio. In ogni rito della Liturgia troviamo ciò che unisce al di sopra di tutto e per tutto. Il Concilio Vaticano II ha ridato questa centralità alla Liturgia romana; a noi tutti cristiani di oggi, il dovere di operare per ritrovare la nostra unità in quell’unico Pane e in quell’unico Calice, il Cristo “colui che è spezzato e non diviso, sempre mangiato e mai consumato, ma che santifica quelli che ne partecipano” (Divina liturgia di san Giovanni Crisostomo)»[7].
Sì, ritrovare. Questa rinnovata, stupita e grata inventio dell’unità, non è opera nostra: è corrispondenza alla precedenza e al primato dell’azione di grazia della Trinità Santa nel dono dell’Eucaristia che celebriamo e che ci fa uno in Cristo Gesù nella doxa dello Spirito Santo.
Il banchetto è già imbandito: a noi è rivolto l’invito, premuroso e pressante, a prendervi parte rivestiti dell’abito di luce che ci è preparato sin d’ora per le nozze escatologiche dell’Agnello con la Gerusalemme nuova sua Sposa (cfr. Mt 22,1-14; Ap 21, 2.9-10): «Amatevi gli uni gli altri come Io ho amato voi!» (Gv 13,34). Come, non di meno. Come, nella luce e nella forza dello Spirito Santo che è la doxa del Padre e del Figlio in cui siamo fatti uno, Chiesa, secondo il disegno d’amore della Santa Trinità. Non a caso proprio a questo ci esorta Papa Francesco nella Lettera Apostolica Desiderio desideravi sulla formazione liturgica del Popolo di Dio:
«Abbandoniamo le polemiche per ascoltare insieme che cosa lo Spirito dice alla Chiesa, custodiamo la comunione, continuiamo a stupirci per la bellezza della Liturgia. Ci è stata donata la Pasqua, lasciamoci custodire dal desiderio che il Signore continua ad avere di poterla mangiare con noi. Sotto lo sguardo di Maria, Madre della Chiesa» (n. 65).
[1] Cf. H. Rahner, Simboli della Chiesa. L’ecclesiologia dei Padri, tr. it., San Paolo, Cinisello Balsamo 1995; più di recente, cf. R. Ronzani, Mysterium lunae. Pensare e vivere la Chiesa in età patristica e nelle parole di papa Francesco, Nerbini, Firenze 2016.
[2] In «L’Osservatore Romano», 11 ottobre 2022.
[3] Exp. in Prolu. 149,1: PG 55,493; cfr. Papa Francesco, Discorso in occasione della commemorazione del 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo dei Vescovi: AASS 107 (2015), 1142; Patriarca Ecumenico Bartolomeo, Address to the Delegation of the Church of Rome on the Occasion of the Thronal Feast of the Church of Constantinopole, 30 novembre 2022.
[4] Papa Francesco, Videomessaggio in occasione della Plenaria della Pontificia Commissione per l’America Latina, 24-27 maggio 2022.
[5] Cf. il testo di questi documenti sulla pagina del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani (accesso in data 06/11/2016).
[6] Papa Francesco, Discorso a Sua Santità Mar Awa III Catholicos-Patriarca della Chiesa assira dell’Oriente, 19 novembre 2022.
[7] Patriarca Bartolomeo, La via ecumenica è aperta e non potrà più chiudersi, cit.