Il 19 marzo si è aperto l’anno di ripresa di Amoris laetitia voluto da papa Francesco. Per l’occasione il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II ha organizzato un convegno di studio (qui). Ai lettori e lettrici di SettimanaNews proponiamo l’intervento di Pierangelo Sequeri – giunto al termine del suo mandato di preside a cui succede il prof. Philippe Bordeyne, finora rettore dell’Institut Catholique di Parigi.
In questa breve riflessione desidero abbozzare alcuni aspetti delle potenzialità sistematiche di sviluppo teologico-pastorale iscritte nella scelta metodologica e contenutistica del capitolo 4 di AL, sulla base della quale l’Istituto è impegnato a sviluppare una coerente articolazione dei temi che riguardano la condizione coniugale e famigliare nella società e nella Chiesa.
Il capitolo 4, che sta al centro del testo e ne rappresenta evidentemente il cuore, è segnato in primo luogo da un gesto sorprendente. Il capitolo è intitolato “L’amore nel matrimonio”: è l’evocazione semplice e diretta del focus che caratterizza la riscoperta della teologia dell’amore coniugale di questi decenni. Il testo biblico di riferimento, però, non è il Cantico dei Cantici: sia pure in tutti i livelli di senso che caratterizzano la sua recezione nella tradizione ebraica e cristiana.
Amore: una parola da dire con rispetto
Il testo scelto è quello del famoso Inno ad agape del capitolo 13 della prima Lettera ai Corinzi. Il brano è un testo fondatore dell’amore evangelico, dell’amore rivelato, dell’amore che lo Spirito riversa nei nostri cuori (Rom 5, 5). Questo amore, com’è noto proprio attraverso il testo di Paolo, fa la differenza in tutte le differenze – anche le più estreme – della perfezione spirituale, della donazione totale, del sacrificio radicale.
Questa agape è il modo stesso di quella misteriosa presenza dello Spirito che dà valore a tutto, compresa la fede stessa: “E se avessi […] la pienezza della fede che trasporta le montagne, ma non ho l’agape, non sono nulla” (1 Cor 13, 2). Tutti avvertiamo immediatamente che questo è un detto di Gesù, concordemente riportato dai vangeli sinottici, che ci sembrava alludere ad un’evidenza inconfutabile e compiuta della fede richiesta per l’accesso al regno di Dio (Mc 11, 23; Mt 17, 20; Lc 17, 6).
La parola “amore”, ricorda l’Esortazione di papa Francesco (n. 89), citando una costatazione dell’Enciclica di Benedetto XVI Deus caritas est (n. 2), così spensieratamente utilizzata, “molte volta appare sfigurata”. Un nuovo rispetto, una nuova delicatezza, una nuova profondità devono accompagnare la riabilitazione cristiana della parola amore.
Questa cura riguarda anche l’amore coniugale, che la grazia del sacramento è destinata a perfezionare. Anche per esso – che ora è giustamente alla sommità della narrazione teologica dell’amore umano – vale la parola di rivelazione testimoniata da Paolo: se non è agape, non è niente.
Dare ospitalità ad agape
La prima pista di approfondimento e di valorizzazione sistematica di questo rimando diretto dell’amore coniugale alla custodia di agape, riguarda appunto il rinnovamento di prospettiva. L’amore coniugale va cristianamente concepito, esso stesso, come uno speciale significante esistenziale dell’agape di Dio che lo trascende: un modo e un luogo preciso della sua ospitalità all’interno della condizione umana, nel solco del comandamento creaturale mediante il quale Dio affida all’alleanza dell’uomo e alla donna il mondo e la storia.
L’amore coniugale non è l’agape di Dio, è il suo sacramento. Non c’è competizione degli assoluti nell’economia della creazione, della salvezza, del compimento del mondo e della storia. Dio soltanto “è amore; Dio soltanto “è buono”; Dio soltanto “è”. L’assoluto principio della giustizia di ogni affezione che apre il desiderio umano alla speranza della sua destinazione è lo Spirito di Dio: che fa il lavoro del “regno di Dio” (Rm 8).
Senza ricerca del suo segreto e quotidiano appuntamento con l’agape di Dio, che vince persino la morte, anche l’amore coniugale sarebbe “niente”. Dunque anche l’amore coniugale è chiamato a misurarsi con agape: non è semplicemente la sua enfasi romantica, non è semplicemente la sua regolazione morale. Nello stesso tempo, è un significante molto speciale per l’agape di Dio: essenziale all’economia divina nella storia del mondo, singolare, insostituibile, esclusivo.
Dunque, il legame coniugale si assume il compito – bello e difficile – di ospitare agape proprio nel suo modo speciale di essere: esso diventa significante di agape, e pertanto manifestazione, testimonianza, rassicurazione, promessa dell’agape di Dio, nello svolgimento della sua storia effettiva.
Nei modi molto specifici, e molto speciali, di questa alleanza dell’uomo e della donna, che include l’armonizzazione dell’intimità sessuale e della fecondità generativa, prende forma e forza l’attestazione della speciale affinità e simpatia dell’agape di Dio per l’amore umano. Nello stesso tempo, si apre un itinerario della fede molto stimolante per l’interrogazione della qualità che è propria a questo legame – quello coniugale, appunto.
Che cosa porta nell’esperienza umana del senso e della storia il progetto di un’alleanza così intima e profonda della differenza più enigmatica e misteriosa che conosciamo? La differenza dell’uomo e della donna, in effetti, ad uno sguardo non superficiale, parla di una incompiutezza irriducibile del singolo essere umano, destinata a lasciarsi decifrare nella sua mancanza e nella sua promessa soltanto mediante l’esperienza dell’uomo e della donna che accettano di diventare “una sola carne”.
Questa differenza è la più impegnativa da trasformare in un’alleanza d’amore capace di cristallino rispetto dell’identità reciproca: senza prevaricazione, senza strumentalizzazione, senza disparità. Eppure, ogni volta che è superata la guerra dei sessi, per ogni altra guerra c’è speranza.
Questa impostazione, oltretutto, consentirà una più equilibrata trattazione della correlazione dell’obbedienza al comandamento creaturale e al sigillo sacramentale del matrimonio con l’obbedienza alla chiamata personale di Dio in deroga a quell’ingiunzione e a quel sigillo, in vista dell’avvento del regno che deve essere aperto a tutti.
Entrambe le obbedienze, quella ministeriale e quella carismatica, in ultimo, non possono che essere concepite come significanti esistenziali di agape: la cui perfezione nessuno possiede, esaurisce o requisisce in proprio. E in questa convergenza devono entrambi concepirsi come servizio d’amore e presidio di fede: nessun’altra giustificazione è all’altezza di questa differente sequela del Signore.
Legami famigliari
L’estetica e la drammatica del legame coniugale non esauriscono, tuttavia, la grammatica famigliare della condizione umana, chiamata a farsi significante esistenziale dell’agape di Dio. I legami caratteristici delle figure proprie della costellazione famigliare – maternità, paternità, figliolanza, fraternità, genealogia e comunità – devono essere più profondamentre interrogati a riguardo della loro speciale attitudine a costituirsi come significanti dell’agape di Dio connessi e al tempo stesso irriducibili al significante esistenziale della coppia coniugale.
La teologia attuale deve avviare un deciso cambio di passo a questo proposito. L’enfasi rivolta all’esaltazione della profondità e dell’altezza simbolica dell’amore di coppia, a rischio di eccessi mistico-romantici che appaiono evangelicamente e antropologicamente incongrui, deve essere riequilibrata dalla più appassionata riabilitazione degli speciali legami che prendono forma nella costellazione famigliare.
La valorizzazione di questa costellazione può agevolmente riconoscere nella Parola di Dio e nella tradizione della fede le icone di un profilo alto della loro attitudine a illuminare il mistero dell’agape di Dio: nelle pieghe della sua intimità trinitaria come nello splendore della sua economia di incarnazione, di redenzione e di compimento.
La dogmatica cristiana custodisce sin dall’inizio l’alto profilo e l’insuperabile rivelazione dell’Unigenito del Padre (Gv 3, 16), Primogenito di molti fratelli e sorelle (Rom 8, 29); della Maternità divina di Maria che sigilla l’incarnazione irrevocabile del Figlio eterno (Mt 1, 18); della fecondità dello Spirito che concepisce e rigenera la vita della nuova creatura nel grembo del Padre (Rm 8, 15-23).
Nello stesso tempo, la trasparenza evangelica della rivelazione, nelle parole e nelle opere del Signore, incoraggia con totale determinazione a tenere al riparo questa profondità teologale della condizione famigliare dell’umana creatura, dall’eccesso di una retorica idealistica e moralistica che sbarra la strada alla logica dell’alleanza di Dio: amorevole, riparatrice, priva di ogni imbarazzo nella frequentazione di una condizione umana ferita dalla debolezza e dal peccato (Fil 2, 1-11).
La bellezza e la concretezza di questa attitudine del Figlio Gesù, che si pone come termine di paragone per ogni sequela e per ogni affidamento, è illustrata – in modo commovente – dalla sequenza degli atteggiamenti esemplari di agape che aprono la seconda tavola del dittico di 1 Corinzi 13. L’agape è paziente, benevola, non è invidiosa, non si vanta…”.
Le qualità domestiche della cura
Nella prima tavola del dittico, eravamo messi di fronte all’abissale profondità e alla sublime altezza di agape: mistero di una grazia che ci è indispensabile e che, nello stesso tempo, non possiamo adeguare neppure con le nostre performances religiose apparentemente più alte e radicali.
Ora, nella seconda tavola, con effetto di spiazzamento inatteso, quella stessa agape mostra di essere accessibile nelle qualità più semplici e più domestiche della cura, del disinteresse, della tenerezza, della riparazione. Quelle che si imparano nell’iniziazione e nella mediazione famigliare della relazione umana. Non è un linguaggio esoterico per gli iniziati, e neppure un linguaggio mistico per gli angeli.
È il linguaggio delle parabole evangeliche, che parla dell’avvento del regno nella potenza della tenerezza, nella signorilità della misericordia, nella riparazione dell’ingiustizia, nella tenuta della fedeltà che non cede né alla violenza né alla rassegnazione. In questo punto esatto del lavoro del regno fra noi si apre la via di agape.
Essa diviene accessibile nel linguaggio teologicamente non sofisticato della condizione umana che ci è comune, e parla la lingua del lessico famigliare che ci ha introdotti alla vita. Il significante famigliare dell’iniziazione alla giustizia delle affezioni è la lingua materna dell’evangelizzazione, in cui si comunica la compiuta rivelazione di Dio nel Figlio, che riapre la storia.
L’alleanza coniugale e la costellazione famigliare dell’amore sono in questo punto di incrocio. Nel momento stesso in cui non pretendono di sostiuire l’agape di Dio e l’assoluto del suo regno, proprio allora si sentono portate dall’agape di Dio e nobilitate dalla loro vocazione a farsi parabola e sacramento della possibilità – mai revocata, succeda quel che succeda – di accesso al regno di Dio.
Molti e molte che sembravano in fondo alla fila, toccati da questa testimonianza, che riscatta le loro più segrete speranze, forse ci passeranno addirittura davanti, nello slancio del loro entusiasmo. Dovrà essere un motivo di gioia, perché in cielo succede così. E comunque, di certo, nessuno di noi sarà lasciato indietro, soltanto perché la nostra fragilità ci ha reso più vulnerabili.
Il nostro amore autentico è sempre un amore salvato: la prossimità evangelica, mediante la dedizione della testimonianza e la circolazione della fraternità, colma i vuoti, nel transito al compimento del regno di Dio. Il passaggio è sempre da persona a persona: la fedeltà è l’onore della promessa e il coraggio dell’attesa, costi quello che costi.
E del resto, non c’è amore – e commozione – più grande di quella che si rallegra per i nuovi arrivati e rimane ospitale per i dispersi. I tempi si allungano un po’, certo. Ma è proprio così che la generazione di nuovi fratelli e sorelle trova in qualsiasi momento accoglienza disinteressata e aria di famiglia.
Nella Chiesa, questa ospitalità dell’agape di Dio, che onora la genealogia famigliare e rende lieta la generazione filiale, tutto ciò può e deve accadere come segno della prossimità del regno di Dio. E accadrà di nuovo, proprio in questo tempo che ci è affidato da Dio.
Se soltanto la costellazione famigliare ritorna ad essere l’asse portante del ministero evangelico della fede, che restituisce ogni nascita alla promessa della creazione e alla grazia della sua destinazione.