Qual è il compito affidato ai presbiteri dall’esortazione Amoris lætitia? «Avendo ben chiaro l’insegnamento della Chiesa e gli orientamenti dei vescovi (che attendiamo), l’esortazione apostolica affida a noi preti il compito di accompagnare le persone interessate (ossia tutti!) sulla via di un responsabile discernimento». Lo sintetizza così, mons. Stefano Ottani, parroco e canonista della diocesi di Bologna, invitato a tenere una relazione alla giornata di studio diocesana sulla recente esortazione di papa Francesco (19 maggio). «Mi preme sottolineare», prosegue Ottani, «che non sono i preti a dovere discernere – né tanto meno a giudicare – chi può e chi non può accostarsi alla comunione eucaristica; dobbiamo aiutare gli interessati a prendere consapevolezza della loro condizione davanti al Signore e alla Chiesa». Senza dimenticare «il grande compito di informare ed educare le comunità cristiane», perché l’attuale momento di passaggio diventi «un’occasione di crescita complessiva, nella catechesi di bambini, giovani e adulti, nei corsi di preparazione al matrimonio, nei gruppi di spiritualità familiare… Occorrerà certamente coinvolgere gli sposi, anzi promuovere il loro ministero coniugale affinché siano loro i protagonisti della pastorale familiare».
Amoris lætitia, conclusione di una lunga e approfondita riflessione
L’esortazione apostolica postsinodale Amoris lætitia (AL), data da papa Francesco il 19 marzo, nella solennità di San Giuseppe dell’anno 2016, conclude il lungo itinerario di riflessione sulla vocazione e missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo, avviata quasi tre anni fa, che ha coinvolto l’intera comunità ecclesiale e ha avuto come momenti salienti le due assemblee sinodali del 2014 e 2015.
Ora è possibile raccoglierne i frutti per orientare il servizio che la Chiesa è chiamata a offrire perché ogni famiglia conosca e realizzi la propria vocazione e missione. Qui ci interessa in particolare quanto è chiesto a noi preti nell’esercizio del nostro ministero quotidiano. In vista di ciò è opportuno cogliere anzitutto le linee portanti della nuova impostazione per poi derivarne indicazioni specifiche.
Continuità e rinnovamento
Se è fuori dubbio che la verità del matrimonio non cambia, è altrettanto chiaro che cambiato è l’approccio che viene proposto.
Il matrimonio naturale elevato a dignità di sacramento
Per capirlo occorre richiamare il modo con cui il matrimonio era finora presentato nella catechesi. Valga per tutti il riferimento al Catechismo della Chiesa cattolica. Nelle primissime righe che aprono l’articolo sul sacramento del matrimonio, ne viene proposta la definizione: «Il patto matrimoniale con cui l’uomo e la donna stabiliscono tra loro la comunità di tutta la vita, per sua natura ordinata al bene dei coniugi e alla procreazione e educazione della prole, tra i battezzati è stato elevato da Cristo Signore alla dignità di sacramento» (CCC 1601).
Questa definizione altro non è che il §1 del can. 1055 del vigente Codice di diritto canonico. Si tratta di una visione che raccoglie il meglio della tradizione canonistica e fa riferimento alla dottrina conciliare, la quale viene esplicitamente citata poco dopo: «La vocazione al matrimonio è iscritta nella natura stessa dell’uomo e della donna, quali sono usciti dalla mano del Creatore (GS 48)» (CCC 1603). Basta questo per richiamare la dinamica sottostante, dal basso all’alto: il matrimonio naturale è una realtà umana così preziosa che il Signore Gesù l’ha «elevata» a sacramento in quanto «per natura» capace di rappresentare l’amore di Cristo per la Chiesa.
Secondo la grande riflessione teologica scolastica il matrimonio è per sua natura indissolubile (conseguenza della dignità delle persone), monogamico (perché uomo e donna hanno gli stessi diritti), eterosessuale (tra maschio e femmina) e aperto alla procreazione (perché la generazione deriva dall’unione).
Non si finirà mai di sottolineare la verità, la ricchezza e la bellezza di questa visione. La cultura contemporanea, tuttavia, non riesce più a riconoscere le «naturali» caratteristiche del matrimonio.
La legislazione sul divorzio, universamente accolta, di fatto nega l’indissolubilità. Il fenomeno omossessuale asserisce che è naturale l’attrazione, e di conseguenza il diritto, all’unione con una persona dello stesso sesso. L’incontro con altre tradizioni religiose mostra come la poligamia sia ritenuta naturale e di fatto diffusa. La scienza dimostra che la procreazione non ha più bisogno dell’unione tra uomo e donna.
Il fulcro del problema è l’incomprensione del concetto di «natura». Di fatto la cultura contemporanea non riesce più a riconoscere le caratteristiche naturali del matrimonio e progetta forme familiari di diverso tipo.
Davanti a questa situazione non si vuole affatto negare la validità dell’impostazione finora proposta, ma si è consapevoli che mantenerla conduce all’emarginazione culturale. È possibile decidere di testimoniarla fino al martirio. La scelta di Dio, però, manifestata nell’incarnazione del Figlio e nell’effusione dello Spirito, è stata diversa: Dio si è fatto uomo e ha parlato la lingua degli uomini; il dono dello Spirito fa intendere l’annuncio cristiano a ciascuno nella propria lingua nativa. Seguendo questa indicazione, è necessario cercare di rendere comprensibile il nostro linguaggio.
L’ordine della redenzione illumina e compie l’ordine della creazione
Chiarissima è stata la scelta, proposta nella Relazione finale del Sinodo, fatta propria e rilanciata da papa Francesco, nel cercare altre strade per rendere comprensibile ai nostri contemporanei la verità sul matrimonio: «Assumendo l’insegnamento biblico secondo il quale tutto è stato creato da Cristo e in vista di Cristo (cf. Col 1,16), i padri sinodali hanno ricordato che “l’ordine della redenzione illumina e compie quello della creazione. Il matrimonio naturale, pertanto, si comprende pienamente alla luce del suo compimento sacramentale: solo fissando lo sguardo su Cristo si conosce fino in fondo la verità sui rapporti umani”» (AL 77).
Semplificando molto, per intenderci, lo schema è stato capovolto: non dal basso all’alto (elevato), ma viceversa. Può servire un’immagine: una volta arrivati in cima alla montagna si può vedere bene il sentiero che porta alla vetta, diverso da quelli che si inoltrano nel bosco o rimandano a valle. Così il sacramento del matrimonio «illumina» dall’alto, ossia permette di vedere chiaramente, e «compie», ossia rappresenta il compimento, la pienezza del matrimonio naturale.
Un esempio di questa impostazione è dato dalla stessa esortazione apostolica, che dedica tre capitoli alla presentazione della vocazione della famiglia, all’amore nel matrimonio e alla fecondità a partire dallo «sguardo rivolto a Gesù» (AL 32-198).
L’approccio non solo è diverso, ma anche permette di collocare i vari passi che ancora non coincidono con la meta lungo un cammino orientato. Dal punto di partenza più lontano (l’incontro uomo-donna), i successivi (convivenza stabile, matrimonio civile, generazione di figli…) e anche la ripresa dopo deviazioni (nuovo nucleo familiare dopo separazione o divorzio) sono tutti passi che avvicinano al compimento.
In questo modo è possibile avvicinarsi alle persone nella loro situazione di fatto, valorizzare quanto di positivo – seppure parziale e provvisorio – c’è nella loro condizione e accompagnarle verso la pienezza umana e cristiana del sacramento del matrimonio.
Il papa non ha certo nascosto che ci sono situazioni comunque contraddittorie, che in nessun caso potranno mai trovare compimento nel sacramento del matrimonio: «Il matrimonio cristiano, riflesso dell’unione tra Cristo e la sua Chiesa, si realizza pienamente nell’unione tra un uomo e una donna, che si donano reciprocamente in un amore esclusivo e nella libera fedeltà, si appartengono fino alla morte e si aprono alla trasmissione della vita, consacrati dal sacramento che conferisce loro la grazia per costituirsi come Chiesa domestica e fermento di vita nuova per la società. Altre forme di unione contraddicono radicalmente questo ideale, mentre alcune lo realizzano almeno in modo parziale e analogo» (AL 292).
L’analogia con la Chiesa
La nuova prospettiva è un’applicazione al matrimonio di quanto il Concilio ecumenico Vaticano II aveva affermato a proposito della Chiesa, attribuendo così alla «piccola Chiesa», che è la famiglia, le caratteristiche analoghe della «grande Chiesa», che è la Chiesa universale.
Il paragrafo 8 della Lumen gentium, infatti, senza esitazione presenta la Chiesa costituita da Cristo, per mezzo della quale egli diffonde su tutti la verità e la grazia: «Questa è l’unica Chiesa di Cristo, che nel Simbolo professiamo una, santa, cattolica e apostolica e che il Salvatore nostro, dopo la sua resurrezione, diede da pascere a Pietro (cf. Gv 21,17), affidandone a lui e agli altri apostoli la diffusione e la guida (cf. Mt 28,18 ss), e costituì per sempre colonna e sostegno della verità (cf. 1Tm 3,15). Questa Chiesa, in questo mondo costituita e organizzata come società, sussiste nella Chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui, ancorché al di fuori del suo organismo si trovino parecchi elementi di santificazione e di verità, che, appartenendo propriamente per dono di Dio alla Chiesa di Cristo, spingono verso l’unità cattolica».
L’unica Chiesa di Cristo «sussiste nella» Chiesa cattolica: dunque è qui che possiamo trovare la verità e la grazia. Questo tuttavia non esaurisce il dono di Dio, dal moment o che anche «al di fuori del suo organismo» si trovano «parecchi elementi di santificazione e di verità». Questa visione ha reso possibile l’ecumenismo: al di fuori della Chiesa cattolica non ci sono solo scismi ed eresie, ma anche nelle comunità cristiane ortodosse o riformate possiamo trovare «parecchi elementi di verità e di santificazione». Possiamo e dobbiamo sottolineare che siamo tutti cristiani, rigenerati nell’unico battesimo, in ascolto dell’unico Vangelo.
Questa impostazione ha reso possibile anche il dialogo interreligioso, come esplicitamente promosso dalla dichiarazione conciliare Nostra aetate sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane.
Ora, se applichiamo per analogia quanto dichiarato dal Concilio sulla Chiesa alla «piccola Chiesa», che è la famiglia, capiremo con quali occhi dobbiamo guardare alla realtà coniugale. Parafrasando si potrebbe dire: «L’unica famiglia voluta dal Creatore sussiste nella famiglia originata dal sacramento del matrimonio, con cui l’uomo e la donna stabiliscono tra loro la comunità di tutta la vita, per sua natura ordinata al bene dei coniugi e alla procreazione e educazione della prole, ancorché al di fuori del suo organismo si trovino parecchi elementi di amore e di verità».
A partire da questa prospettiva possiamo affermare che anche al di fuori del matrimonio canonico esistono «forme matrimoniali» dotate di elementi positivi; non si può dire: o c’è tutto, o non c’è niente. Il matrimonio naturale, il matrimonio civile, il matrimonio secondo le diverse tradizioni religiose, le nuove nozze dopo un divorzio, la semplice convivenza, possono avere elementi di verità e di amore, senza con questo assurgere a ideale.
Tali elementi positivi, continuando ancora l’analogia, appartenendo propriamente per dono di Dio al matrimonio, «spingono» verso la pienezza della realtà matrimoniale, espressa dal sacramento. In questo modo si indica un itinerario, che da punti di partenza limitati tende alla pienezza, quale meta che orienta tutto il cammino.
Misericordia e letizia
Ritengo utile ricordare che il magistero della Chiesa ci ha già offerto gli strumenti per superare la possibile crisi dovuta all’incomprensione del concetto di «natura», fornendoci una straordinaria proposta nella «teologia del corpo» elaborata da san Giovanni Paolo II nelle sue catechesi del mercoledì tra il settembre 1979 e il novembre 1984.
Ancora più feconda è l’attuale insistenza sulla misericordia che può offrire i presupposti per un’antropologia rinnovata. L’affermazione che la misericordia è il nome di Dio (Es 34,6) spinge verso una riconsiderazione dell’idea di Dio coltivata da duemila anni di cristianesimo, caratterizzata dalle categorie filosofiche ellenistiche. La misericordia, infatti, introduce in Dio la sensibilità (femminile!), ampiamente ed esplicitamente descritta nella Scrittura, ma difficile da concepire come presente nell’Essere perfettissimo. Si può così quanto meno integrare la visione dell’uomo, quale immagine di Dio in quanto dotato di intelletto e volontà (Tommaso d’Aquino, Summa theologiae I-II, proemium), introducendo una considerazione positiva della corporeità, la sessualità, i sentimenti e le emozioni. Il dono totale di sé, espresso nel dono del corpo sul talamo della croce, «illumina e compie» l’amore umano. La letizia dell’amore coniugale è quindi al centro di una più adeguata antropologia.
Si tratta di integrare tutti, si deve aiutare ciascuno a trovare il proprio modo di partecipare alla comunità ecclesiale, perché si senta oggetto di una misericordia «immeritata, incondizionata e gratuita». Nessuno può essere condannato per sempre, perché questa non è la logica del Vangelo! Non mi riferisco solo ai divorziati che vivono una nuova unione, ma a tutti, in qualunque situazione si trovino. Ovviamente, se qualcuno ostenta un peccato oggettivo come se facesse parte dell’ideale cristiano, o vuole imporre qualcosa di diverso da quello che insegna la Chiesa, non può pretendere di fare catechesi o di predicare, e in questo senso c’è qualcosa che lo separa dalla comunità (cf. Mt 18,17). Ha bisogno di ascoltare nuovamente l’annuncio del Vangelo e l’invito alla conversione. Ma perfino per questa persona può esserci qualche maniera di partecipare alla vita della comunità: in impegni sociali, in riunioni di preghiera, o secondo quello che la sua persona le iniziativa, insieme al discernimento del Pastore, può suggerire (297).
Accompagnare
Se dalla cima della vetta si vede il sentiero giusto, ne deriva che compito di chi ha già raggiunto la cima (non per merito, ma per grazia) è scendere per accompagnare, prendendo per mano e orientando passo dopo passo, il cammino dei fratelli verso la pienezza.
Di fatto questa è già per gran parte la situazione attuale in cui si svolge il nostro ministero. Penso ai corsi di preparazione al matrimonio in cui i cosiddetti «fidanzati» sono già in maggioranza conviventi, non pochi hanno già figli, vari sono reduci da precedenti esperienze coniugali: convivenze, matrimoni civili o matrimoni dichiarati nulli.
Non è un semplice affiancamento affettuoso, ma un vero accompagnamento orientato, che non si stanca di proporre l’ideale, quale pienezza umana e cristiana. L’esortazione apostolica dedica pagine molto belle alla descrizione della gioia dell’amore coniugale nella famiglia che realizza il progetto del Creatore recuperato e portato a compimento dal Signore Gesù (capitoli terzo e quarto).
Riguardo al modo di trattare le diverse situazioni dette «irregolari», i padri sinodali hanno raggiunto un consenso generale, che sostengo: «In ordine a un approccio pastorale verso le persone che hanno contratto matrimonio civile, sono divorziati e risposati, o che semplicemente convivono, compete alla Chiesa rivelare loro la divina pedagogia della grazia nella loro vita e aiutarle a raggiungere la pienezza del piano di Dio in loro» sempre possibile con la forza dello Spirito Santo» (297).
Discernere
Questo atteggiamento deve guidare il ministero del presbitero quando si avvicina a quelle famiglie che, dopo il matrimonio, sperimentano fragilità e limite. L’atteggiamento appropriato a tale proposito è il discernimento: i padri hanno indicato che «un particolare discernimento è indispensabile per accompagnare pastoralmente i separati, i divorziati, gli abbandonati. Va accolta e valorizzata soprattutto la sofferenza di coloro che hanno subito ingiustamente la separazione, il divorzio o l’abbandono, oppure sono stati costretti dai maltrattamenti del coniuge a rompere la convivenza. (…)» (242).
Ai divorziati che vivono una nuova unione, è importante far sentire che sono parte della Chiesa, che «non sono scomunicati» e non sono trattati come tali, perché formano sempre la comunione ecclesiale. Queste situazioni «esigono un attento discernimento e un accompagnamento di grande rispetto, evitando ogni linguaggio e atteggiamento che li faccia sentire discriminati e promovendo la loro partecipa zione alla vita della comunità. Prendersi cura di loro non è per la comunità cristiana un indebolimento della sua fede e della sua testimonianza circa l’indissolubilità matrimoniale, anzi essa esprime proprio in questa cura la sua carità» (243).
Accesso dei divorziati risposati al sacramento dell’eucaristia?
Il discernimento con cui accompagnare le diverse situazioni che non corrispondono all’ideale del sacramento matrimonio arriva fino a potere rispondere alla domanda sul possibile o meno accesso al sacramento dell’eucaristia. La domanda nasce dalla constatazione che in alcuni casi la situazione è diventata irreversibile. Tipica è la situazione di due divorziati che si sono sposati civilmente e hanno avuto figli. Se, raggiunti dalla grazia, intendono avviare un cammino di riconciliazione, che cosa gli si deve chiedere? È pensabile pretendere che si separino, abbandonando i figli, per ritornare al coniuge precedente? Qual è la volontà del Signore in questi casi?
È chiara la risposta del papa: «Se si tiene conto dell’innumerevole varietà di situazioni concrete, come quelle che abbiamo sopra menzionato, è comprensibile che non ci si dovesse aspettare dal Sinodo o da questa esortazione una nuova normativa generale di tipo canonico, applicabile a tutti i casi. È possibile soltanto un nuovo incoraggiamento ad un responsabile discernimento personale e pastorale dei casi particolari, che dovrebbe riconoscere che, poiché “il grado di responsabilità non è uguale in tutti i casi”, le conseguenze o gli effetti di una norma non necessariamente devono essere sempre gli stessi. I presbiteri hanno il compito di “accompagnare le persone interessate sulla via del discernimento secondo l’insegnamento della Chiesa e gli orientamenti del vescovo”» (AL 300).
Emerge qui quello che è certamente un nostro compito inedito, per il quale ci possiamo sentire inadeguati.
Nella linea della tradizione morale
Preme al papa sottolineare che si tratta di una scelta «obbligata», secondo le indicazioni già offerte trentacinque anni fa da papa san Giovanni Paolo II: «Di fronte a situazioni difficili e a famiglie ferite, occorre sempre ricordare un principio generale: “Sappiano i pastori che, per amore della verità, sono obbligati a ben discernere le situazioni” (Familiaris consortio, 84).» (AL 79) (*).
Il papa è preoccupato di mostrare come anche a questo proposito non ci si allontana dalla dottrina della Chiesa; così come la tradizione che l’ha trasmessa. «La Chiesa possiede una solida riflessione circa i condizionamenti e le circostanze attenuanti. Per questo non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta “irregolare” vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia santificante» (301).
Mi preme documentare le affermazioni del papa con un rapido cenno alla soluzione di una questione ancora attuale, facendo ricorso alla tradizione morale cattolica.
Il «caso Washington»
Un antecedente quanto mai significativo, anche se poco conosciuto, è il «caso Washington». La vicenda è entrata a far parte della raccolta dei pronunciamenti della Santa Sede (EV 4/412-425). La Congregazione per il clero aveva ricevuto dalla Segreteria di stato di sua santità, il 21 luglio 1970, un appello indirizzato alla Santa Sede dal rev. Joseph Byron, delegato di un gruppo di sacerdoti dell’archidiocesi di Washington. Tali sacerdoti erano stati limitati, in gradi diversi, nell’esercizio del ministero dal proprio arcivescovo a causa del loro «dissenso» all’insegnamento dell’enciclica Humanae vitae. L’anno successivo, il 26 aprile 1971, la Congregazione si è pronunciata, dando sostanzialmente ragione ai preti: le particolari circostanze che accompagnano un atto umano oggettivamente cattivo, mentre non possono trasformarlo in atto oggettivamente virtuoso, possono renderlo «incolpevole o meno colpevole o soggettivamente giustificabile» (421, 4).
La risposta, a sua volta, si collega a quella che è la secolare tradizione teologico morale che prende il via dalla riflessione di sant’Agostino nelle sue Confessioni: «Esistono poi certe azioni che assomigliano a vizi o a misfatti e tuttavia non sono peccati, poiché non offendono né te, Signore Dio nostro, né il consorzio umano. (…) Esistono dunque molte azioni che sembrano riprovevoli agli uomini, mentre le approva la tua testimonianza, e molte che gli uomini lodano, e tu con la tua testimonianza condanni. Spesso sono diversi l’aspetto di un’azione e le intenzioni di chi agisce, come pure il groviglio delle circostanze, a noi ignote» (Agostino, Confessioni III,9.17).
Atto, intenzione e circostanze:
azione non «buona», ma «giustificata»
Possiamo a questo punto raccogliere gli elementi utili. Nella valutazione di un’azione umana dobbiamo tenere conto di tre elementi: atto, intenzione e circostanze [sono gli stessi elementi, espressi con altri termini, che il Catechismo insegnava come risposta a quante cose sono necessarie per commettere un peccato mortale: materia grave, piena coscienza, deliberato consenso].
Mi permetto un esempio banale: «Ho dato una spinta a un bambino; ho fatto bene o male?». La risposta esatta è: «Dipende». Dipende dall’atto (violento e traumatizzante), dall’intenzione (per salvargli la vita), e dalle circostanze (in una emergenza). È importantissimo avere presente che in questo caso l’azione non è «buona», secondo il principio: bonum ex integra causa, bensì «giustificata», fino a essere doverosa.
L’itinerario di discernimento
Avendo ben chiaro l’insegnamento della Chiesa e gli orientamenti dei vescovi (che attendiamo), l’esortazione apostolica affida a noi preti il compito di accompagnare le persone interessate (ossia tutti!) sulla via di un responsabile discernimento.
Mi preme sottolineare che non sono i preti a dovere discernere – né tanto men o a giudicare – chi può e chi non può accostarsi alla comunione eucaristica; dobbiamo aiutare gli interessati a prendere consapevolezza della loro condizione davanti al Signore e alla Chiesa (**).
A tale proposito il documento offre indicazioni precise: «“In questo processo sarà utile fare un esame di coscienza, tramite momenti di riflessione e di pentimento. I divorziati risposati dovrebbero chiedersi come si sono comportati verso i loro figli quando l’unione coniugale è entrata in crisi; se ci sono stati tentativi di riconciliazione; come è la situazione del partner abbandonato; quali conseguenze ha la nuova relazione sul resto della famiglia e la comunità dei fedeli; quale esempio essa offre ai giovani che si devono preparare al matrimonio. Una sincera riflessione può rafforzare la fiducia nella misericordia di Dio che non viene negata a nessuno”. Si tratta di un itinerario di accompagnamento e di discernimento che “orienta questi fedeli alla presa di coscienza della loro situazione davanti a Dio. Il colloquio col sacerdote, in foro interno, concorre alla formazione di un giudizio corretto su ciò che ostacola la possibilità di una più piena partecipazione alla vita della Chiesa e sui passi che possono favorirla e farla crescere. Dato che nella stessa legge non c’è gradualità (cf. Familiaris consortio, 34), questo discernimento non potrà mai prescindere dalle esigenze di verità e di carità del Vangelo proposte dalla Chiesa. Perché questo avvenga, vanno garantite le necessarie condizioni di umiltà, riservatezza, amore alla Chiesa e al suo insegnamento, nella ricerca sincera della volontà di Dio e nel desiderio di giungere ad una risposta più perfetta ad essa”. Questi atteggiamenti sono fondamentali per evitare il grave rischio di messaggi sbagliati, come l’idea che qualche sacerdote possa concedere rapidamente “eccezioni”, o che esistano persone che possano ottenere privilegi sacramentali in cambio di favori. Quando si trova una persona responsabile e discreta, che non pretende di mettere i propri desideri al di sopra del bene comune della Chiesa, con un Pastore che sa riconoscere la serietà della questione che sta trattando, si evita il rischio che un determinato discernimento porti a pensare che la Chiesa sostenga una doppia morale» (AL 300).
Sottolineo i punti che scandiscono questo itinerario. La piccola esperienza che ho già potuto fare in questi ultimi mesi mi permette di considerare quanto mai adeguate le cinque domande a cui gli interessati sono invitati a rispondere.
Includere
La necessaria attenzione alle situazioni di fragilità sarà possibile solo all’interno di una complessiva proposta di pastorale familiare che comprenda la catechesi ordinaria sul sacramento del matrimonio che annunci il Vangelo della famiglia, la preparazione dei fidanzati al matrimonio, l’accompagnamento delle giovani coppie, l’aiuto nelle difficoltà, la vicinanza quando la morte pianta il suo pungiglione (capitolo VI).
Indubbiamente solo all’interno di una comunità cristiana viva e sensibile sarà possibile includere progressivamente le persone che chiedono di riavvicinarsi alla Chiesa e ai sacramenti. L’arte pastorale mirerà a non trascurare mai di prospettare l’ideale e contemporaneamente di tenere conto delle situazioni di fatto: «Per evitare qualsiasi interpretazione deviata, ricordo che in nessun modo la Chiesa deve rinunciare a proporre l’ideale pieno del matrimonio, il progetto di Dio in tutta la sua grandezza» (AL 307).
Comunque, «tutte queste situazioni vanno affrontate in maniera costruttiva, cercando di trasformarle in opportunità di cammino verso la pienezza del matrimonio e della famiglia alla luce del Vangelo. Si tratta di accoglierle e accompagnarle con pazienza e delicatezza» (AL 294).
Il papa si mostra anche consapevole delle legittime perplessità per la possibile confusione che questo approccio può rappresentare: «Comprendo coloro che preferiscono una pastorale più rigida che non dia luogo ad alcuna confusione. Ma credo sinceramente che Gesù vuole una Chiesa attenta al bene che lo Spirito sparge in mezzo alla fragilità: una madre che, nel momento stesso in cui esprime chiaramente il suo insegnamento obiettivo, “non rinuncia al bene possibile, benché corra il rischio di sporcarsi con il fango della strada”» (AL 308).
Pensando a Bologna
L’esortazione afferma che «i presbiteri hanno il compito di accompagnare le persone interessate sulla via del discernimento seguendo l’insegnamento della Chiesa e gli orientamenti del vescovo» (300).
Sono grato per questo incontro tra preti, che considero bello e utilissimo, per studiare e approfondire ]’insegnamento della Chiesa, parlando liberamente tra noi e con l’arcivescovo. Per quanto riguarda gli orientamenti «del vescovo», dobbiamo aspettarci indicazioni nazionali o regionali, oppure è necessario in diocesi elaborare linee convergenti di pastorale familiare? A tale proposito si possono formulare varie ipotesi: una nota dell’arcivescovo, ma anche l’indicazione di un ufficio in curia (vicario per la pastorale familiare), un confessore in cattedrale, un presbitero incaricato in ogni vicariato, un referente nel Consultorio familiare…
Rimane poi il grande compito di informare ed educare le comunità cristiane per fare di questo passaggio un’occasione di crescita complessiva, nella catechesi di bambini, giovani e adulti, nei corsi di preparazione al matrimonio, nei gruppi di spiritualità familiare… Occorrerà certamente coinvolgere gli sposi, anzi promuovere il loro ministero coniugale affinché siano loro i protagonisti della pastorale familiare.
Verità e letizia
È possibile a questo punto individuare quello che ritengo il cuore del servizio a cui –preti e laici – siamo chiamati: un’idea più adeguata (in senso evangelico) della verità. «Io sono la via, la verità e la vita», ha detto Gesù (Gv 14, 6). È già nella verità chi si mette sulla via. Una verità che deve essere testimoniata nella vita.
È fuori di dubbio che la dottrina della Chiesa sul sacramento del matrimonio deve rimanere inalterata per rimanere fedeli al Vangelo e all’uomo. Permanere nella verità, tuttavia, non significa immobilismo. Al contrario! È l’amore alla verità che «obbliga» – ci ha ricordato san Giovanni Paolo II – a discernere caso per caso, per non rimanere in superficie, con il rischio dell’ipocrisia, e per andare verso la singola persona, come alla ricerca di un tesoro. La verità non sono dei paletti inamovibili; è una strada da percorrere, seguendo lo Spirito che «guida a tutta la verità» (cf. Gv 16, 13).
Il problema dunque non è la contrapposizione tra tradizionalisti e innovatori, tra frati con la manica larga e preti con le maniche strette, ma la collaborazione nella ricerca della verità. L’amore per la verità supera i pur comprensibili timori per la possibile confusione circa la dottrina della Chiesa sull’indissolubilità del matrimonio in cui i fedeli potrebbero essere indotti se vedessero un divorziato risposato accedere alla comunione eucaristica. Questo potrà avvenire se preti e sposi testimonieremo l‘Evangelii gaudium e l’Amoris lætitia. Grazie.
Bologna, Seminario arcivescovile, 19 maggio 2016.
NOTE
(*) Ritengo onesto ricordare che la citazione di Familiaris consortio 84 riportata al n. 79 dell’esortazione riferisce solo la prima parte del testo di san Giovanni Paolo II. Riportata integralmente, suona così: «Sappiano i pastori che, per amore della verità, sono obbligati a ben discerner e le situazioni. C’è infatti differenza tra quanti sinceramente si sono sforzati di salvare il primo matrimonio e sono stati abbandonati del tutto ingiustamente, e quanti per loro grave colpa hanno distrutto un matrimonio canonicamente valido. Ci sono infine coloro che hanno contratto una seconda unione in vista dell’educazione dei figli, e talvolta sono soggettivamente certi in coscienza che il precedente matrimonio, irreparabilmente distrutto, non era mai stato valido. Insieme col Sinodo, esorto caldamente i pastori e l’intera comunità dei fedeli affinché aiutino i divorziati procurando con sollecita carità che non si considerino separati dalla Chiesa, potendo e anzi dovendo, in quanto battezzati, partecipare alla sua vita. Siano esortati ad ascoltare la Parola di Dio, a frequentare il sacrificio della Messa, a perseverare nella preghiera, a dare incremento alle opere di carità e alle iniziative della comunità in favore della giustizia, a educare i figli nella fede cristiana, a coltivare lo spirito e le opere di penitenza per implorare così, di giorno in giorno, la grazia di Dio. La Chiesa preghi per loro, li incoraggi, si dimostri madre misericordiosa e così li sostenga nella fede e nella speranza. La Chiesa, tuttavia, ribadisce la sua prassi, fondata sulla sacra Scrittura, di non ammettere alla comunione eucaristica i divorziati risposati. Sono essi a non poter esservi ammessi, dal momento che il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell’unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall’eucaristia. C’è inoltre un altro peculiare motivo pastorale: se si ammettessero queste persone all’eucaristia, i fedeli rimarrebbero indotti in errore e confusione circa la dottrina della Chiesa sull’indissolubilità del matrimonio».
Dalle stesse premesse i due documenti giungono a conclusioni diverse!? È sull’interpretazione di questa operazione che si stanno creando tensioni e resistenze. Sono convinto che si tratti non di un’operazione fraudolenta, ma piuttosto di una consapevole maggiore coerenza con i principi enunciati. Già nel testo di san Giovanni Paolo II, infatti, si precisa che «contraddicono oggettivamente», lasciando aperta una possibile giustificazione soggettiva. Inoltre la motivazione finale (indurre in errore e confusione) è di tipo pedagogico, non dogmatico. La pur necessaria attenzione a non scandalizzare i piccoli, non preclude la necessità di riconoscere quanto di vero e di buono c’è in una situazione non formalmente corretta.
(**) L’itinerario di discernimento non è alternativo alla via giudiziaria in ordine a una possibile dichiarazione di nullità del matrimonio. Se vi sono possibilità di percorrere questa strada è necessario quanto meno verificarne la praticabilità prima di partire, ricordando, tuttavia, che anche la «possibilità» di intraprendere questa via deve essere intesa con gli stessi criteri morali oggettivi e soggettivi.
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