Un omaggio
La recente morte del grande sociologo Z. Bauman, padre dell’idea della società liquida, mi spinge a evocare alcuni caratteri di una pastorale “liquida”, che si potevano intuire uno o due decenni fa, e di cui oggi forse conviene prendere atto.
Due esperienze
È di questi giorni la notizia che il vescovo di Modena ha acceso una nuova febbre del sabato sera, con l’iniziativa Voi dunque pregate così: molti giovani si radunano in una parrocchia della diocesi in un clima di preghiera e di riflessione non troppo strutturato, alla fine del quale il vescovo risponde informalmente alle domande che la serata ha suscitato ai ragazzi.
Chi ha la fortuna di conoscerlo, potrebbe pensare che il gradimento di questa iniziativa sia dovuto anche alle qualità umane e spirituali di don Erio (come si fa chiamare lui), il che è senz’altro vero, ma dobbiamo comunque cogliere gli spunti pastorali che vengono da questa esperienza. Il confronto con un appuntamento significativo della diocesi di Bologna può confermarci in alcune direttrici.
In anni passati, si ricorda non senza nostalgia una cattedrale stracolma di giovani il sabato sera, per le veglie di avvento e quaresima, in un appuntamento che, fino a qualche anno fa, è stato memoria collettiva.
La ricetta non era molto diversa. Si veniva a pregare insieme, si diceva qualche salmo (ma non l’Ufficio delle Letture), si imparava qualche canto bello e, dopo, si ascoltava l’omelia di qualche prete della diocesi, sempre diverso, dotato del dono della predicazione. Alla fine capitava che i giovani si intrattenessero anche a lungo per scambiare due chiacchiere, prima di continuare la serata in un locale o al cinema.
Ricordo il me quindicenne che si organizzava con gli amici e gli educatori del gruppo per partecipare a questo rito collettivo. Erano i miei primi approcci ad un’esperienza ecclesiale che non fosse solo quella della parrocchia.
In seguito, le cose cambiarono e non fortuitamente. La linea divenne che si doveva pregare con l’Ufficio vigiliare, si cominciò a riportare i canti nei ranghi di un presunto direttorio e la predicazione fu affidata solo ai vescovi (titolare e ausiliari) della diocesi. A questo seguì il micidiale spegnimento delle luci, per impedire che i giovani sostassero in chiesa dopo la preghiera. Infine, accanto a qualche strafalcione predicativo che avrebbe meritato una sommossa, arrivarono le sgridate, perché non si doveva venire alla veglia con l’intenzione o la scusa di andare al pub dopo.
Così la cattedrale si svuotò di giovani. Poi si svuotò e basta. Si scese in cripta. E chi scrive, adesso, non sa più se continui ad esserci qualcosa di simile.
Da questo racconto e confronto tra le due esperienze, raccolgo due spunti pastorali, più un terzo che lascerò per una prossima riflessione.
1. L’informalità
Questo tratto contraddistingue l’esperienza del mondo giovanile. Se un educatore di parrocchia lasciasse decidere ai ragazzi del suo gruppo come disporsi, vedrebbe che i ragazzi non si metterebbero sulle sedie in cerchio, ma seduti sul tavolo con le gambe a penzoloni, o sulla sedia con lo schienale davanti o in molte altre soluzioni che solo loro riescono a immaginare. Per avere una riprova, basta osservare alcuni adolescenti che studiano (o dicono di farlo) sdraiati per terra, con i piedi sul divano, il pc sulla pancia, il telefono a portata di mano e almeno tre applicazioni social aperte contemporaneamente.
Di recente, ascoltavo divertito il racconto di una difesa di Dottorato, dove, a dispetto della candidata e dei professori elegantissimi, gli altri colleghi dottorandi erano sbracati ai limiti dell’inverosimile.
Nelle biblioteche più moderne delle università si nota che le sale studio hanno sempre di più lo stile di un locale informale, con divanetti, tavolini, poltroncine. Niente di paragonabile alla sala della famosa scena del film Centochiodi.[1]
Se tutto ciò sia opportuno non è mia intenzione stabilirlo. Però si osserva questa tendenza e vale la pena di prenderne atto. La Chiesa salvaguarda l’educazione alla forma in molti altri modi, non ultimo la liturgia; forse si può avere il coraggio di offrire contesti informali, tanto per la preghiera quanto per la pastorale, dove i giovani possano sentirsi a loro agio in quello che cercano. In qualche università americana si parla di Theology on Tap, di teologia alla spina. L’immagine rende l’idea.
2. La qualità affettiva
In un momento pastorale, i giovani cercano senz’altro anche la percezione di stare bene; in genere, è uno stare bene con l’altro/gli altri. Non dovremmo disprezzare questo fatto, perché è in gioco la ricerca di senso, magari declinata in forme post-moderne. Si tratta soprattutto di poter vivere qualcosa che è degno di essere vissuto qui e ora, a confronto con tutte le altre cose belle che adesso potrebbero essere vissute altrove, con la certezza che, se questo tempo non è vissuto vantaggiosamente, è tempo sprecato. Quindi, oltre alla dimensione delle relazioni, c’è la ricerca di qualcosa che piaccia, che faccia stare bene, che dia la sensazione che la vita è vissuta.
Se confrontiamo questa ricerca esperienziale ai noiosissimi incontri o alle noiosissime celebrazioni che ancora proponiamo ai giovani, e ripensiamo alla sistematica erosione degli spazi informali, amichevoli e spontanei, di tutte le nostre iniziative pastorali, capiamo quanto siamo distanti da un reale interesse per loro.[2]
Al cappellano entusiasta perché i giovani sono andati a fare per la prima volta gli esercizi spirituali, potrà capitare di sentire replicare alla domanda: “Come è andata?”, la seguente risposta: “Bene, mi sono divertito”. Il divertimento non è esattamente la categoria che associeremmo alla qualità degli esercizi spirituali – e a Pascal verrebbe un infarto –, ma la risposta, ancora una volta, rende l’idea.
Un rilancio
Come accennato, ci sarebbe un terzo elemento, che riguarda il non creare, o almeno tentare di risolvere, le opposizioni. Lo lascio così, in sospeso per un prossimo scritto, sperando di potere suscitare qualche curiosità al lettore, e augurandomi che queste riflessioni, che sono state necessariamente brevi e semplificative, possano stimolare un dialogo di reazioni e precisazioni.
[1] Si tratta dell’Aula Magna della Biblioteca Universitaria di Bologna.
[2] Questa è una delle tesi, con cui concordo, espresse nel bel libro di A. Matteo, La prima generazione incredula, Rubbettino 2010.
Davide Baraldi è parroco a Bologna e docente di Teologia fondamentale alla Scuola di formazione teologica della Facoltà teologica dell’Emilia Romagna. È direttore spirituale della S.G. Fortitudo. Nell’ottobre 2015 è stato pubblicato da Edizioni Esordienti Ebook il suo romanzo Swatch (ebook e cartaceo).