Nei giorni in cui si celebra il Sinodo delle chiese valdesi e metodiste (Torre Pellice, 25-30 agosto 2024), riprendiamo l’intervista con la diacona Alessandra Trotta, moderatora della Tavola valdese, pubblicata a inizio mese dal sito della rivista Riforma in preparazione all’evento.
- Quest’anno il Sinodo si celebra nell’anniversario degli 850 anni del movimento valdese. Che cosa è più affascinante: raccontare all’Italia la storia valdese o riscoprirla per noi?
«Abbiamo sempre pensato alla storia valdese come a un pezzo della storia d’Europa e d’Italia, con particolare riferimento al lungo cammino, costellato di tragedie e di tappe luminose, per l’affermazione dei diritti umani, dei principi di libertà e del pluralismo democratico. Credo davvero che uno dei modi migliori per vivere questo anno speciale sia fare scoprire e riscoprire ogni giorno questo intreccio, non in astratto ma in pratiche quotidiane di espressione della fede e di vita comunitaria in cui possa risuonare, in modo credibile ed efficace per l’oggi, l’annuncio sempre scandaloso della buona notizia dell’amore di Dio di fronte alle fatiche del vivere, alla complessità del mondo, al risentimento degli esclusi, all’orrore delle guerre, alla crescita delle diseguaglianze. E mi sembra di poter dire che le nostre chiese si stanno impegnando a interpretare questo compito con tutti i diversi accenti che la varietà dei contesti locali richiede, senza esaltazioni, ma con serietà, coraggio e creatività».
- L’anno prossimo ricorderemo i 50 anni del Patto d’integrazione: l’unione con le chiese metodiste ha portato all’introduzione dei Circuiti e di un modo di lavorare innovativo, che, insieme ai Distretti, è sotto esame da tempo; è ancora sostenibile una Chiesa con diverse strutture intermedie, in una fase di calo delle presenze? O forse questo sistema non abbiamo ancora imparato a utilizzarlo bene?
«Proprio in questi anni, in cui affrontiamo la riduzione del numero di pastori e pastore da impegnare nel servizio alle chiese, la struttura circuitale – funzionale a una visione ampia della missione della chiesa in un territorio, che incoraggia la collaborazione fra chiese vicine e ministeri diversificati e la messa in comune di risorse e progetti – mostra delle potenzialità in gran parte ancora inattuate, che vanno invece valorizzate e supportate, anche con degli investimenti adeguati in termini di formazione.
Le strutture che chiamiamo “intermedie” sono, d’altra parte, lo strumento con cui la chiesa prova a riflettere e ad agire con un movimento sano dal basso verso l’alto, in un quadro di partecipazione quanto più possibile allargata ai processi decisionali, che è ciò di cui maggiormente si avverte la mancanza anche nella società civile. Queste strutture pesano se si perde la capacità di farle vivere come spazi di reale ascolto, circolazione di idee, confronto.
Da anni ci poniamo giustamente l’interrogativo della sostenibilità di un’organizzazione pensata per una chiesa che negli anni si è indubbiamente ridimensionata, ma che è anche mutata in modo significativo nella sua composizione, diventando per tanti versi più complessa. Dovremo essere capaci di innovare, anche snellendo, ma senza togliere l’ossigeno degli spazi per una partecipazione reale e inclusiva».
- Di fronte ai drammi dell’attualità è importante, per una piccola chiesa come la nostra, il legame con le grandi famiglie internazionali: con che spirito ci dibattiamo tra il dover «pensare in grande» e un giusto richiamo alla concretezza?
«Per una chiesa piccola allenare la capacità di pensare in grande è una necessità, che non è di ostacolo alla concretezza, anzi è garanzia di un’azione veramente concreta, che cioè sa farsi carico con intelligenza e consapevolezza della realtà in cui l’Evangelo incoraggia a piantare semi di contraddizione e trasformazione. Effettivamente dalla partecipazione alle varie reti ecumeniche internazionali in cui le nostre piccole chiese sono impegnate ad offrire un contributo attivo (in genere riconosciuto e apprezzato), riceviamo l’alimento prezioso di uno sguardo che va oltre i confini di un contesto nazionale limitato, che rischia anche di diventare asfittico».
- Guerre, violenze, crisi individuali e baby gang: la società richiede solo interventi nelle difficoltà concrete e quindi nel servizio, o c’è ancora sete di una parola che provenga da un Altrove? Come possiamo far sì che chi incontriamo espliciti una sua eventuale richiesta?
«L’espulsione dall’orizzonte di vita di intere generazioni del “totalmente Altro” (nel senso pregnante in cui Karl Barth si riferisce a Dio) e di una pratica comunitaria significativa, nell’illusoria pretesa di una libertà senza limiti e confini, ha lasciato l’essere umano in un deserto di solitudini angosciose, prigioniero di sé stesso e di una vita in cui non si crede in nulla e nulla sembra avere senso.
In questa condizione il pane di vita che salva dal non-senso non è certamente solo quello materiale, come Gesù ben insegna. Ma penso che non si debba fare nessuno sforzo per intercettare l’interezza delle domande di senso di chi abita intorno a noi, basta avere il coraggio, la pazienza, l’umiltà di vedere e ascoltare, con la consapevolezza del tesoro che custodiamo nei nostri fragilissimi vasi di coccio».
- Due candidati al ministero pastorale di provenienza diversa dal nostro paese: che segnale è per noi?
«È uno dei frutti più belli della realtà sempre più interculturale che le nostre chiese vivono ormai da decenni, nella quale abbiamo investito e continuiamo a investire non poche energie spirituali e materiali, nella convinzione di rispondere anche così, nel modo più coerente e profetico, alla vocazione a essere chiesa di Gesù Cristo oggi. Giovani figli e figlie di percorsi spesso faticosi di immigrazione che, avendo vissuto in prima persona l’esperienza di un’identità arricchita da appartenenze plurime, possono svolgere un ruolo naturale di ponti di comprensione, dialogo, convivenza fra culture, tradizioni, storie diverse, capaci di alimentare, pur in mezzo a tensioni e incertezze, la speranza nel mondo nuovo che l’Evangelo ci fa sognare».
- Dal sito della rivista Riforma, 2 agosto 2024
La Chiesa valdese è piccola, ma ricca di pensiero cristiano. C’è una centralità della Parola e una libertà che non è dato trovare nella Chiesa cattolica. La Chiesa cattolica dovrebbe prendere esempio e cambiare.
Nell’esperienza descritta non trovo grande differenza tra la Chiesa cattolica e la Comunità valdese; aldilà della prassi sacramentale e del concetto di chiesa, mi sembra che lo Spirito permetta soluzioni identiche a problemi comuni.
Da credente non potrei essere più d’accordo!
Da non credente apprezzo molto la Chiesa Valdese per l’apertura mentale e la modernità che la contraddistingue e perché riconosce, giustamente, la piena uguaglianza uomo-donna, consentendo anche alle donne di accedere agli stessi ruoli degli uomini, tutte caratteristiche che la portano avanti anni-luce rispetto all’arretrata, maschilista e discriminatoria chiesa cattolica.