Un viaggio verso l’unità, aveva detto papa Francesco salutando i giornalisti in aereo, in volo verso Ginevra, abbinando felicemente l’idea di un tragitto geografico con quella di un itinerario ecumenico in atto.
Nel parlare di ecumenismo, ci siamo ormai assuefatti a far ricorso a metafore atmosferiche, per indicare lo stato del cammino di incontro tra le Chiese. Così, negli anni subito dopo il concilio prevaleva l’indicazione, densa di speranze, di una prossima primavera ecumenica, nella sensazione – in effetti diffusa in molti ambienti – che il tempo si stesse mettendo al bello; mentre nell’ultimo decennio, soprattutto dopo la terza Assemblea ecumenica europea di Sibiu (2007), si è fatto luogo comune il riferimento a un autunno, o addirittura ad un inverno, ecumenico, ben distante dal clima conciliare. Peraltro, ora, è legittimo pensare che, quanto meno, stia chiudendosi l’inverno più cupo, e si vada aprendo una stagione primaverile ricca di potenziali ulteriori sviluppi.
Il pellegrinaggio ecumenico di papa Francesco, svoltosi giovedì 21 giugno nella città di Giovanni Calvino, va in effetti in tale direzione, contribuendo a porre al cuore delle identità delle Chiese la loro relazione fraterna.
I 70 anni del CEC
L’occasione dell’evento erano le celebrazioni per il 70° anniversario del Consiglio ecumenico delle Chiese (CEC, o WCC dalle iniziali inglesi), principale raggruppamento di Chiese cristiane su scala mondiale (la Chiesa cattolica, è noto, vi partecipa da osservatrice), apertesi, sempre a Ginevra, nello scorso febbraio. Si tratta dell’organismo più ampio e inclusivo tra le diverse organizzazioni del movimento ecumenico moderno, fondato ad Amsterdam il 22 agosto del 1948 e formato oggi da 348 Chiese membro in 110 paesi del mondo, in rappresentanza di oltre 560 milioni di cristiani.
Esso comprende la maggior parte delle Chiese ortodosse, numerose Chiese protestanti storiche (anglicane, battiste, luterane, metodiste, riformate) e diverse Chiese indipendenti: una comunione di Chiese riunite per promuovere il dialogo e la riconciliazione fra le diverse tradizioni cristiane.
Si noti: i suoi membri fondatori provengono principalmente dall’Europa e dal Nord America, ma oggi la maggior parte dei membri si trova in Africa, Asia, Caraibi, America Latina, Medio Oriente e Oceania.
Per statuto, lo scopo primario del CEC è «chiamarsi gli uni gli altri all’unità visibile in un’unica fede e in un’unica comunione eucaristica». Il CEC è per i suoi membri uno spazio di riflessione, azione, preghiera e impegno comune.
La sua 10ª assemblea si è svolta a Busan, seconda città della Corea del Sud, dal 30 ottobre all’8 novembre 2013, con il motto Dio della vita, guidaci alla pace e alla giustizia: si trattò di un’occasione preziosa per misurare il ruolo cruciale dell’Asia nel panorama geopolitico, in chiave sia economica sia religiosa: si pensi, ad esempio, alla notevole tenuta delle grandi tradizioni spirituali di marca asiatica ma anche all’emergere della terza Chiesa nel quadro di un cristianesimo ormai globale.
Una visita non di cortesia
Ora, la scelta di papa Francesco di recarsi in Svizzera per rendere omaggio al lavoro ecumenico del CEC non è stata senza significati, tutt’altro, rappresentando un riconoscimento al contributo unico che tale organismo ha offerto al moderno movimento ecumenico.
Già il 2 marzo, durante una conferenza stampa congiunta in Vaticano, alla presenza del cardinal Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani, il reverendo Olav Fykse Tveit, pastore luterano e segretario generale del CEC, aveva detto che «la notizia della visita del papa è un segno di come le Chiese cristiane possano affermare la nostra chiamata e missione comune di servire insieme Dio».
E se – come si diceva – fino a pochi anni fa eravamo rassegnati all’inverno ecumenico, lo stesso Tveit, che viene dalla Norvegia, ama dire che nell’inverno non c’è nulla di sbagliato: c’è soltanto bisogno di guanti e vestiti che tengano caldo. E che con Bergoglio e le sue iniziative sta arrivando una nuova primavera (fino a riferirvisi come a «una pietra miliare storica nella ricerca dell’unità dei cristiani e della cooperazione tra le Chiese per un mondo di giustizia e di pace»).
La sua partecipazione, a Lund, alla preghiera per la celebrazione del 5° centenario della Riforma (31 ottobre – 1° novembre 2016) ha molto incoraggiato il movimento ecumenico diffuso:in quel frangente il motto delle celebrazioni, Dal conflitto alla comunione, si è fatto vita.
Certo, recandosi a Ginevra, Bergoglio ha seguito le orme di due suoi predecessori, Paolo VI (10/6/1969) e Giovanni Paolo II (21/6/1984). Tuttavia, non si è trattato di un appuntamento di pura cortesia, bensì del frutto dell’impegno personale del papa per raggiungere l’obiettivo dell’unità dei cristiani. Mentre i viaggi precedenti dei due papi erano stati dedicati anzitutto alla Svizzera e agli uffici ginevrini delle Nazioni Unite in qualità di capi di Stato, Francesco – scegliendo di non visitare alcuna delle agenzie internazionali che vi hanno sede – vi si è recato prima di tutto come capo della Chiesa cattolica, vescovo di Roma e successore di Pietro.
Camminare pregare e lavorare insieme
Il motto della giornata è stato Camminare pregare e lavorare insieme, a riecheggiare il tema adottato dall’ultimo incontro del CEC; ma anche slogan particolarmente caro a Francesco – camminare insieme – che più volte è ricorso a esso per indicare il salto di qualità che, a suo parere, è chiamato a fare il movimento ecumenico nell’odierna stagione storica. E che ha trovato a Ginevra un’altra tappa, per nulla secondaria: come è apparso evidente sin dal discorso papale della mattina, nella cappella nella sede del CEC, destinato a diventare una pietra miliare nella storia del movimento ecumenico.
Francesco ha recitato la preghiera di pentimento e ha ascoltato la lettura di un brano della Lettera ai Galati.
Ed è proprio sulla scorta della situazione dei Galati descritta da Paolo, i quali «sperimentavano travagli e lotte interne e si affrontavano accusandosi vicenda», che il papa ha preso la parola per una puntuale meditazione, indicando cosa significasse per l’apostolo camminare insieme secondo lo Spirito, rigettare la mondanità, scegliere la logica del servizio e progredire nel perdono.
A suo parere, l’ecumenismo potrà progredire solo se, camminando sotto la guida dello Spirito, rifiuterà ogni ripiegamento autoreferenziale. In effetti, nel corso della storia, «le divisioni tra cristiani sono spesso avvenute perché alla radice, nella vita delle comunità, si è infiltrata una mentalità mondana», facendo prevalere i propri interessi: «Prima si alimentavano gli interessi propri, poi quelli di Gesù Cristo». Sì, «stare insieme agli altri, camminare insieme, ma con l’intento di soddisfare qualche interesse di parte. Questa non è la logica dell’apostolo, è quella di Giuda, che camminava insieme a Gesù ma per i suoi affari».
In queste situazioni «il nemico di Dio e dell’uomo ha avuto gioco facile nel separarci, perché la direzione che inseguivamo era quella della carne, non quella dello Spirito. Persino alcuni tentativi del passato di porre fine a tali divisioni sono miseramente falliti, perché ispirati principalmente a logiche mondane».
Camminare secondo lo Spirito – ha dunque ripetuto – significa perciò scegliere con santa ostinazione la via del vangelo, e rifiutare le scorciatoie del mondo. Per progredire nel cammino ecumenico bisogna quindi lavorare in perdita, non pensando a tutelare soltanto «gli interessi delle proprie comunità, spesso saldamente legati ad appartenenze etniche o ad orientamenti consolidati, siano essi maggiormente conservatori o progressisti». È necessario invece «scegliere di essere del Signore prima che di destra o di sinistra, scegliere in nome del Vangelo il fratello anziché se stessi significa spesso, agli occhi del mondo, lavorare in perdita. L’ecumenismo è una grande impresa in perdita. Ma si tratta di perdita evangelica».
La meta è l’unità, mentre la strada contraria, quella della divisione, porta a guerre e distruzioni, oltre a danneggiare «la più santa delle cause: la predicazione del vangelo a ogni creatura».
E «le distanze che esistono non siano scuse – ha concluso con risolutezza Bergoglio –, perché è possibile già ora camminare secondo lo Spirito: pregare, evangelizzare, servire insieme, questo è possibile e gradito a Dio!».
Il diritto di sperare per tutti
Nel pomeriggio, ci si è spostati nella Visser’t Hooft Hall. Qui Tveit ha sottolineato che, per arrivare a questo giorno, molte persone in tutto il mondo hanno pregato e che, con questa visita, è palpabile la dimostrazione che è possibile superare le divisioni e le distanze, così come i profondi conflitti causati dalle diverse tradizioni e convinzioni di fede: «Il mondo in cui viviamo ha un disperato bisogno di segni che ci permettono di riconciliarci e di vivere insieme come un’unica umanità, preoccupata per la vita dell’unica terra, la nostra casa comune. Vediamo così tante cose che potrebbero dividerci, che creano conflitti, violenza e guerre. Anche la religione viene usata in modo improprio per questi scopi. I divari tra ricchi e poveri, tra popoli di gruppi e razze diverse, permangono e addirittura aumentano. Il nostro pianeta viene continuamente sfruttato e distrutto, e la dignità degli esseri umani costantemente attaccata, minando i loro diritti e le loro possibilità di sperare in un futuro migliore insieme in questo mondo. Dobbiamo essere uniti nella speranza di un futuro comune e condiviso per tutti. Abbiamo tutti il diritto di sperare».
Per poi concludere che «non ci fermeremo qui. Continueremo, potremo fare molto di più insieme per coloro che hanno bisogno di noi. Visto che oggi noi condividiamo sempre di più, facciamo in modo che le prossime generazioni possano creare nuove espressioni di unità, giustizia e pace!».
È toccato alla moderatrice del CEC, la teologa anglicana, originaria del Kenya, Agnes Abuom, portare un saluto particolare all’illustre ospite: «Lei è venuto da Roma a Ginevra – ha detto – e ci auguriamo di poter proseguire la nostra strada insieme a lei come compagni di pellegrinaggio: portando conforto a chi soffre, celebrando il dono della vita di Dio e impegnandosi insieme in azioni trasformative che migliorino la vita delle persone ovunque vi sia bisogno di giustizia e di pace». Per poterlo fare davvero, è indispensabile che le Chiese del CEC e la Chiesa cattolica lavorino bene insieme a livello internazionale e locale.
Nel suo discorso la teologa ha ripercorso l’impegno delle Chiese nei vari Paesi del mondo: «Speriamo – ha concluso – che la sua visita segni davvero una nuova fase di cooperazione e di unità cristiana».
Cosa possiamo fare insieme?
Ha ripreso quindi la parola il papa, nel suo secondo discorso, pure assai denso: «Il CEC è nato come strumento di quel movimento ecumenico suscitato da un forte appello alla missione: come possono i cristiani evangelizzare se sono divisi tra loro?».
Tracciando un bilancio dei settant’anni del CEC, Francesco ha espresso un vivo ringraziamento per l’impegno che viene profuso per l’unità, ma anche una preoccupazione derivante dall’impressione che ecumenismo e missione non siano più così strettamente legati come in origine (il riferimento implicito era al Congresso missionario di Edimburgo del 1910, considerato unanimemente l’atto d’avvio del movimento ecumenico).
Infatti, il mandato missionario, che è più della diakonia e della promozione dello sviluppo umano, non può essere dimenticato né svuotato: ne va della nostra identità, e l’annuncio del vangelo fino agli estremi confini è connaturato al nostro essere cristiani. Certo, il modo in cui esercitare la missione varia a seconda di tempi e luoghi e, di fronte alla tentazione, purtroppo ricorrente, di imporsi seguendo logiche mondane, occorre ricordare che la Chiesa di Cristo cresce per attrazione, e non per le nostre idee, strategie o programmi.
Un «nuovo slancio evangelizzatore»: è questo, per il papa, «il tesoro che noi, fragili vasi di creta, dobbiamo offrire a questo nostro mondo amato e tormentato. Se aumenterà la spinta missionaria, aumenterà anche l’unità fra noi».
«Camminare pregare, lavorare insieme». Nella parte centrale del suo secondo discorso ginevrino, Francesco si è soffermato sui tre verbi contenuti nel motto della giornata.
«Camminare in entrata», ha spiegato, rilanciando temi che gli sono particolarmente cari, «per dirigerci costantemente al centro», che è Gesù, e «in uscita», cioè «verso le molteplici periferie esistenziali di oggi, per portare insieme la grazia risanante del vangelo all’umanità sofferente».
Anche nella preghiera, come nel cammino, non possiamo avanzare da soli», ecco il secondo imperativo, «perché la grazia di Dio, più che ritagliarsi a misura di individuo, si diffonde armoniosamente tra i credenti che si amano». «Quando diciamo Padre nostro risuona dentro di noi la nostra figliolanza, ma anche il nostro essere fratelli», l’esempio scelto dal papa: «La preghiera è l’ossigeno dell’ecumenismo. Senza preghiera la comunione diventa asfittica e non avanza, perché impediamo al vento dello Spirito di spingerla in avanti». «Chiediamoci: quanto preghiamo gli uni per gli altri?», l’esortazione in chiave ecumenica: «Il Signore ha pregato perché fossimo una cosa sola: lo imitiamo in questo?».
Infine, «lavorare insieme», ha raccomandato Francesco. «La credibilità del Vangelo è messa alla prova dal modo in cui i cristiani rispondono al grido di quanti, in ogni angolo della terra, sono ingiustamente vittime del tragico aumento di un’esclusione che, generando povertà, fomenta i conflitti».
È la cartina al tornasole dell’ecumenismo, il fatto che i deboli siano sempre più emarginati, senza pane, lavoro e futuro, mentre i ricchi sono sempre di meno e sempre più ricchi: «Sentiamoci interpellati dal pianto di coloro che soffrono, e proviamo compassione», perché «il programma del cristiano è un cuore che vede»: «Chiediamoci allora: che cosa possiamo fare insieme? Se un servizio è possibile, perché non progettarlo e compierlo insieme, cominciando a sperimentare una fraternità più intensa nell’esercizio della carità concreta?».
In relazione all’altro
Al termine della densa giornata ginevrina, conclusasi con una festosa eucaristia celebrata per la Chiesa locale ma anche occasione per toccare con mano la perdurante divisione dei cristiani in tale ambito cruciale e i passi avanti ancora da compiere, non pochi sono apparsi i motivi di consolazione per il popolo del dialogo.
Lo si è colto bene, infatti: procedendo insieme verso la piena unità, i cristiani possono apprezzare al meglio il loro patrimonio comune, e farsi più consapevoli di ciò che già condividono; allo stesso tempo, in tal modo potranno affrontare meglio le differenze ancora da superare, specialmente per quanto riguarda le questioni dottrinali o morali. Un dialogo la cui prospettiva sembrerebbe risiedere nell’unità nella diversità riconciliata, stando all’esortazione Evangelii gaudium (n. 230): fino ad adottare un linguaggio tipico del movimento ecumenico, ecumenismo non come sfera dell’uniformità ma come poliedro, unità con tutte le parti diverse in cui ciascuna ha la sua peculiarità.
Per papa Francesco, dunque, l’identità cristiana non potrà mai essere compresa attraverso la negazione dell’altro, come nella storia delle Chiese è accaduto spesso, ma solo e costantemente in relazione all’altro, colto nella sua irriducibile diversità. Si tratta di un processo centripeto, in controtendenza alle dinamiche vorticosamente centrifughe caratterizzanti questo tempo della globalizzazione, che potrebbe significare molto anche al di fuori dei tradizionali recinti religiosi.
E di una strada – come Francesco ha detto e mostrato concretamente una volta ancora a Ginevra – oggi non è più possibile prescindere.
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