Giovani, metodo e follia

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importante mettere a fuoco la questione del metodoIo mi sono iscritto a Ingegneria Elettronica nel 2002. Era già – da un paio d’anni – quello che veniva chiamato “nuovo ordinamento”, a.k.a. “trepiùdue”. Mentre facevo la triennale ero convinto che stavo costruendo il mio futuro e mi stavo professionalmente definendo in maniera precisa; sentivo crescere giorno dopo giorno lo spessore e la qualità delle mie competenze. No, sono balle. La verità è che facevo l’università perché non sapevo ancora bene cosa volevo fare.

Sembra paradossale. Crediamo che l’università e gli studi in generale siano ciò che ci permette di acquisire un’identità più precisa e che quindi siano giuste le lamentele (spesso silenziose) degli studenti, incastrati in uno status che non sa né di carne né di pesce, intrappolati in una sorta di accademico già e non ancora. Questo stato d’animo è comunissimo e si può riscontrare dappertutto. Eppure, al tempo stesso, proprio quel vituperato status di studente è ciò che fa molto comodo, perché oggi consente di procrastinare la costruzione della propria identità di qualche anno. Mi è capitato più di una volta di sentire qualche giovane che, finita la maturità, interrogato sulle sue intenzioni future, mi ha risposto così: “Mah… ora mi iscrivo all’università, poi vediamo…”.

Tra l’incudine e il martello

Oggi più che nel passato gli studi rischiano di divenire una “foglia di fico” per coprire una costruzione umana pienamente work in progress: lo studio rischia di divenire una bella imbiancata su un muro che ha invece bisogno di rifare l’intonaco.

Non possiamo semplicemente risolvere il problema dicendo che “i giovani oggi non hanno voglia di lavorare”. È necessario essere onesti e riconoscere che le fasce più giovani sono intrappolate in un controsenso logico di dimensioni globali. Da un lato viene loro detto che le competenze – e solo quelle – sono utili per definire sé stessi da un punto di vista personale, sociale e professionale; dall’altro, all’atto pratico, non è affatto così. “Hai finito l’università! Complimenti!” dico ad una ragazza neodottoressa. “Sì, ora potrò essere disoccupata laureata” risponde lei con ironia (e preoccupazione).

Tra l’incudine e il martello, i giovani si sentono spinti ad individuare un metodo di studio, che poi risulta poco utile, ai fini della costruzione delle persone che sono e che vogliono essere. In fondo, un semplice metodo per studiare non è difficile trovarlo e così la scelta dell’università diviene, paradossalmente, una facile scappatoia.

Il metodo

Forse oggi possiamo dire qualcosa da un punto di vista pastorale. In primo luogo, provando a decentrare l’attività pastorale dalla semplice preparazione ai sacramenti. In troppe parrocchie non esiste un “gruppo maggiorenni” o qualche proposta di percorso per chi ha finito le superiori. Sono ragazzi che spesso si sentono “usati” per altri servizi pastorali, ricevendo l’offerta di fare gli animatori/educatori, ma a cui poco viene offerto in termini di crescita personale e di gruppo. In secondo luogo, per gli studenti universitari, è importante mettere a fuoco la questione del metodo, allargando la sua portata e non intendendolo solo per acquisire competenze tecniche, ma anche per crescere umanamente. Non serve trovare un metodo di studio, ma un metodo per vivere da studente. In fondo, si tratta di rispettare il senso delle parole: metodo deriva dal greco methodòs, cioè “cammino”, “in mezzo alla strada”. Avere del metodo significa quindi riconoscere che tutto ciò che facciamo costituisce un passo in più per la propria crescita. Questa consapevolezza non è frutto di qualche esame o compito in classe, ma è un’arte, che si impara acquisendo quel prezioso equilibrio tra disciplina e creatività, tra regole d’azione e libertà di fantasia.

Come diceva Steve Jobs, i giovani possono essere “affamati e folli” e questo è il loro bello. Aiutarli ad individuare un metodo – una regola? – nella propria vita non significa spegnere tale preziosa caratteristica, ma trovare un modo per incanalare questa intraprendenza in ciò che serve davvero, che costruisce e che crea bellezza. Non sarebbe male constatare, con Shakespeare, che “c’è del metodo in queta follia”.

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