Come tutti gli altri corpi sociali anche l’Università ha cercato di adattarsi alla condizione pandemica e alle norme che hanno cercato di contenere la diffusione del Covid-19 nei nostri contesti di vita. Abbiamo fatto il possibile, talvolta con qualche slancio di genio, altre volte con pedanteria e senza troppa fantasia.
Un po’ come tutti insomma, mostrando così che l’élite istituzionale della cultura non è poi così diversa dal resto della società comune.
Questo a nostro discredito, perché in un momento in cui tutti gli altri centri culturali venivano fermati dai vari decreti, all’Università sarebbe spettato il compito di assumere una funzione vicaria, quantomeno temporanea, nelle nostre città più o meno paralizzate.
Invece, ci siamo fatti risucchiare anche noi nell’unica questione che catalizza da mesi il dibattito pubblico in materia di formazione ed educazione delle generazioni più giovani – quella dell’alternativa, mal posta, fra didattica a distanza e in presenza. Mal posta, perché presentata in maniera secca: o l’una o l’altra; mal posta, perché incapace di generare orizzonti futuri di un effettivo rinnovamento di quella singolare istituzione educativa che è l’Università.
Ma esserci ritrovati impantanati in tale questione, dice qualcosa di ciò che è diventata l’Università in questi ultimi decenni: una sorta di prolungamento dell’istruzione secondaria superiore in vista di una immissione la più rapida possibile delle giovani generazioni nel mondo del lavoro – sottopagate, quando lo trovano.
Aver trasformato l’Università in una grande scuola professionale, dove ciò che conta è il trasferimento di nozioni applicabili immediatamente nei vari contesti lavorativi, è ciò che l’ha risucchiata nell’alternativa secca distanza/presenza come questione intorno a cui organizzare oramai ben due lunghi anni accademici.
Senza sfruttare l’occasione della pandemia per ripensare a fondo il senso, se ancora uno ne ha, di questa istituzione singolare che ha nella sua matrice originaria di non essere né scuola né lavoro – quanto, piuttosto, quella di essere una corporazione del sapere fatta di studenti e professori che si amministra in maniera autonoma all’interno del contesto cittadino e fa corpo con altre istituzioni similari a livello nazionale e internazionale.
La crescita esponenziale del comparto amministrativo, resa necessaria o giustificata dalla piegatura aziendalistica dell’Università odierna, è l’indice di una patologia sulla quale il virus ha attecchito quasi senza credere ai propri occhi. Svelando il grande nulla che è diventato l’Università: tutto si può fare senza di lei – perché l’Università è primariamente un luogo fisico nel tessuto della città, e quando le sue funzioni possono riprodursi senza alcun riferimento a quel luogo essa di fatto non esiste più.
Didattica e nozioni possono essere tranquillamente trasferite in rete, con tutti i vantaggi che ciò può comportare (se si ha l’intelligenza di non guardare solo agli aspetti economici); generazione del pensiero ed edificazione civile della corporazione del sapere, invece, non possono essere traslati in forma digitale – a meno che non ci si accontenti di un qualche loro simulacro sostitutivo. Ma appunto, davanti a queste ultime due l’Università sembra avere abdicato da ben prima della pandemia.
Imprese idealiste, queste, lasciate senza problema alcuno in mano a un manipoli di carbonari, portate avanti senza nessuna ricaduta sul sistema complessivo dell’Università – che è poi la condizione per cui esse vengono tollerate dall’Università-azienda del nostro tempo. E anche questa carboneria del sapere ha oramai interiorizzato a tal punto la propria irrilevanza e marginalità, che ne fa quasi un vanto identitario dentro la macchina impersonale del sistema universitario. Rinforzandolo, anziché metterlo radicalmente in discussione.
Il virus è l’alleato inatteso della grande normalizzazione che sta cancellando l’anomalia corporativa dell’Università per renderla perfettamente coerente alle logiche che dominano il nostro tempo – asservendola a esse per poter continuare a esistere quantomeno nominalmente, e mortificando il sapere a essere mero strumento delle potenze che hanno preso in ostaggio le nostre società e i nostri vissuti.
Rimane qualche tempo, poco, per sfruttare il tempo sospeso a cui è stata costretta l’Università e immaginare vie possibili per un suo riscatto, un sussulto d’orgoglio che opponga resistenza a essere il semplice transito in cui si porta a termine l’omologazione delle giovani generazioni a criteri che soffocano il loro desiderio di futuro e di un mondo altro da quello che abbiamo catastroficamente consegnato alle loro mani.