C’è un aspetto che collega le aspre polemiche di questi giorni nei confronti del decreto «anti-rave» del governo Meloni a quelle esplose per la menzione del merito nella denominazione del ministero della Pubblica Istruzione.
Col nuovo provvedimento, infatti, si introduce nel Codice penale una nuova fattispecie di reato consistente nell’«invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici o privati, commessa da un numero di persone superiore a cinquanta, allo scopo di organizzare un raduno, quando dallo stesso può derivare un pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica» (art. 434 bis), per cui si prevede nei confronti degli organizzatori e dei promotori dell’evento la reclusione da 3 a 6 anni (per chi si limita a partecipare la pena è ridotta).
Sull’ambiguità della norma
È apparso subito evidente che la norma, oltre che ai rave, per cui era stata invocata, potrebbe essere usata – come hanno notato, fra gli altri, la Rete degli Studenti Medi e l’Unione degli Universitari e il co-portavoce di Europa Verde, Angelo Bonelli – per reprimere manifestazioni di protesta, per esempio le occupazioni di scuole e università.
Anche se la Corte Costituzionale, in una sentenza del 2000, ha escluso espressamente che le occupazioni studentesche rientrino nella fattispecie prevista dall’art. 633 del Codice penale che riguarda «chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o di trarne altrimenti profitto», perché – si dice nella pronunzia della Corte – «l’edificio scolastico, pur appartenendo allo Stato, non costituisce una realtà estranea agli studenti, che non sono dei semplici frequentatori, ma soggetti attivi della comunità scolastica e pertanto non si ritiene che sia configurato un loro limitato diritto di accesso all’edificio scolastico nelle sole ore in cui è prevista l’attività scolastica in senso stretto».
Del resto, per la verità, anche il ministro Piantedosi ha espressamente escluso che la nuova normativa possa applicarsi alle occupazioni studentesche. Quello che però qui mi sembra significativo non è tanto la portata del decreto, che effettivamente, per la sua indeterminatezza, si presta pericolosamente ad un’applicazione arbitraria, ma la levata di scudi che l’ha stigmatizzato proprio perché costituirebbe una minaccia per le occupazioni delle scuole da parte degli studenti. Il problema non è giuridico – la sentenza della Corte può valere anche per la nuova normativa – ma culturale. E riguarda il tipo di scuola che vogliamo.
Le occupazioni studentesche
Non sono un esperto di rave, dunque di questo non parlerò, ma ho insegnato per quarantuno anni nei licei statali, a partire dal 1968, e ho seguito dall’interno l’involuzione delle occupazioni studentesche, a partire dagli anni ruggenti della contestazione – nell’ultimo scorcio degli anni sessanta e nel corso degli anni settanta –, lungo quelli del loro progressivo declino, alla fine del secolo scorso e nel nuovo millennio, sull’onda del «riflusso» post-sessantottino, fino al loro ridursi a un rituale svuotato di reale contenuto politico e ripetuto annualmente come pausa di vacanza all’approssimarsi delle feste natalizie.
Alla fine, nella maggior parte dei casi, ciò che è rimasto è l’interruzione delle lezioni, sostituite da esperienze culturali «libere» – più consistenti nel caso che l’autogestione fosse sostituita da una co-gestione con i docenti –, ma comunque seguite da una minoranza di studenti, mentre la maggioranza si godeva la pausa di riposo dallo studio. Segno della crisi profonda di una scuola che, incapace di interessare veramente i ragazzi, concede loro una valvola di sfogo in cui si parla di problemi «veri» solo a titolo di parentesi, per poi tornare alla solita stanca routine di uno studio con scarsissimi agganci alla vita reale.
Così, le occupazioni sono diventate l’altra faccia di una prassi educativa in larga misura incapace di dare alle nuove generazioni un’autentica formazione politica. Non è un caso che la stagione che ne ha visto la ritualizzazione coincida con gli anni del crescente qualunquismo e del declino della reale partecipazione che hanno caratterizzato la Seconda Repubblica, fino al 36% di astensionismo delle ultime elezioni. Molti dei ragazzi cresciuti con le occupazioni poi hanno votato per Berlusconi. Scelta che, almeno dal punto di vista della «sinistra», dovrebbe suscitare qualche perplessità…
Dove è chiaro che il problema non è di difendere a tutti i costi le occupazioni, come in questi giorni si sta facendo con passione, ma di arrivare a una riforma che consenta al sistema scolastico di renderle finalmente superflue, rispondendo – e in modo serio – alle esigenze da cui esse erano nate e che sono rimaste da troppo tempo disattese. Una riforma che la sinistra non ha mai saputo fare e che, purtroppo, è molto dubbio che sia nelle intenzioni e nelle capacità della destra.
Il problema del merito
Un discorso analogo vale per il merito. Anche qui il dibattito non va alla radice della questione. Nella nuova denominazione del ministero, voluta dalla Meloni, alcuni, come il segretario della Cgil Landini, hanno visto «uno schiaffo in faccia a chi parte da una situazione di diseguaglianza»; oppure, come Luigino Bruni, hanno ritenuto di poter smascherare nel principio del merito «un imbroglio o quantomeno un’illusione», perché «tutti i bambini e le bambine vanno e devono andare a scuola, non solo i meritevoli. Tutti devono essere messi nella condizione di poter fiorire e raggiungere la loro eccellenza, non solo i più meritevoli» (Avvenire, 23 ottobre 2022).
Altri, sicuramente non «di destra», come Chiara Saraceno, hanno sostenuto invece che «il riferimento al merito (non alla meritocrazia, che è un’altra cosa) (…) ha un’indubbia forza democratica. Rappresenta il contrasto al nepotismo, ai privilegi ereditati, alle rendite di posizione» (La Repubblica, 31 ottobre 2022). Ma anche in questo caso, il problema è più radicale. Se per “merito” si intende – secondo il senso comune del termine – non una posizione di privilegio ma, al contrario, una combinazione tra capacità e impegno di ognuno, esso non si può certo considerare un criterio per escludere a priori alcuni, come teme Bruni ma, al contrario, il solo antidoto possibile a una società dove purtroppo di privilegi ce ne sono fin troppi.
La scuola è il luogo dove il figlio dell’operaio o del portinaio può emergere su quello del professionista o dell’industriale proprio grazie ai suoi meriti. Ben venga dunque, in astratto, la denominazione data da questo governo al ministro della Pubblica Istruzione. Solo che, per dare significato a questa valorizzazione del merito, bisogna mettere in conto che i meritevoli possono esprimere le loro capacità e il loro impegno solo se sono messi in condizione di farlo, e la scuola da sola non può garantire questa premessa fondamentale.
Sono le spaventose disuguaglianze sociali ed economiche che in molti casi bloccano il merito delle persone o comunque lo oscurano, non il merito in quanto tale, a dover essere combattute. E questa battaglia, che non è stata fatta dalla Sinistra (cinque milioni e mezzo di persone, dopo i suoi governi, sono in condizione di povertà estrema), non sembra neppure in linea di principio prevista da una Destra che nei suoi programmi prevede l’eliminazione della progressività delle imposte, la pace fiscale e, in generale, una linea favorevole ai grandi redditi e ai grandi patrimoni. A questo punto l’appello al merito diventa una parola vuota, se non addirittura una beffa.
Nell’attesa di un pensiero alternativo
Alla fine, la vittima di questo gioco di illusioni ottiche è la scuola. O, meglio, sono i ragazzi che da essa dovrebbero essere aiutati a sviluppare in pienezza la loro umanità e che, a causa dei limiti che abbiamo evidenziato, non ricevono gli stimoli culturali adeguati a renderli pienamente sé stessi, come vorrebbe l’etimologia di «educare», da e-ducere, «condurre fuori», metafora del far nascere.
Le attuali polemiche a difesa delle occupazioni studentesche e contro la menzione del merito sono un triste alibi che mantiene una situazione sbagliata, i cui effetti si riverberano su tutta la società. Ma non è certo con eventuali operazioni di polizia, o sbandierando un merito reso molto problematico dalle attuali disuguaglianze sociali, che questa situazione cambierà. Qui ci vogliono una lucidità e una creatività che finora sembrano latitanti nel gioco degli slogan delle forze politiche.
Che sia venuto il momento di puntare su quelle che Maritain chiamava «minoranze profetiche da shock», capaci di un pensiero veramente alternativo? Sta a noi, a ciascuno di noi, dare una risposta.
- Dal sito della Pastorale della cultura della diocesi di Palermo (www.tuttavia.eu), 2 novembre 2022.