La recente costituzione apostolica Veritatis gaudium di papa Francesco sulle Università e Facoltà ecclesiastiche contiene numerosi stimoli molto interessanti per chi lavora nell’ambito della ricerca e dell’insegnamento delle scienze religiose.
Nel proemio di questo documento, infatti, il pontefice chiede che gli studi teologici ecclesiastici siano non solo luoghi di formazione dei presbiteri, delle persone di vita consacrata e dei laici impegnati, ma costituiscano «una sorta di provvidenziale laboratorio culturale in cui la Chiesa fa esercizio dell’interpretazione performativa della realtà che scaturisce dall’evento di Gesù Cristo e che si nutre dei doni della Sapienza e della Scienza di cui lo Spirito Santo arricchisce in varie forme tutto il popolo di Dio: dal sensus fidei fidelium al magistero dei pastori, dal carisma dei profeti a quello dei dottori e dei teologi» (n. 3).
Insomma, come declinato in modo più analitico nel n. 4, si tratta di tradurre le istanze culturali del cristianesimo, vissuto e pensato da tutto il popolo di Dio, in rapporto alle grandi questioni che caratterizzano il nostro tempo nel dialogo con tutte le forme del sapere umano. Soprattutto, poi, il pontefice valorizza il ruolo della teologia per la missione ecclesiale, senza quindi contrapporla alla prassi pastorale, ma vedendola come una dimensione imprescindibile di una Chiesa in uscita (cf. n. 3). In un contesto ecclesiale che non di rado coglie la teologia come poco significativa sul piano pratico, queste parole sono di grande conforto.
Come concretizzare la “Veritatis gaudium”?
La questione che si pone, però, è come concretizzare queste indicazioni così lungimiranti. Occorrerebbe forse identificare dei contesti specifici nei quali provare a realizzare un dialogo più strutturato e fruttuoso tra le scienze religiose, le altre forme del sapere e le questioni aperte che caratterizzano il nostro tempo.
Dal mio punto di vista, il primo ambito a cui ci si dovrebbe volgere è quello del mondo universitario civile. Anche se non rappresenta sicuramente l’unica realtà culturale di rilievo presente nel territorio italiano, e nonostante il fatto che soffra di alcune criticità, come il favoritismo che è alternativo alla meritocrazia, esso resta comunque l’istituzione nazionale di gran lunga più significativa per l’avanzamento del sapere. Ma è possibile un dialogo con questo ambito?
Per cercare una risposta a questo interrogativo, vorrei provare a mettere a confronto il mondo accademico civile italiano con quello ecclesiastico, rappresentato non solo dalle Facoltà teologiche regionali ma anche dagli Istituti superiori di scienze religiose che, proprio recentemente, hanno affrontato un faticoso ma fecondo processo di riordino che li ha portati ad elevare la loro proposta formativa. L’intento, ovviamente, non è quello di sottolineare l’evidente sproporzione di mezzi economici tra le due realtà in esame, ma evidenziare alcune differenze strutturali che possono pregiudicare un dialogo tra di esse, e quindi rendere impraticabili gli auspici di papa Francesco.
Ricerca e didattica
La missione dell’Università si articola in due ambiti distinti, ovvero la ricerca e la didattica. In altre parole, le istituzioni accademiche civili sono caratterizzate dal fatto che l’insegnamento è offerto non semplicemente da specialisti ben preparati, ma da docenti che fanno parte dei tanti “protagonisti” della loro disciplina, perché già prima di iniziare l’attività didattica hanno contribuito allo sviluppo della propria materia attraverso una ricerca originale e recepita favorevolmente dalla comunità scientifica.
Insomma l’università si configura primariamente come luogo di ricerca, e da questa sua identità primaria deriva la sua attività didattica. Senza ricerca non c’è insegnamento universitario. Per questo un corso non è accademico semplicemente per il fatto che la mole di materiale da portare all’esame è particolarmente consistente, ma in quanto è tenuto da un professionista talmente competente nel suo ambito che ha già potuto emergere all’interno della comunità specialistica per la sua ricerca originale.
Questo aspetto rende l’università ben differente dalla scuola media superiore, che è invece incentrata sulla sola funzione didattica. Per questa ragione, come è noto, per diventare docenti universitari occorre superare un concorso nel quale vengono valutate le proprie pubblicazioni originali. Se si viene assunti, si continuerà come ricercatori l’attività di ricerca già intrapresa, anche se parallelamente si potranno tenere dei corsi sotto la supervisione di un docente ordinario.
Ora, non di rado si ha l’impressione che le realtà accademiche ecclesiastiche – gli ISSR, ma anche le Facoltà – si pensino più nella linea caratteristica della scuola superiore che di quella universitaria. Ciò che conta, infatti, sembra essere la didattica, dal momento che i docenti sono cooptati semplicemente per tenere dei corsi. La ricerca finisce per essere un elemento opzionale, quindi del tutto assente, o comunque marginale, come nel caso della pubblicazione di un articolo all’anno, che è il minimo richiesto ai docenti stabili degli ISSR per essere confermati nel loro status.
Non abbandonare la ricerca
Per cominciare ad allineare le istituzioni accademiche ecclesiastiche a quelle civili occorrerebbe che il corpo docente delle prime fosse formato da ricercatori che vengono immessi gradualmente nell’insegnamento solo dopo un congruo tempo di ricerca, cioè dopo aver conseguito il dottorato e con risultati apprezzabili. Questo però significherebbe richiedere questo titolo ad ogni docente, e non solo agli stabili.
Inoltre, il conseguimento del titolo dottorale non dovrebbe rappresentare la fine della ricerca, dal momento che questa dovrà restare prioritaria rispetto all’attività didattica in modo che il docente continui ad essere tra i “protagonisti” della sua disciplina. Solo così il suo insegnamento potrà essere di livello accademico.
Ovviamente, il mondo universitario civile può strutturarsi nel modo indicato perché considera quello del ricercatore assunto un vero e proprio lavoro, cioè un’attività professionale che non può che essere svolta a tempo pieno. È singolare invece che, nell’ambito accademico ecclesiastico, i vari corsi siano affidati a due categorie di docenti, quelli a tempo pieno e quelli che non sono tali, come se la ricerca specialistica, necessaria premessa per la didattica accademica, potesse essere svolta portando avanti contemporaneamente altre attività professionali.
Diventa difficile, però, auspicare che la stabilità dei docenti divenga la norma e che la condizione di non stabilità sia del tutto eccezionale quando gli stessi stabili, che dovrebbero incarnare nel modo più fedele possibile il profilo del professore universitario dedicandosi a tempo pieno alla ricerca e all’insegnamento, non di rado non rientrano affatto in tale condizione.
È risaputo che diverse Facoltà teologiche e soprattutto ISSR annoverano tra i loro stabili dei presbiteri che hanno dei rilevanti impegni pastorali, come l’essere parroci di parrocchie consistenti o vicari episcopali di importanti settori pastorali. La ricerca, però, è un’attività talmente complessa da richiedere una dedizione a tempo pieno. In caso contrario, si rischia di non produrre nulla, oppure di scrivere contributi compilativi e quindi inutili o, peggio, ideologici, perché carenti di un vero confronto con la letteratura esistente.
Qualificare le istituzioni accademiche ecclesiastiche
Queste osservazioni ci fanno comprendere come, nel nostro paese, esista una discrepanza strutturale, prima ancora che di mezzi economici, tra il mondo universitario civile e quello ecclesiastico, e come talora quest’ultimo si attribuisca la qualifica di accademico in modo un po’ troppo sbrigativo.
Ovviamente questo non toglie che singoli docenti di istituzioni ecclesiastiche che hanno tempo e capacità di sviluppare una ricerca originale possano attirare l’interesse dei colleghi che lavorano in ambito civile e quindi riescano a dare vita a dialoghi e a collaborazioni fruttuose.
Quello che l’attuale situazione delle istituzioni ecclesiastiche sembra rendere molto difficoltoso è quel dialogo culturale tra istituzioni – e non semplicemente tra singoli individui – che il documento di papa Francesco sembra auspicare. Se in un ISSR o in una Facoltà i professori che fanno effettivamente ricerca sono percentualmente irrilevanti rispetto all’intero corpo docente, non si può pensare che questa possa realmente interpellare il mondo universitario civile.
La soluzione a questa discrepanza non può essere trovata semplicemente sul piano giuridico. Certo, il tempo pieno dei docenti stabili potrebbe essere tutelato da norme giuridiche più stringenti delle attuali, che tutto sommato sono abbastanza laconiche (cf. n. 29).
Altre normative, poi, potrebbero garantire maggiormente i docenti presbiteri che, purtroppo, sono l’ampia maggioranza di coloro che operano nelle istituzioni ecclesiastiche, in modo che la necessaria obbedienza al loro vescovo non comporti mai l’assumere incarichi pastorali che pregiudichino l’attività di ricerca o che addirittura vanificano lunghi e faticosi anni di studio.
Tuttavia, al di là di un’auspicabile quadro normativo più preciso, occorre prendere atto con grande onestà che il progetto indicato da papa Francesco richiede non solo una grande capacità progettuale, ma soprattutto un impiego estremamente rilevante di risorse umane ed economiche, risorse che però attualmente la nostra Chiesa italiana – al di là di dichiarazioni di principio – preferisce destinare ad altri ambiti pastorali. Anzi, chi lavora nel campo della ricerca e dell’insegnamento delle scienze religiose in Italia spesso deve impegnarsi a legittimare il proprio servizio anche all’interno delle comunità cristiane e delle Chiesa locali, cercando di mostrare come la teologia realmente serva ad una prassi pastorale che intenda evangelizzare e non semplicemente cercare di prolungare le consuetudini religiose delle persone. Forse, però, sarà proprio questa via umile e paziente della persuasione quella che potrà realmente promuovere, seppure in tempi molto lunghi, la visione lungimirante delineata da papa Francesco.
Concordo con quest’ultima affermazione. Aggiungo che vi sono realta’ a mio avviso distorte. Ho conseguito il Magistero in Scienze Religiose tredici anni fa(nel 2005) , non ho mai avuto l’incarico d’insegnamento , con la motivazione (direi geniale della diocesi in cui risiedo) che non puo’ insegnare religione, nelle scuole pubbliche chi svolge qualche attivita’ neanche sospendendo quest’ultima, mentre cio’ viene consentito dallo Stato italiano per qualunque altra disciplina, alla quale si accede attraverso graduatoria, inesistente per l’insegnamento della religione cattolica(almeno per quanto di mia conoscenza)
E’ dalla Breccia di Porta Pia che ci continuano a ripetere la stessa, identica storia: la verità è una sola… I titoli teologici cattolici non verranno MAI riconosciuti a livello giuridico statale italiano e non varranno mai a NULLA a livello civile (se non per insegnare Religione Cattolica nelle scuole)… altrimenti la Teologia potrebbe tranquillamente tornare nelle Università… E questo scatenerebbe in Italia una polemica politica accesissima e scontri ideologici profondi, tanto che qualsiasi tipo di Governo cadrebbe in un batter di ciglia! La società italiana ha subito negli ultimi 30 anni delle trasformazioni culturali e religiose profondissime e il Cattolicesimo non ha più il monopolio culturale religioso. E’ un dato di fatto ma ancora non si vuole prendere atto di questo fatto, per pura convenienza politica. E lo Stato e le istituzioni sono doverosamente laiche.
Ergo: anche la “Laurea Magistrale in Scienze Religiose” (cattolica) non verrà MAI RICONOSCIUTA all’interno dell’ordinamento giuridico italiano. Purtroppo è inutile continuare a raccontare FAVOLE e ad illudere le persone… Lo dico da laureato in Filosofia e “diplomato” in Magistero in Scienze religiose dal 2001. Mi spiace ma è così.