Non sono né uno storico né un teologo di professione, ma un prete cattolico, latino, di nazionalità greca e sono parroco in un’isola delle Cicladi, Tinos, famosa per il santuario mariano che gestisce la Chiesa ortodossa locale. Però mi occupo sia della storia ecclesiastica, sia della teologia, quasi a tempo pieno, per quello che mi rimane dal mio lavoro in parrocchia. Sono stato invitato ad esprimere le mie impressioni sul Santo e grande sinodo recentemente concluso nell’isola di Creta.
Sinceramente, da quanto mi ricordo, (ho cominciato gli studi filosofico-teologici nel 1966 alla Gregoriana) si parlava di questo Sinodo o Concilio della Chiesa ortodossa già da quando era terminato il Concilio Vaticano II. Non so se prima si pensasse a qualcosa di simile. Credo che un concilio ecumenico ortodosso non si potesse pensare prima del XX secolo, ma neanche prima degli anni ’70. L’Ortodossia non è solo troppo divisa per poter preparare un tale concilio, ma non ha risolto nemmeno quei problemi pratici, che sarebbero il primo passo per la convocazione di un’assemblea sinodale di tali dimensioni. È vero che i patriarchi e i metropoliti hanno ereditato la mitra dell’imperatore bizantino, ma lui era uno ed unico (come Dio nei cieli, secondo la concezione medievale sul potere imperiale), mentre loro sono tanti. Ognuno di loro si pensa come suo diretto erede. Infatti, per quanto ne dicano i teologi romano-cattolici, che attribuiscono la convocazione dei primi sette concili, cosiddetti ecumenici, ai papi dell’epoca, era l’imperatore che li convocava, contro il parere di tutti magari, per assicurare la pace e l’integrità del suo impero. Il papa era troppo lontano e generalmente fuori dalla problematica che portava alla convocazione dei concili. Il papa veniva invitato a sostenere con il suo appoggio morale (come patriarca dell’Occidente e come successore di Pietro, cf. concilio di Calcedonia) le decisioni conciliari di natura dogmatica. Generalmente gli imperatori non erano in grado di capire le sofisticate differenze filosofiche e teologiche che dividevano i loro sudditi e questo era un bene perché potevano combinarne una peggio dell’altra.
Nella Chiesa latina, dove il primato papale era stato fondato in modo dogmatico su quello petrino, anche se ci sono state durante il Medioevo, ma pure fino al sec. XIX, le ben note interferenze imperiali e reali (bizantine, franche, germaniche o altre), non si è mai posto seriamente un problema simile, cioè sul diritto di convocazione del concilio. Semmai, hanno creato questioni solo alcuni pretendenti al trono di Roma (antipapi), magari con le migliori intenzioni come è successo nel Concilio di Pisa, ma che presto sono state superate.
Questo preambolo è necessario, perché le Chiese ortodosse, anche se si sentono custodi di tradizioni plurisecolari, non credo abbiano studiato seriamente la questione fondamentale di un concilio generale, per quanto riguarda la sua convocazione. Infatti, anche il sultano ottomano di Costantinopoli (Istanbul) fungeva da garante di un’unità ortodossa, mettendo sotto la giurisdizione del patriarca ecumenico tutte le etnie del suo impero. Cosi, dopo il 1453, si sono svolti parecchi sinodi patriarcali (cioè riunioni dei 4 patriarchi) per decidere su questioni di importanza panortodossa. Me erano sempre in territorio ottomano e tra patriarchi sudditi ottomani, che cercavano vie di autoaffermazione dell’Ortodossia. Il patriarcato delle Russie era stato creato dopo una consultazione simile.
Nemmeno di questo si potrà dire che è male. Quello che è male, a mio parere, è che si è dimostrato nei fatti (contra factum non valet argumentum) che manca una persona che abbia il diritto e la possibilità pratica di convocare un concilio. Ero troppo giovane allora (fine anni ’60) per capire se erano state scherzosamente scritte per l’occasione o seriamente affermate alcune pubblicazioni su riviste o giornali greci (epoca dei colonnelli che avevano abolito la monarchia in Grecia), che discutevano a quale monarca ortodosso spettasse tale convocazione, dopo la destituzione di re Costantino in Grecia e dell’imperatore Hailé Selassié in Etiopia (alcuni lo consideravano eretico monofisita).
Qui non si tratta di avere una posizione di prestigio storico, e nemmeno di essere una personalità di alto prestigio morale. Si tratta di essere capo e poter imporre per lo meno certe cose di massima importanza. Non si tratta, infatti, della questione di decidere in sinodo, ma di giurisdizione. Anche su questo punto si è visto il fallimento della famosa sinodalità ortodossa, dal momento che tutte le Chiese autocefale avevano firmato in comune sia la decisione di riunirsi in sinodo o in concilio, ma anche i temi e i testi-base; e alla fine quattro Chiese di un certo prestigio sono andate per conto loro, ognuna per i suoi motivi che non è il momento di prendere in esame.
Un concilio, e per di più un concilio che aspiri ad essere ecumenico anche nell’ambito dell’Ortodossia, è una cosa molto seria e – come diceva quel tale che «la guerra è una cosa troppo seria per essere affidata ai generali» – è cosa troppo seria per poterlo affidare alla sinodalità.
Non avrei voluto essere nei panni del patriarca Bartolomeo in quei giorni nei quali si aspettava ansiosamente la risposta dei sinodi autocefali se sarebbero venuti o no a Creta. Credo che il patriarca avesse posto la celebrazione di un concilio, che avrebbe avuto l’altisonante titolo di «Santo e grande», come sigilum maximum della sua carriera (intendo: della sua vita spesa a rafforzare il prestigio costantinopolitano) e dei suoi sforzi per poter dare all’Ortodossia un prestigio diverso nel mondo di oggi. In questo contesto rientrano i suoi sforzi ecumenici. Non che i suoi sentimenti e i suoi sforzi non siano sinceramente ecumenici nel vero senso della parola, ma per lui l’ecumenismo pare non essere uno scopo, bensì un mezzo per l’affermazione e il consolidamento del Patriarcato ecumenico nel mondo ortodosso. Ha vissuto accanto al grande Atenagora, e poi ha funzionato da locomotiva per il patriarca Demetrio. Tanti passi difficilissimi verso l’unità ortodossa con l’appoggio e il riconoscimento della Chiesa cattolica-romana e delle altre Chiese occidentali, ma anche di quelle orientali pre-calcedonesi. Con un simile concilio, Santo e grande, sarebbe stata affermata l’unità ortodossa in modo trionfale con gli sforzi di un patriarca a capo di un Patriarcato ecumenico non solo nel titolo, ma riconosciuto universalmente. Su questa onda il patriarca sentiva sulle sue spalle il peso della storia, quella positiva e quella negativa, che veniva redenta dal martirio di molti suoi predecessori. Sarebbe stata una nuova, la seconda Domenica dell’ortodossia, dove non si sarebbe parlato di nuovi dogmi e di nuovi canoni nei testi di Synodikòn, ma avrebbe trovato valore l’affermazione di una unità non fondata sul potere politico, ma sulla sinodalità. Un simile concilio avrebbe potuto dimostrare alla Chiesa cattolico-romana (e non solo, ma anche all’interno dell’Ortodossia) che la Chiesa poteva reggere anche senza un primato, ma solo con la sinodalità.
Mi dispiace veramente che tale affermazione non sia avvenuta. Sono molti quelli che si sono dispiaciuti di come sono andate le cose. Avevano desiderato tantissimo la riuscita di questo concilio, per il bene non solo dell’Ortodossia come testimonianza evangelica nel mondo odierno (cf. Gv 17,21s), ma anche per l’evoluzione dell’ecclesiologia cattolica, teologica e pratica, che sembra stazionaria e senza indicazione alcuna negli ultimi decenni.
Così, la cosiddetta Chiesa dei sette concili ha dimostrato che per il momento continuerà ad essere, chissà per quanto tempo, Chiesa dei sette concili, perché non ci sono importanti presupposti per poter convocare un ottavo concilio.
Sulla famosa unità della Chiesa, che praticamente è stata discussa nel documento sulle relazioni interconfessionali, ritorneremo in una seconda nota.
(Testo raccolto da Francesco Strazzari)
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