Università, crocevia dei saperi

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È così la verità, sempre raffigurata in qualcuno, per questo abbiamo l’università: un posto pensato per incrociare testimoni credibili di un tratto di vita a cui hanno dedicato anni, sforzi e sogni. Sin da bambini impariamo il mondo per fiducia, da qualcuno prima che da qualcosa. Si comincia a conoscere solo da soggetto a soggetto: il corpo e la voce di qualcuno ci dicono dove, come e cosa guardare.  Ma chi ascoltare tra tante voci, chi seguire?

Maestro

La parola maestro, dal latino magister (chi è di più), indica il di più di apertura e servizio alla vita, non di potere sulla vita. Quel di più viene dall’esperienza della propria vitale incompiutezza che coinvolge altri «incompiuti» nella ricerca di pienezza. Il «più» al maestro è dato dall’intensità trovata in un ambito della vita, di cui è testimone: un sapere incarnato.

Anche Gesù veniva chiamato maestro, rabbi significa infatti «grande» (versione ebraica del «più»). I rabbi di professione non tolleravano quell’attribuzione, perché il falegname di Nazareth non aveva titoli ufficiali per essere definito maestro. Nondimeno le persone gli riconoscevano l’autorità sul campo e per questo lo seguivano.

A proposito di rabbini, uno di loro diceva che la prima domanda che Dio ci porrà nell’aldilà è: «Chi era il tuo maestro e che cosa hai appreso da lui?», perché nell’incontro con i maestri è data a ciascuno l’occasione per una vita riuscita o sprecata, cosa non scontata in un’epoca di individualisti e di sedicenti self-made-men. Se esitiamo a rispondere alla domanda ipotizzata dal rabbino non abbiamo ancora ricevuto un’eredità, un destino, una vocazione.

Il maestro è uno studente che va a scuola dai suoi maestri, i suoi ragazzi studiano perché lui studia e sa dare conto della vita che riceve studiando. Le energie dei giovani, imprigionate dalla paura di fallire o di dover faticare, si liberano se vedono le ferite e il coraggio in chi li educa: possono così vivere la loro ricerca di pienezza non come vergogna, ma come risorsa. Maestro e allievo sono impegnati, insieme, a diventare ciò che devono diventare.

I ragazzi seguono i maestri perché essi «sanno» (conoscono) di quella vita che da soli, i giovani in formazione, non possono darsi.

Testimoniare la vita

Ma passiamo dalla parte dei maestri: non è sufficiente conoscere, bisogna testimoniare la vita. Come fare a farsi ascoltare? Lo studioso John Hattie ha assemblato gli esiti della più ampia ricerca mai condotta su ciò che rende l’insegnamento efficace[1], delineando gli aspetti fondamentali, estendibili a ogni ambito educativo e lavorativo:

  • offrire un riscontro tempestivo e specifico(aumento dell’apprendimento del 75%), così il tanto temuto giudizio finale/voto diventa il logico punto di arrivo di una prestazione, un elemento necessario per fare crescere e non un verdetto sulla persona;
  • studenti che aiutano altri studenti: apprendimento e insegnamento cooperativi (aumento del 58%). Il nostro sistema scolastico-universitario è basato quasi esclusivamente sulla competizione, invece la verità si cerca e trova insieme, e non perché sia democratica (una legge fisica, la grammatica di una lingua non lo sono), ma perché ognuno ne vede meglio un pezzo. Inoltre c’è sempre qualcuno che non vede e ha bisogno di aiuto, e chi riesce a spiegare qualcosa la impara meglio di chiunque altro;
  • meta-cognizione: potenziare negli studenti la consapevolezza dell’apprendimento (aumento del 48%). Gli esami non servono a scoprire che cosa gli studenti non sanno, ma ad ascoltare che cosa hanno scoperto. Da questo aspetto dipendono la curiosità e la tenuta: spiegare il senso (niente di insensato è interessante) di ciò che si fa e perché lo si fa è necessario perché i giovani siano mossi dall’interno (garanzia di memoria) e non solo dall’esterno (il dovere, o peggio la paura, portano a dimenticare presto). Il maestro invece riattiva il maestro interiore dell’alunno, ossia lo aiuta a rendersi autonomo nel cercare nel mondo ciò di cui ha bisogno: non seduce (porta a sé), ma conduce (porta al mondo). Non è complice, ma mentore. Del resto, il compito di ogni professore è proprio quello di presentare nelle sue parole, nei suoi gesti, nei suoi occhi, la meraviglia verso l’oggetto in esame. Non esistono tratti della realtà poco interessanti, esistono casomai persone poco interessate. Il professore è un narratore-attore della meraviglia verso ciò che insegna, provoca attrazione manifestando la sua attrazione. L’attenzione dell’allievo agganciata si porta verso la cosa e non verso il professore, altrimenti non si tratterebbe, appunto, di meraviglia ma di seduzione. Il sapere somiglierà ad un regalo impacchettato: un pacchetto ben fatto segnala qualcosa che è per me e solo per me, una sorpresa. Nessuno però si accontenta del pacchetto: va oltre, apre, riceve, ringrazia. Questo non significa che avrò una classe di occhi ardenti e assetati, ma semplicemente che darò a coloro che saranno pronti la possibilità di accendersi. Solo al fuoco della meraviglia cuore e mente vengono unificati e lanciati oltre. Solo chi coltiva questo fuoco in sé riesce a insegnare, altrimenti con il tempo si riduce ad assegnare;
  • un clima di apprendimento positivo e gioioso(aumento del 37%). Diceva già Agostino che «nutre la mente soltanto ciò che la rallegra». Sono tutti elementi professionali, niente carismi divini o effetti speciali, un corpo che incarna e una voce che racconta ad altri dove la vita è più intensa.

L’alternativa ad una università noiosa non è una università divertente. Non esiste un’università senza fatica e spensierata, ma questo non vuol dire che debba essere noiosa. La vera alternativa è una università interessante. Interesse (essere dentro) vuol dire coinvolgimento con tutto l’essere (corpo, cuore, testa, spirito) da ciò che viene presentato o rappresentato (dal corpo, cuore, testa, spirito del professore). L’interesse è compatibile con l’impegno e la fatica, cosa che la noia non potrà mai ottenere, e neanche il divertimento che si esaurisce nella consumazione dell’esperienza.

Per una Università che promuova la vita

Ma che cosa ha il potere di attraversare l’essere da dentro in tutti i suoi strati? Chiedo la soluzione alla lettera ricevuta qualche mese fa:

«Ho 19 anni, ho fatto il primo di Giurisprudenza e più l’inizio dell’università si avvicina più vado in crisi. Non mi fraintenda: io ho una sete di apprendere smisurata, la mia curiosità più viene alimentata e più cresce. Io ho veramente voglia di studiare. Ma se da una parte i miei occhi ardono di scoperta, dall’altra i miei professori, con occhi di ghiaccio assolutamente inespressivi, parlano con disinteresse alla materia, senza amore verso ciò che fanno. Come facciamo a mantenere vivo l’interesse e a realizzare noi stessi in un’università che insegna senza amore? In una università che pensa solo a classificarci tutti tramite voti, voti e ancora voti? Ho avuto la fortuna di assistere a una lezione di un poeta, mentre parlava di Leopardi e parafrasava alcuni suoi versi, non si poteva che rimanere lì, incantati dal suo sapere, meravigliati da come la faceva diventare parole per noi, stupiti da come “un’altra poesia da studiare” si trasformasse in “questa poesia parla di me, la voglio approfondire!” Questo è ciò che io chiamo imparare»[2].

Occhi ardenti (movimento) contro occhi di ghiaccio (immobilità). Interesse (esserci in pienezza) contro disinteresse (esserci se non in parte). Che cosa ha di diverso quell’uomo che parla di Leopardi: meraviglia, incanta, spinge il desiderio di sapere ad andare oltre.

L’alternativa a una università noiosa è una università “meravigliosa”, ossia capace di destare l’interesse attraverso la meraviglia[3]. Dobbiamo però capire meglio cosa sia questa meraviglia, per poterla recuperare e suscitare. È un sentimento misto: sorpresa unita a pace. Qualcosa di nuovo si impone alla nostra attenzione e spiazza la nostra intelligenza, ma non è sufficiente. Siamo chiamati a fermarci, sostare, osservare, andare alle fonti di quello stupore che ci ha afferrato, per attingerne la causa. Veniamo trasformati da passanti distratti in spettatori curiosi e attenti, per questo prima parlavamo di rappresentazione del sapere (il professore agisce il sapere). La generica sete di sapere che caratterizza ogni essere umano attraverso la meraviglia diventa interesse specifico: dal bambino affascinato dal gioco nuovo che cerca di aprire per capire come faccia a muoversi, al ricercatore che osserva al microscopio un grumo di cellule.

Lo studio è l’unione sempre più profonda dell’animo innamorato di una cosa con quella cosa. Non ci può essere studio senza la scintilla d’amore, noi continuiamo a cercare ciò che abbiamo già trovato: per questo si usa il termine ricerca, che vuol dire girare intorno a qualcosa più e più volte, come fa il ragazzo con la sua ragazza. Non si dà incremento di conoscenza in un campo che non sia preceduto da un incremento di amore perciò che è oggetto di quel campo.

L’origine del metodo di ricerca è il cuore, perché nel cuore risiede il desiderio, luogo in cui siamo aperti al futuro, quello che ci fa tendere in avanti e non ci fa dipendere da tutto il resto. Tendere è il contrario dipendere. È il luogo del rischio e dell’inquietudine, senza la quale la vita raggiungerebbe presto l’equilibrio della morte.

La realtà è una promessa di sapere che aggancia con la meraviglia, capace di generare una ricerca. Altrimenti avremo la conferma che l’Università ha tradito la sua vocazione e si è appiattita sui desideri del nostro tempo: dovrebbe essere un luogo in cui diventare più liberi ed è bloccata da apparati burocratici e politici a cui interessa soprattutto preservare se stessi; dovrebbe essere un luogo dove conoscere se stessi e il mondo per poi prendersi cura di sé e del mondo, e invece spinge a odiare un sapere che non serve a vivere meglio; dovrebbe essere un luogo dove imparare a discernere tra ciò che vale e ciò che non vale, ma si è ridotta a un calderone di attualità e conformismo, che non incide sulla vita quotidiana dei giovani.

Quando le relazioni non sono più l’origine dell’università, l’università non può essere se stessa e diventa un esercizio di potere, o agito o subito. L’attuale sistema universitario invece di dare vita la toglie, perché è basato sulla ripetizione e non sulla scoperta, sull’interrogazione e non sull’interrogativo, sulla prestazione e non sulla presenza.

A che serve un esame se non viene preso in considerazione per trovare poi la propria strada? A che serve un esame che promuove tutti? A ripetere un rito vuoto? Noi non siamo qui per chiedere che si faccia di meno, ma per fare tutto quello che serve, anche di più, purché abbia un senso.

Queste idee sono affidate al futuro, quando forse chi verrà dopo riterrà sorprendente che, per così tanto tempo, abbiamo brancolato nel buio.

Bruna Capparelli è professoressa associata di Diritto e procedura penale presso l’Università Autonoma di Lisbona. È membro dell’Unione giuristi cattolici (UGC), sezione di Bologna.


[1] Hattie, J., Apprendimento visibile, insegnamento efficace, Erickson, 2016.

[2] Come faccio a diventare ciò che sono se non so chi sono? Attraverso le immagini che mi offre il mondo. Per questo amiamo le storie, perché mostrano destini possibili, ipotesi narrative sulla vita (e la morte) che ci aspetta. A Sparta l’immaginario dominante produceva soldati, ad Atene filosofi, poeti, politici e soldati. E noi che immaginario offriamo ai più affamati di possibilità, cioè i giovani? Riuscire a trattenere le immagini che contengono pezzi del puzzle del nostro destino non è facile oggi perché, nella continua fruizione telematica, subiamo una tempesta di immagini mai vista nella storia umana: l’Homo Sapiens è diventato Videns (vede tutto ma non presta attenzione a niente, è un iper-vedente cieco, che presto userà infatti l’Oculus del metaverso). L’intasamento dell’immaginario non è senza conseguenze, provoca infatti la crisi dell’immaginazione: la capacità logica è indebolita (l’eccesso di immagini genera confusione e limita il pensiero astratto) e la nostra creatività è dispersa tra infinite rotte possibili. Il consumismo ha bisogno di generare continuamente immagini desiderabili per darci destini a portata di portafogli, ma il consumismo non è la causa ma la conseguenza di un io senza destino (nichilismo e individualismo) che, per farsi e darsi forza, si aggrappa ai coriandoli di futuro più seducenti. Dobbiamo invece liberarci dall’ipnosi delle immagini e dalla manipolazione dello sguardo attraverso le regole dell’algoritmo, che fa vedere cose diverse a ciascuno e ci convince che siano nel mondo, e invece è solo la nostra tribù con i suoi idoli.

[3] Il paragrafo riproduce in parte – approfondendolo – il pensiero già espresso in B. Capparelli, L’Università, i giovani, la “meraviglia”, in questo periodico, 11 settembre 2024; ultimo accesso: 16 settembre 2024.

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