L’invito a «una positiva e prudente educazione sessuale» suggerito dai Padri del Concilio Vaticano II in Gravissimum educationis è stato sviluppato da papa Francesco, nei punti dal 280 al 286 di Amoris laetitia. Ma, concretamente, chi forma i formatori? Secondo quale prospettiva?
Ha provato a farsene carico il convegno «Giovani e sessualità. Sfide, criteri, percorsi educativi», svoltosi all’Università Pontificia Salesiana di Roma dal 1° al 3 marzo 2024. 670 persone, moltissime appartenenti alla famiglia religiosa di don Bosco, si sono confrontate su temi quali l’intreccio tra i fenomeni affettivi e i mutamenti socioculturali, il corpo nella sua valenza simbolica che va oltre il dato biologico, le relazioni tra maschile e femminile, la dinamicità dell’identità di genere e il suo processo di individuazione, nonché la sex and media education per parlare di sessualità con le nuove generazioni. Ha aiutato molto anche la possibilità di porre, in anonimo e in tempo reale, le domande ai relatori.
«I criteri dei nostri percorsi di formazione rischiano di essere impostati in modo molto rigido, caricati di luoghi comuni e timori, e a volte si fa fatica a parlare schiettamente di affettività e sessualità», mi ha condiviso un giovane salesiano, soddisfatto della positività di riflessioni aperte e franche, come quelle emerse al convegno.
È stata l’occasione per presentare il frutto di due anni di ricerche coordinate dall’Ateneo salesiano, che hanno portato alla pubblicazione di cinque volumi, e di presentare il più specifico corso di perfezionamento in Educazione affettiva e sessuale, articolato in tre settimane corte residenziali e due incontri online tra il mese di luglio 2024 e quello dell’anno successivo.
Il consigliere generale per la pastorale giovanile salesiana, don Miguel Ángel García Morcuende, aprendo il convegno, ha richiamato l’esigenza di un approccio sapienziale, empatico, rispettoso, incondizionatamente accogliente, che trasmetta concretezza e calore, in merito alla sfera sessuale. L’umanità di Gesù, con i suoi affetti inseparabili da azioni e parole, ha un valore teologico irrinunciabile, ha sottolineato.
Nella «supersocietà»: tra individualismo consumista e fondamentalismi
Le prime relazioni sono state quelle dei coniugi sociologi Mauro Magatti e Chiara Giaccardi. Per Magatti bisogna avere contezza che siamo una «supersocietà», al tramonto di quella liquida, globalizzante, caratterizzata dall’idea del diritto all’autorealizzazione, perseguibile inseguendo quella crescita economica che avrebbe potuto rendere illimitate le possibilità individuali.
Occorre fare i conti con il fatto che la supersocietà è infrastrutturata in sistemi tecnici rilevanti, sia per quanto riguarda l’ambito della vita biologica, sia per quello della conoscenza. I giovani, davanti ai cancelli spalancati, oggi spesso hanno il problema di non saper dove andare; si finisce paradossalmente per non scegliere, se si pensa che, limitandosi in una sola scelta, si perderebbe la libertà di scegliere.
La dis-affezione conduce all’infedeltà: nella supersocietà è difficile trovare qualcuno che veramente ti voglia bene. La sfida è evitare sia le posizioni ipernichiliste, iperprogressiste, individualiste (e, in fondo, tecnocratiche) sia quelle opposte fondamentaliste, violente e identitarie, facili reazioni di rigidità autoritaria e omologante che si illudono di fermare la disgregazione sociale.
Dal canto suo, Giaccardi ha ripreso il tema dell’individualismo, nelle dimensioni dell’autorealizzazione, dell’ideologia del «non soffrire» e della sovranità dell’io. Le mode omologano e gregarizzano, in un contesto di consumismo, in cui la novità è esaltata, e ciò pure conduce all’infedeltà.
Le relazioni sono nemiche del tecno-capitalismo, in cui i consumi sono potenziati dalle tecnologie (tra le quali si segnalano le app di incontri, la più diffusa delle quali ha 10 milioni di italiani iscritti) mentre la «nuova pedagogia» delle riviste generaliste prescrive relazioni sessuali senza coinvolgimento emotivo. Il lato «soluzionista» della tecnica si candida a risolvere i problemi individuali al di fuori delle relazioni.
La risposta non può tuttavia essere moralistica. Il linguaggio della scienza, per la quale tutto è in relazione, è più comprensibile, e suggerisce che non possiamo realizzarci indipendentemente dagli altri. Nel processo di individuazione, nell’inter-indipendenza, io divento io e chi sono se ho relazioni con l’altro: non so chi sono, ma lo scopro mettendomi in gioco; lo costruisco nel tempo.
Pure l’identità di genere è questione di relazioni: gen- è in sé una radice relazionale, che rimanda non tanto a un binarismo (a differenza delle macchine, l’uomo non è un essere «binario») quanto a una dualità, a una diversità in relazione, per cui ciascuno si riconosce vedendo l’altro. Il linguaggio biografico è altrettanto efficace: ciascuno di noi viene da una relazione, da quella dei nostri genitori e dal cordone ombelicale che ci legava a nostra madre.
Se la relazione in sé è un dato, essa va qualificata in senso generativo, perché faccia fiorire l’altra persona, in controtendenza rispetto all’individualismo che, vedendo l’altro come un estraneo se non un nemico, porta invece a legittimare la violenza.
Corpi oggettificati, frammentati, disorientati
È stata poi la volta dei tre interventi: della filosofa Susy Zanardo (Università Europea di Roma) sulle questioni di genere, del pedagogista Pier Cesare Rivoltella (Università Cattolica di Milano) sull’influsso dei social, e del teologo don Philippe Bordeyne (Preside del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II) sull’atteggiamento della Chiesa.
La professoressa Zanardo, riprendendo criticamente alcune intuizioni del femminismo della differenza e di quello di genere, ha evidenziato come l’identità sessuale sia una tessitura ininterrotta di vita affettiva, corpo, psicobiografia, libertà, e mediazioni simboliche e culturali: è un percorso di individuazione, in costruzione, per diventare sé.
Nel nostro tempo di disorientamento, tra un passato repressivo e un presente che si propone di fare l’opposto, i rapporti tra uomo e donna sono maggiormente paritari; tuttavia ci sono, da un lato, rigurgiti patriarcali e, dall’altro, una liquefazione di ruoli e identità indistinte. Anche il desiderio, stordito dalle pulsioni, può incorrere in due possibilità disfunzionali opposte: la manipolazione aggressiva o l’impotenza.
Ha riflettuto inoltre su come una certa idea distorta di libertà sia funzionale al capitalismo, e danneggi soprattutto le donne: se tu sei interscambiabile, perché uno deve scegliere te e non un’altra persona?
Molte insicurezze si riversano poi sulla corporeità, sino alla non accettazione del corpo o anche solo di alcune sue parti, come nel caso di disturbi alimentari o dell’incongruenza di genere, salvo poi aggrapparsi al corpo come ultimo baluardo di sé. Il 16% dei giovani, in prevalenza ragazze, manifestano problemi legati all’identità.
In tutto ciò, la docente consiglia agli educatori di aiutare i giovani a fare un lavoro su di sé: quanta differenza posso accogliere nel mio «sé poroso» che sia, al tempo stesso, stabile perché possa essere un riferimento?
Dal femminismo possiamo apprendere un sano realismo simbolico, che guardi al corpo e alle sue potenzialità relazionali con prudenza, attenzione, ma pure con gioia e positività.
I media come specchio e tramite di contenuti simbolici
Rivoltella ha ripercorso il rapporto tra la sessualità dei giovani e i media in tre «ondate»: la prima, quella della TV commerciale, caratterizzata da una sessualità stereotipata; la seconda, quella dei dispositivi personali come il telefonino e media «autoriali» come i blog, ha consentito agli utilizzatori di agire (come il sexting, che può nascere nell’intimità ma concludersi drammaticamente nel revenge porn); infine, i social network, che possono favorire l’uscita allo scoperto ma anche la standardizzazione, tra algoritmi che suggeriscono matching e forme standardizzate.
Da Playboy a Onlyfans sono cambiate la società, il senso del pudore e l’accessibilità delle immagini, che lasciano sempre meno spazio alla fantasia; l’immaginario social resta tuttavia ancora maschile.
Tra le altre questioni alle quali ha fatto cenno: gli adulti non parlano di sessualità coi figli; i giovani hanno meno interesse per la sessualità; sui social si potrebbero fare anche esperienze positive di sessualità. Ne evince l’esigenza di una sex and media education che aiuti il soggetto (a partire dagli anziani, principali vittime di truffe sentimentali) a costruire una relazione coi media, che facciano da specchio e da tramite dei contenuti simbolici.
Ha consigliato agli educatori di creare ponti di dialogo con i giovani, favorendo la verbalizzazione, perché possano parlarne liberamente, e di fare attività di glossa, scrivendo quella «parolina ai margini» che susciti nuove riflessioni inaspettate.
Fiducia ai giovani per affrontare l’ambivalenza della sessualità
Philippe Bordeyne si è interrogato su come la Chiesa possa orientarsi e muoversi nel campo ambivalente e complesso della sessualità. L’istituzione ecclesiale, anche se vista come anacronistica e soffocante, non è indifferente ai cambiamenti d’epoca.
Del resto, la Chiesa stessa sta rivedendo il rapporto tra colpa e peccato, troppo sbilanciato sulla sfera sessuale. Un approccio come quello del teologo salesiano Xavier Thévenot, Vita sessuale e vita cristiana. Imparare ad amare (EMP 1986) è ancora valido, perché offre parole semplici alla portata dei giovani.
Occorre ascoltare, accompagnare e dare fiducia ai giovani, perché possano affrontare la paura e le insicurezze legate alla sessualità. Essa reca al suo interno una complessità, ben illustrata dalle storie bibliche che mettono in luce l’ambivalenza della sessualità, tra gioia e aggressività, oggi rilette congiuntamente da teologi morali e biblisti.
Se la parola è troppo semplice non è credibile; avvertiamo il bisogno non di soluzioni preconfezionate, ma di ascolto, di vicinanza, e di una parola di ordine teologico che assomigli a quella biblica.
Siamo un corpo vivente sessuato e simbolico
La mattinata successiva sono intervenuti gli psicologi Elena Canzi (Università Cattolica di Milano) e don Paolo Gambini (Università Salesiana). La prima relatrice ha rimarcato come la persona umana sia originariamente relazione con un altro che la riconosce e se ne prende cura. Fin dal concepimento, con i primi scambi di cellule e ormoni con la madre, è capace di relazione. Insomma, l’identità umana si dà nel fare esperienza di un altro e la dimensione relazionale è connaturata all’umano, incompleto e aperto per natura alle relazioni.
Una relazione, che si sviluppa su tempi lunghi, implica una storia comune e una progettualità; è ben più di un’interazione che si risolve nello scambio di un istante. Inoltre, la persona umana è corpo vivente, attraversato da una dimensione psichica, nell’intreccio unitario mente/corpo: non esiste esperienza biologica senza quella mentale, e viceversa.
Ed è corpo sessuato, sin dalla coppia cromosomica che caratterizza ogni singola sua cellula. Oggi si è esposti alle visioni di un corpo sessuato «de-simbolizzato», considerato come involucro limitante, e di un genere «de-corporizzato», fluido, che si adatta al contesto e ne è condizionato.
La visione alternativa proposta dalla relatrice è considerare il corpo simbolico connesso (in qualche modo, non sempre linearmente, in modo semplice e automatico) al genere incarnato, che non è indifferente al corpo che lo esercita. Noi siamo corpo, che indica anche il nostro limite, il quale è anche ciò che consente il legame con gli altri. Molti disagi sono connessi con la non accettazione del corpo che siamo.
Per la professoressa Canzi vi è anche un differente linguaggio corporeo maschile e femminile, connesso con quello psicologico: tale differente inclinazione sarebbe ineliminabile. Una tendenza alla forza, alla linearità, alla competizione caratterizzerebbe quello maschile, mentre quella al prendersi cura, all’avvolgere, alla cooperazione sarebbe prevalente nel femminile. Lo dimostrerebbe anche la modalità di prendere in braccio un neonato: il maschio lo proietta esternamente verso il mondo, la donna lo accosta al seno sinistro. La funzione psicologica, dunque, sarebbe mentale incarnata. Ha poi insistito sul fatto che lo strumento dell’azione educativa è la relazione.
Anche nei casi di incongruenza di genere, è importante stare con la persona astenendosi dal giudizio, accompagnarla, facendo scendere la mente nel corpo, verso il quale suscitare atteggiamenti di fiducia. Siamo tutti feriti e non possiamo negare il dolore dell’altro, e la persona è libera di scegliere ciò che reputa meglio per sé.
È importante mettersi in ascolto con un atteggiamento di scoperta. Riguardo alla famigerata «ideologia gender», la dottoressa Canzi ha invitato a distinguere la teoria della separazione tra sesso biologico e genere sociale, che può avere una utilità scientifica, dalle ideologie, anche di segno opposto, che hanno un intento manipolatorio. Non intendere la dicotomia maschile/femminile in modo rigido non significa non riconoscere che essa è connessa con il dato sessuale.
Accompagnare la maturazione dell’identità sessuale senza tabù
Paolo Gambini ha invitato a entrare più consapevolmente nelle differenze di genere per essere delicati e rispettosi. Anche la sua prospettiva è relazionale: la sessualità spinge all’incontro, prepara e favorisce relazioni intime, stabili e generative, sino al prendersi cura dei figli propri e di quelli di altri.
Se oggi la società caldeggia una sessualità autoreferenziale, un «turismo relazionale» fatto di relazioni «leggere», come l’identità può rendere le relazioni generative? Gambini è entrato nel tema dell’identità di genere, la percezione unitaria e persistente di sé di essere maschio, femmina o altro, distinta dalla dotazione biologica che va a costituire l’identità sessuata che, tranne i casi di intersessualità, è certa. Il percorso di definizione di identità di genere si sviluppa invece nel confronto sociale, anche con gli stereotipi, un tempo troppo rigidi e oggi troppo indefiniti. Dotazione biologica e dotazione culturale, sulla quale attualmente vi è maggiore enfasi, collaborano entrambe nella costruzione dell’identità.
All’interno dell’identità di genere vanno distinti: il sesso biologico; il ruolo di genere, che è la manifestazione esterna dell’identità; l’orientamento sessuale, che è l’attrazione verso il genere del partner. La maturità – ha chiarito – non dipende dal tipo di genere né dall’orientamento sessuale, ma piuttosto è la sicurezza della persona nel definire la propria identità, anche a costo di subire pressioni sociali avverse.
Tutti fatichiamo nella definizione del nostro sé. Un vero problema che può insorgere è la cosiddetta omofobia interiorizzata, quando una persona omosessuale ha fatto proprio il giudizio negativo sull’orientamento sessuale e non accetta il proprio.
Ciascuno va accompagnato con serenità nel percorso di scoperta della propria identità per evitare traumi: alcune tappe, in una prospettiva socio-evolutiva, sono normalissime. Si va dai bambini che tra gli 8 e i 10 mesi iniziano l’esplorazione del proprio corpo e dei propri genitali, per poi confrontarli a 2 anni con quelli dei genitori, sino al «gioco del dottore» tra pari, per nulla pericoloso, attorno ai 5 anni. Vi è poi la fase puberale tra i 10 e i 12 anni, in cui l’adolescente si domanda cosa fare del proprio corpo sessuato, e cosa sia normale, anche in merito alle dimensioni del proprio pene o seno. Qui la masturbazione ha un’utilità positiva, perché la fantasia consente di entrare nella relazione. In età adolescenziale sono possibili esperienze omosessuali: spesso vissute senza coinvolgimento affettivo, e con interesse eterosessuale; in tali contesti l’invito dell’educatore dovrebbe essere quello a sperimentare, conoscersi e capirsi. Altre, invece, implicano anche un innamoramento, più definito affettivamente, ma anche in tali casi è consigliabile rassicurare il ragazzo e attendere la fine dell’adolescenza affinché si delinei più chiaramente.
Esiste un’omosessualità latente in alcuni soggetti che negano di esserlo, ma che magari lo proiettano circondandosi di persone omosessuali. Chi invece si interroga continuamente sul proprio orientamento può essere, più che omosessuale, affetto da un’ossessione. Le persone gay effeminate e lesbiche mascoline sono una minoranza: è uno stereotipo legato all’omosessualità. A ogni modo non sono note le cause dell’orientamento sessuale, per la quale concorrono vari fattori; non è qualcosa che un individuo si dà, bensì lo si scopre dentro di sé, soprattutto tra i 15 e i 18 anni.
Nel caso dell’omosessualità – che non è una malattia, ma una variante della sessualità umana – è una scoperta sofferta, che implica una crisi di identità e meccanismi di difesa: è importante giungere al coming out quale fase finale di tale scoperta.
Il professor Gambini ha espresso la sua chiara contrarietà, che si aggiunge a quella della comunità scientifica, alle terapie «riparative» inefficaci e dannose; una terapia può essere invece possibile per superare l’omofobia interiorizzata e accettare la propria omosessualità.
Riguardo le «teorie del gender», vanno apprezzate nella misura in cui combattono omofobia e stereotipi di genere e aiutano a stabilire un rapporto paritario e non omologante tra i diversi generi, che sono già entrambi parte di noi. In ciascuno di noi c’è del maschile e del femminile; il relatore ha affermato che, nel suo caso, la propria «femminilità» si manifesta nella dimensione di cura che ha nell’essere psicologo e prete.
I punti deboli delle teorie del gender sarebbero la negazione dell’identità sessuata e la fluidità, che può portare a insicurezza e incapacità di progettare la propria esperienza. Ad ogni modo, Gambini considera positivo che persone omosessuali scelgano la vita consacrata nella misura in cui si impegnano a contenere la propria genitalità, come richiesto del resto anche agli eterosessuali: occorre chiedere a omosessuali e a eterosessuali le stesse cose. Nella vita religiosa è possibile scoprire la propria omosessualità anche dopo la consacrazione o l’ordinazione: occorre imparare ad accettare ciò che siamo, per vivere con più profondità il Vangelo.
Una persona che ha fatto un lavoro su di sé per integrare il proprio orientamento sessuale sa cosa appartiene a sé e cosa può dare agli altri; pertanto, se è in retta coscienza, può fare benissimo l’educatore. Educhiamo i giovani a vivere un’esperienza affettiva relazionale profonda, di rispetto reciproco, emozioni, empatia (sentire l’altro) e assertività (poter scegliere in coscienza); non raccontiamo storie che non viviamo.
Africa: sessualità come dono di Dio per generare la vita
Nel pomeriggio ogni partecipante ha avuto la possibilità di seguire due laboratori tematici, che spaziavano dalla sessualità nelle serie TV all’estetica del corpo, dalle convivenze ai social media. Il professor don Staffen Yhanil Cheysnel Nkodia, originario della Repubblica del Congo e docente all’Istituto Giovanni Paolo II, ha illustrato il tema della sessualità giovanile nella cultura africana. Essa lega strettamente la sessualità con il sacro e la vita: la sessualità è il dono ricevuto da Dio per generare la vita, perpetuando così il clan e la comunità.
L’uomo in Africa è rispettato se è virile, e di qui anche la forte contrarietà di molte famiglie africane ad avere figli preti o suore. Inoltre, sono diffuse pratiche tradizionali per prevenire e curare la sterilità, male che porta alla morte sociale, stimolando di converso la fecondità e la virilità, forza vitale che comunica la vita.
Seguendo Xavier Thévenot, occorre un discernimento etico per un’educazione umanizzante. Ferdinand Ezembé invece è un autore che, con un’archeologia della sessualità e dell’educazione applicata al bambino africano, vuole evitare la negazione repressiva dell’identità culturale dell’Africa.
Essa ha cinque punti da rispettare: il divieto di rapporti sessuali durante le mestruazioni, con l’impurità connessa; l’astinenza post-partum, considerata indispensabile per la qualità del latte della madre; il divieto dell’incesto, con eccezioni per ragioni demografiche o patrimoniali; il divieto di omosessualità e bisessualità nei paesi con una cultura molto tradizionale; il divieto di prostituzione degradante, salvo casi autorizzati per generare figli.
Nei libri di Emmanuel Vangu Vangu troviamo una teologia della liberazione dell’integrazione comunitaria, che sottolinea la dimensione sociale della sessualità africana, che prevede un modello di iniziazione strutturato dalle scuole tradizionali di apprendimento.
In Africa la sessualità è questione comunitaria, che coinvolge dapprima le famiglie e poi le scuole tradizionali (mbongui): ciò che fai del tuo corpo ha conseguenze anche sugli altri, dato che i figli entrano nella società. Esistono anche pratiche esecrabili, come l’escissione, la quale non solo come la circoncisione maschile servirebbe per togliere l’ambiguità sessuale, ma anche per reprimere in modo maschilista il piacere femminile. Occorre dunque un discernimento etico alla luce del Vangelo, per evangelizzare e purificare la fonte, con il coraggio di denunciare ciò che è male.
La colonizzazione occidentale ha inoculato negli africani il senso del pudore, mentre un tempo in famiglia si parlava liberamente di sessualità e persino di massaggi erotici: l’Africano va liberato dell’eccesso di pudore, perché parli fuori dalla gabbia della vergogna. Gli africani immigrati in Occidente hanno tanti complessi, e vanno accompagnati a uscire dalla paura, eventualmente anche con un aiuto psicologico. La poligamia in Africa è questione culturale, di ricchezza, e anche di manodopera.
Sull’omosessualità, in Africa diffusa anche tra preti, il relatore ha ammesso di aver cambiato prospettiva. Un tempo era molto rigido, ma nella pratica pastorale ha cambiato il suo sguardo. Per lui è importante rispondere alla domanda se si nasca o se si diventa omosessuali, o meglio, se sia una scelta oppure no. Nel dialogo aperto e schietto con la persona omosessuale si scopre come vive, che sofferenza la abita, partendo dal punto che Dio ama l’omosessuale (anche se forse, a suo dire, non la pratica omosessuale).
Tra i testi suggeriti dal docente: Xavier Thévenot, Sempre mio figlio. Omosessualità in famiglia (Paoline 2004) e Philippe Ariño, Omosessualità controcorrente (Effatà 2014).
Può essere una scelta quella omosessuale, che rende la vita più difficile di quella eterosessuale? La Chiesa un tempo negava i funerali ai suicidi, ora non più: con il tempo, le cose possono cambiare. Riecheggiando papa Francesco: chi sono io per condannare? Con equilibrio e tolleranza, nella consapevolezza che anche le persone eterosessuali peccano, la sensibilità pastorale potrebbe anche portare a una ridefinizione di cosa sia una coppia, ha affermato, includendo anche due persone dello stesso sesso.
Identità e orientamento sessuale nella maturità psicoaffettiva
Alla psicologa e psicoterapeuta Chiara D’Urbano, consultrice del Dicastero per il Clero, è stato affidato il laboratorio L’accompagnamento delle persone LGBT nella Chiesa, ma soprattutto quello di operare una chiarezza concettuale. L’acronimo LGBT (al quale si aggiungono le identità QIA+) mette insieme sensibilità diverse; tutte le riflessioni sono da declinare nelle situazioni concrete: sono persone a noi vicine, con i loro volti, storie e vissuti. Esse sollecitano l’affinamento del nostro linguaggio, per non ferire senza volerlo.
La dottoressa D’Urbano si pone come psicologa cristiana, che intende mettere in dialogo l’antropologia cristiana con lo stato attuale della ricerca scientifica, che è il riferimento condiviso, benché non sia esente da pressioni ideologiche.
Dal punto di vista terminologico, il sesso fenotipico manifesta le caratteristiche geneticamente (genotipo) e biologicamente determinate; il genere riguarda il costrutto psicologico, oltre al ruolo pubblico socioculturale; l’identità di genere è la percezione sessuata dell’individuo, che si può identificare come maschio, femmina, fluido o indeterminato.
La persona transgender ha una identità di genere che non si riconosce in quello assegnato alla nascita, mentre la persona transessuale desidera, sta attuando, oppure ha attuato la transizione. Secondo i criteri dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (ICD-11) la varianza di genere non è più da considerarsi patologica, a meno che non sia la persona a vivere l’incongruenza tra genere esperito e quello assegnato alla nascita come un problema, e che tale sofferenza non sia dovuta allo stigma sociale. Infine, l’orientamento sessuale è l’attrazione romantica (e sessuale) di una persona nei confronti del proprio sesso, per quello opposto o per entrambi, ed è trasversale alle dimensioni precedenti.
Va chiarito che l’omoaffettività non è una scelta, ma ha un’origine multifattoriale, non scomponibile nei singoli fattori genetici, ambientali e relazionali che possono incidere su di essa, né tantomeno per tentare di «ripararli»: le terapie «riparative» sono una grave violazione della deontologia degli psicologi. Anche perché l’omosessualità in sé non è una patologia, ma una variante dell’orientamento sessuale, secondo tutte le più accreditate istituzioni scientifiche internazionali.
Ciò non significa che non si possa riflettere su di sé per capire chi siamo, anche perché può essere una parte significativa della persona e la sua serena integrazione rientra all’interno del quadro più ampio della maturità psicoaffettiva. Come funziona la persona? Che rapporto ha con gli altri, con gli affetti, con il denaro, con il potere, con l’autorità? Sa collaborare, mettendosi in gioco? Fa del suo orientamento sessuale una battaglia, magari volgare e scandalistica? Quanto tale aspetto è integrato nel tutto della sua persona? Questi sono i punti ai quali rispondere quando ci si domanda se una persona possa fare l’educatore o proseguire nel cammino vocazionale.
L’obiettivo è il benessere, la consapevolezza e la felicità della persona, affinché possa sentirsi a casa, cioè trovare il proprio posto nella vita e nella Chiesa, in quella «versione migliore di sé» che fa dilatare il cuore, rendendolo propositivo e progettuale. Come consiglia papa Francesco, occorre cercare il «bene possibile», ponendo attenzione sia alla maturità della singola persona, sia dell’ambiente in cui è inserita.
Per questo è importante riflettere su come accompagnare le persone LGBT, mettendole in condizione di aprirsi in uno spazio di ascolto libero in cui non si è giudicati, per abbattere pregiudizi e paure: è bene far arrivare alla persona il messaggio che vogliamo conoscere e capire, e non giudicare, perché abbiamo a cuore il bene della persona: sarà lei a indicarci poi la strada.
L’educatore, nel caso, può domandarle cosa essa desideri, e cosa si immagini per il futuro, accompagnando i suoi passi, offrendo strumenti e tempo perché sia poi essa a giungere a una decisione ponderata, responsabile e non affrettata, anche se fosse diversa da quella da noi auspicata: lavoriamo su noi stessi per non imporre il nostro punto di vista. Teniamo conto dei processi e favoriamo un approccio rasserenante di accompagnamento.
Ad ogni modo, non solo una persona LGBT può essere un buon prete, religioso o religiosa ma, come ha suggerito don Alberto Goia, delegato per la Pastorale giovanile salesiana del Piemonte, persino un «santo».
Educazione affettiva e digitale per essere basi sicure per gli adolescenti
L’ultima mattinata, domenica 3 marzo, è stata dedicata alle conclusioni, precedute dall’intervento di Alberto Pellai, che si è focalizzato sulla sessualità degli adolescenti. Spesso gli adulti attendono che su questo tema siano i ragazzi a fare domande, e finiscono per non riceverne. Per poterne parlare occorre innanzitutto avere un’idea sana, vitale, positiva della sessualità: essere persone risolte, con il proprio baricentro personale, senza minimizzare o enfatizzare.
Di fronte alle pressioni sociali – a fenomeni quali la pornografia online, il sexting, il grooming e la sessualizzazione precoce soprattutto delle bambine, che in un secolo e mezzo hanno anticipato il menarca di almeno 4 anni – i giovani meritano di trovare negli adulti un’autorevole «base sicura» che li sappia tranquillizzare, proteggere e aiutare a dare un significato al loro vissuto affettivo.
In parallelo al «curriculum ufficiale» delle istituzioni educative che raramente educano a usare il pensiero critico sulla sessualità, è infatti prepotentemente in azione un «curriculum parallelo» che entra nella vita degli adolescenti attraverso i media, soprattutto online. Autorevoli studiosi rilevano che sta divenendo un problema globale di salute mentale.
Il professor Pellai caldeggia quindi una sexual and media education che, congiungendo l’educazione affettiva e quella digitale, accompagni la crescita e le competenze per la vita (approccio skill based) dei ragazzi, anche dal punto di vista celebrale. La corteccia prefrontale, deputata alla costruzione del senso e del significato delle esperienze, si sviluppa tardivamente rispetto alla parte del cervello «rettiliana» che reagisce per sopravvivere, e a quella «emotiva» del sistema limbico, che afferisce al sentire, all’eccitazione e al piacere.
Molti genitori si ritrovano disorientati di fronte a preadolescenti che, da un lato, giocano tranquillamente a nascondino e a calcetto e, dall’altro, si scambiano materiale pornografico, talvolta violento, sui propri smartphone. Se si verificano casi di un «falso sé» precocemente sessualizzato in varie ragazze, è altrettanto importante rivolgere un’attenzione all’educazione emotiva, affettiva e sessuale dei maschi.
Alcuni approcci fecondi sono i cineforum, che vedono genitori e figli a confrontarsi sulle storie viste insieme, e i patti digitali di comunità, nei quali gli adulti si impegnano a un uso responsabile dei dispositivi digitali, evitando di affidarli a minori di 14 anni.
Leggere insieme la complessità della sfera affettiva
Tirando le conclusioni, il rettore della Salesiana don Andrea Bozzolo ha indicato cinque punti di sintesi.
Il primo è quello di non isolare il fenomeno affettivo dai cambiamenti socioculturali in cui è inserito, per evitare giudizi moralistici; un’umile educazione integrale, attenta a valorizzare il bene dei diversi contesti culturali, religiosi e geografici, sempre più ravvicinati, è doverosa. Così come è importante non assumere la nostra epoca come quella in cui finalmente capiamo le cose, perché vi è da imparare anche dalle tradizioni e dalle storie antiche.
Un secondo punto riguarda la potenza simbolica del corpo: non è solamente il dato grezzo di un organismo (sex senza gender), né una libertà disincarnata (gender senza sex), ma un intreccio simbolico, e persino sacramentale. Il corpo sporge oltre di sé, porta significati, che non possono essere interpretati da una sola disciplina isolata, che sia l’anatomia, la psicologia o la spiritualità: l’ascolto reciproco tra tutti i saperi concorre a un arricchimento.
Il terzo punto è il rapporto uomo/donna come luogo di decifrazione. In altre parole, maschile e femminile non si possono capire in sé, ma solamente insieme, nella loro reciprocità: qualcosa di noi ci è restituito dagli altri, e ciò vale anche per le persone consacrate. Qui rientra la struttura drammatica della relazione, abitata dal Mistero, e la logica generativa degli affetti, per contrastare quella individualistica dell’autorealizzazione.
Quarto punto: il carattere dinamico dell’identità di genere, vale a dire la complessità delle vicende personali che meritano tutto il nostro rispetto, benché talvolta bloccate da stereotipi rigidi, oppure confuse da stereotipi indefiniti. Sono, invece, i modelli maturi a liberare: ascoltiamo dove conducono gli affetti per non far esplodere né implodere il desiderio.
Infine, il quinto punto riguarda l’approccio narrativo. Ad esso pertiene la ricerca di parole che riflettano la complessità del reale, che si interroghino su cosa, come, quando dire, anziché offrire ricette semplicistiche e poco credibili agli occhi del mondo di oggi. Usciranno attraverso un lavoro su di sé, per non essere spaventati, attraverso la sex and media education, e senza rinunciare al riferimento della Bibbia, che contiene storie intramontabili di affetti umani in cui abita Dio.
Effettivamente “Maschio e femmina lì creò” è retaggio di un oscuro e desueto passato. Duro a morire anche in una Chiesa che rincorre il mondo con sempre più solerzia.
Dio creo l’uomo e la donna a sua immagine. Quindi Dio è maschio e femmina insieme. L’inventore del gender è proprio chi meno te l’aspetti non trova?
Dio non è “maschio e femmina insieme”, maschio e femmina appartengono al Creato. Dio è Dio e maschio e femmina rappresentano la complementarità che porta, attraverso il Matrimonio, al compimento di ogni persona. Per questo non è possibile una visione della sessualità al di là di quella naturale, perché senza di essa viene meno la comprensione di Dio e anche di noi stessi.
Con questo rispondo sia a lei che al sig. Claudio sopra. Sarebbe retaggio di un “oscuro e desueto passato” ciò che rende intelligibile non solo la nostra realtà ma anche le cose divine? La stessa Chiesa è rapportata a Dio utilizzando il linguaggio del Matrimonio.
Quindi, secondo lei, lasciando perdere per un momento la sessualità, spesso confusa maldestramente con la genitalità, chi non fosse sposato o chi per mille motivi non avesse procreato o non fosse stato in grado di farlo per fattori fisiologici, sarebbe al di fuori del rapporto con Dio o di una qualche forma di comprensione dello stesso? Strano, mi verrebbe da dire, soprattutto considerato che i maggiorni “esperti” del Dio cristiano cattolico sono teoricamente sollevati dalla questione, ovvero non si sposano e non utilizzano la loro genitalità né a fine procreativo, tanto meno “ludico”. Strani ragionamenti, senza filo logico; anzi no: la logica è quella di continuare a ripetere le cose illogiche ed insostenibili che stanno determinando la conclusione del “progetto Chiesa”.
Non ho mai parlato di procreazione né di rapporto personale con Dio, solo di Matrimonio e di comprensione di Dio e della Chiesa. Esistono anche i Matriminoni giuseppini! Inoltre i non sposati non sono esclusi dalla partecipazione al Matrimonio (altrui), al più lo vivono in modo diverso (come figli in primis, se possibile, ma anche nelle loro relazioni). Non è affatto illogico ciò che ho detto ma segue l’unica logica possibile, la filosofia naturale. E’ l’unica possibile perché viviamo in un determinato mondo soggetto a determinate leggi che non possiamo trascurare. Io non ho parlato di celibato ma ritengo che con la Grazia di Dio possa sopperire alla mancanza di un Matrimonio senza però cancellarla, motivo per cui un celibe sarà sempre in qualche modo incompleto e dovrà contare su Dio in modo più radicale. Se così non fosse, che rinuncia sarebbe il celibato?
Inoltre mi pare che le religioni cosiddette progressiste stiano perdendo più fedeli delle altre. Quindi, quando lei parla della conclusione del “progetto Chiesa”, a cosa si riferisce? Il progetto che è forse giunto al suo termine è proprio quello modernista, che è infecondo per la sua stessa natura individualista.
Bell’articolo. Io credo che la teoria gender sia un invenzione dei preti nata pescando fra gli studi di genere (ben altra cosa) e rari comportamenti estremistici di alcuni divi dello spettacolo ma che ben poco hanno a che fare con la vita quotidiana delle persone. In effetti è stato uno strumento valido per bloccare quasiasi avanzamento sociale per le persone LGBTQ+. Tutto questo fino a papa Francesco che ha cominciato a distinguere fra teoria gender e omosessulità. Cioè finalmente i diritti dei gay non sono teoria gender. Detto questo l’articolo è bello e finalmente afferma che un prete può essere gay o etero basta che sappia mantenere la castità che promette nel prendere i voti. Di questo ne sono sempre stato convinto fa piacere vederlo scritto e pubblicato qui. Anche un prete gay può essere un bravissimo prete fino alla santità.
…Sempre ricordando che non esistono “i gay” ma piuttosto _persone_ che provano un’attrazione per lo stesso sesso.
Gay è la parola che la comunità LGBTQ+ utilizza per identificarsi. Come può dire che i gay non esistono? Se si vuole essere inclusivi e non semplicemente gentili (forse) occorre usare le parole giuste, quelle identificative e gay è una di queste. Rispettiamo le parole identificative di questa comunità per favore.