8.000 istituzioni scolastiche autonome, più di 40.000 sedi sul territorio, 7,5 milioni di allievi, quasi 1 milione di docenti, 200.000 non docenti: i numeri della scuola pubblica italiana sono imponenti. A questi si aggiungono quelli della scuola paritaria: altri 12.000 istituti, 900.000 studenti, in prevalenza nella scuola d’infanzia.
Con questi numeri, è logico pensare che la scuola sia in Italia al centro dei pensieri della politica, della società. Come sembra in questi giorni. Anche perché la scuola è profondamente trasversale: impatta la vita di bambini, giovani, famiglie, dipendenti, come quella di aziende, trasporti, di intere città…
Tutta la nostra società si confronta quotidianamente con il funzionamento della scuola. Del resto, cosa c’è di più importante del luogo dove si forma il nostro futuro, la prossima generazione? E, anche a volere essere utilitaristici, quale bacino di consenso (o di dissenso…) più grande o omogeneo di questo?
Eppure, la scuola italiana non si percepisce – e oggettivamente non è – al centro dei pensieri del sistema politico, e del Paese tutto. Da anni. E la vicenda Covid, con le difficoltà e i ritardi accumulati per preparare la ripresa di settembre, ne è solo l’ennesima riprova.
Proviamo allora ad astrarci dalle polemiche roventi di questi giorni, alziamo lo sguardo, e ricostruiamo un poco le traiettorie delle politiche scolastiche negli ultimi decenni.
Una scuola con la febbre alta, ma poco curata
Cominciamo dalla comunicazione sociale. A differenza di “immigrazione”, “criminalità”, “ambiente”, la voce “istruzione” non rientra normalmente tra quelle monitorate dagli osservatori dei media e dei Tg: tolto l’esame di maturità e le situazioni eccezionali (come il Covid, appunto, o quando capitano incidenti connessi all’edilizia scolastica), di scuola normalmente si parla poco nelle nostre Tv.
Neanche la politica ne parla molto. Secondo la banca dati delle interrogazioni parlamentari, il Ministero dell’Istruzione è stato destinatario, da inizio legislatura fino a prima del Covid, di appena 210 interrogazioni: un decimo di quelle dedicate dai parlamentari al lavoro o all’ambiente. Quelle dedicate alla difesa sono tre volte di più, all’agricoltura più del doppio. Il numero è pari solo alle attenzioni che ha ricevuto il Ministero degli Affari Regionali…
Non va meglio sul piano degli investimenti. Nel 1990 spendevamo per la scuola il 5,5% del Pil, oggi meno del 4%: abbiamo disinvestito.
Tutti indicatori che dicono molto sulle priorità reali, fuori dalle retoriche. Secondo un’indagine Eurispes (Rapporto Italia 2020), nemmeno gli italiani considerano davvero la scuola così importante: solo il 6,5% la riconosce fondamentale nel proprio percorso di vita.
Del resto, proviamo a ricordare i cognomi degli ultimi cinque ministri dell’Istruzione, quelli che hanno preceduto l’attuale. Quanti ce ne vengono in mente? Una piccola cartina al tornasole, empirica, di come il dibattito politico nazionale non abbia più da tempo come protagonista la scuola e i suoi decisori.
E i risultati del sistema scolastico italiano sembrano risentire di questa poca attenzione e di questa marginalità: veleggiamo stabilmente, da anni, tra il 20° e 30° posto dei paesi Ocse nelle rilevazioni PISA. Risultati, tra l’altro, in tendenziale peggioramento, specie in alcuni ambiti, come le competenze scientifiche. E con nette differenze tra Nord e Sud, tra licei e tecnici, a conferma dell’intuizione donmilaniana – che ormai risale a più di 50 anni fa – sulla natura “conservatrice” della scuola italiana, incapace di fungere da vero “ascensore sociale”.
Assunto che queste classifiche sono da prendere con molta prudenza, resta vero che la scuola italiana problemi ne aveva tanti, e rilevanti, ben prima della sfida Covid.
Il virus li ha impattati ed evidenziati tutti: una burocratizzazione estenuante, che rallenta ogni processo decisionale e adattivo; la totale assenza di sistema premiante per i docenti e dirigenti più impegnati (con forti componenti di precariato, e quindi di continuità del lavoro); l’età media dei docenti, sopra i 50 anni; il 40% di sedi non a norma (Rapporto Censis 2018); la dipendenza per l’edilizia da comuni e province sempre più fragili…
Se poi ci spostiamo appena dal dato organizzativo a quello didattico, emerge la costante erosione del tempo-scuola e dei contenuti avvenuta negli anni 2000-10, l’abbandono scolastico al 15% (fanno peggio solo Malta, Spagna e Romania), nonché i limiti enormi nel rapporto col territorio e nel sistema di orientamento, per la scuola secondaria.
Se queste criticità non bastassero, si aggiungono le sfide in arrivo: su tutte, il calo demografico. Secondo le proiezioni della Fondazione Agnelli, fatto 100 il numero di studenti italiani nel 2015, si prevede che nel 2030 siederanno sui banchi delle nostre aule solo 85 ragazzi. Un dramma sociale che, per la scuola, potrebbe anche essere una gigantesca opportunità, per fare più qualità. Oppure, la strada maestra per divenire ancora più marginale.
Il dibattito sulla didattica a distanza e sul Covid
In uno scenario del genere, il dibattito generato dai mesi di chiusura della scuola, dalla (in)efficacia della didattica a distanza, dalla lenta e difficile preparazione alla riapertura, poteva essere una grande occasione. Per mettere a fuoco i veri mali della scuola italiana, ben precedenti al Covid e che la pandemia ha solo evidenziato. Insieme alla dedizione e abnegazione di larga parte del personale e delle famiglie.
La sfida della riapertura, le risorse aggiuntive stanziate, potevano essere un’occasione: per scegliere nuove sedi, per recuperarne di attuali, per fare investimenti su tecnologie e connessioni, per migliorare il rapporto tra scuola, trasporti e tempi della città. Non era facile, nel breve tempo a disposizione, ma non era impossibile.
Invece, l’impressione è che il grosso dello sforzo si esaurirà nelle polemiche sui banchi, nella conta dei casi di positività a scuola, nelle misure dei centimetri dentro alle aule di sempre. Alla fine, si sono fatti investimenti straordinari, certamente utili, affrontando l’emergenza: ma questo non determinerà un salto qualitativo della scuola. Neanche della sua sicurezza sanitaria, che oggi è più formale che sostanziale.
Se manca una visione strategica
Il motivo di tutto ciò non è occasionale: è che da troppo tempo attorno alla scuola la società e la politica italiana non riescono a condividere una visione strategica, una direzione da perseguire.
Ad ogni riforma, vera o annunciata, il fenomeno divisivo si ripete: attorno alla “Buona scuola”, da ultimo, ma prima ancora attorno alle “riforme” Gelmini, Moratti, Berlinguer. Con dibattiti polarizzati, quasi sempre, da vacui spettri ideologici (sul ruolo del privato, sulla funzione docente e così via), e con esiti invariabilmente immobilisti.
Le riforme “decidenti” hanno sempre generato resistenze e scontri. Le riforme “partecipanti” non si sono mai compiute. Ogni maggioranza ha “disfatto” quanto impostato dalla precedente. Alla fine di ogni tentativo di riforma, la scuola italiana si è ritrovata quasi sempre più povera, più divisa, più difficile da cambiare.
Meno riforme e più solida amministrazione
Quale dunque la strada? Forse è ora di ammettere che una riforma complessiva la scuola italiana non la riceverà, almeno in tempi brevi. E forse è meglio che, in queste condizioni, non la riceva. Neanche uno sforzo strategico sul Covid, in pochi mesi, era oggettivamente possibile, nelle condizioni in cui versa la nostra organizzazione scolastica, con le sue autonomie mai veramente decollate.
L’unica strada sarebbe quella dei piccoli passi, di una saggia amministrazione: investire (molto) di più, formare di più il nuovo personale da assumere, qualificare le sedi, premiare gli insegnati che ancora vivono la loro professione come una missione.
In parte, qualcosa si è mosso negli ultimi anni, con immissioni a ruolo, con un progetto ambizioso di edilizia scolastica, ai tempi del governo Renzi. Ma con troppa discontinuità.
Ora arrivano nuove ingenti risorse dall’Europa: sarebbero preziose per consegnare ai nostri allievi, negli anni futuri, classi meno sature, più decorose, laboratori migliori, una didattica più integrata con le nuove tecnologie, un riconoscimento ai docenti che più si impegnano in questa fase, meno burocrazia e più didattica. Il rischio che, invece, tutto si risolva nella consueta corsa a “mettersi a posto con le regole”, per non subire denunce e ricorsi, è molto alto.
Garantire un altro anno scolastico: non è poco, nelle condizioni date. Ma è troppo poco se si guarda ad un futuro appena più lontano di quello del 14 settembre 2020. Si può solo sperare che le luci accese dal Covid sulla scuola italiana inneschino una vera dinamica di attenzione e di cambiamento. Ma, dati alla mano, è poco più di una speranza.
Purtroppo è la realta. Spero che ci si renda conto che il futuro è nella cultura. Tutta , umanistica e tecnologica!
Buon inizio a tutti, studenti , docenti ed addetti ai lavori!