Fra le rivoluzioni silenziose in atto vi è la crescita delle famiglie mononucleari o unipersonali. Un dato ormai socialmente rilevante, che pone nuove domande alla pastorale per gran parte proiettata sulle famiglie e sulle coppie.
Per i celibi pare non esserci alcuna proposta e poca attenzione. Per questo è utile segnalare i primi elementi di una consapevolezza destinata a crescere, come un articolo apparso su Etudes (10,2022, pp. 81-92) a firma di Christelle Javary.
In Francia sono 12 milioni le persone che vivono da sole (non sposati, divorziati, vedovi e vedove ecc.). Ma il fenomeno non è meno rilevante in Italia. In un articolo di Roberto Volpi sulla base dei dati del censimento nazionale del 2021 (Corriere della sera, 21 agosto 2022) si afferma che, su 56 milioni di abitanti, vi sono in Italia 8,5 milioni di persone che vivono sole. Se, nel 2001, il rapporto tra famiglie composte di un solo elemento e famiglie con figli stavano in una proporzione di 58 a 100, nel 2011 di 79 a 100, nel 2022 il rapporto si è rovesciato, 102 a 100.
I celibi oggi rappresentano una famiglia su tre dei 25,6 milioni di famiglie italiane. Per quanti vivono fuori della famiglia, fra i 25 e i 34 anni, 1,4 milioni di persone non sono sposate. Per gran parte sono collocate nelle aree metropolitane e al Nord. Un cambiamento che alza molte domande sul versante professionale, economico, abitativo ecc. Ma, in particolare, sul tema della famiglia e della fecondità. Secondo stime dell’ONU entro il 2100 l’Italia può perdere 22 milioni di persone.
Il dibattito sulla maternità, voluta o rifiutata, emerge anche sui media. Sono indicativi alcuni podcast de La Stampa dal titolo: «Da quando ho dei figli per me sono meraviglia e rottura»; «Non ho figli e non ne faccio una bandiera»; «Sono mamma per incoscienza»; «Nessuno mi chiamerà mamma»; «I figli che non voglio».
Domande, attitudini, attese
Delle domande sul versante ecclesiale vi sono scarse tracce. Fra queste: qualche riga del Catechismo della Chiesa cattolica (n. 1658), un passaggio del discorso di Giovanni Paolo II il 20 settembre 1996, un cenno in Amoris laetitia (n. 196) e un numero dell’esortazione apostolica Christus vivit (n. 267).
La maggioranza dei celibi cristiani si sentono emarginati in una Chiesa dove gli stati di vita riconosciuti sono quelli consacrati e quelli familiari, specchio di una certa emarginazione anche sociale. Come gente “non riuscita”.
Le attitudini che sembrano connotare questa porzione del popolo di Dio sono: risentimenti dolorosi, bisogno di speranza, ricerca di fecondità. Fra le loro attese vi è anzitutto quella di parlare positivamente del corpo, non come nemico da piegare, ma come un dono da sviluppare. Non è necessaria una sistematica relazione sessuale per vivere appieno la propria mascolinità o femminilità.
La seconda attitudine da sviluppare è il sentimento di vivere nell’attesa, con una certa difficoltà a prendere in mano la propria vita. Diventa difficile per loro acquistare un appartamento, cambiare lavoro, trasferirsi altrove. Il futuro non è scandito dall’attesa di figli e da una vecchiaia accudita. La prospettiva di un incontro decisivo li espone ad errori e a diventare vittime di un mercato effimero. Essi possono tuttavia mostrare che il presente è comunque prezioso e può essere vissuto in pienezza, anche davanti a Dio.
Un terzo atteggiamento è la ricerca di fecondità. In assenza di figli, diventa grande la tentazione di sostituire il preteso fallimento affettivo con il successo professionale, che non sarà comunque mai sufficiente per dare completezza a una persona.
Va rimarcato, tuttavia, che il dono di sé vale per il matrimonio, per la consacrazione e per il celibe allo stesso titolo e che la fecondità non si misura soltanto con il numero di figli. È piuttosto una disponibilità interiore e un gesto di obbedienza a Dio. Più che sviluppare una specifica pastorale per loro, vanno riconosciuti i loro doni e carismi dentro il vissuto della vita ecclesiale.
Elementi di attenzione nei loro confronti si registrano anche in altre confessioni cristiane. Per esempio, nel volume della teologa protestante americana Christina S. Hitchcock che ha dedicato uno studio alla vita dei “singoli” (The significance of singleness) o in un passaggio di un testo conciliare ortodosso Per la vita del mondo. Verso un ethos sociale della Chiesa ortodossa ai nn. 20 e 28.
Nel primo si dice: «Tradizionalmente l’ortodossia tendeva a riconoscere solo due stati, quello monastico e quello del matrimonio, ma sarebbe una profonda inadempienza della responsabilità pastorale della Chiesa il non riconoscere che, mentre la vita da celibe era assai rara nelle generazioni precedenti, cambiamenti culturali e sociali nell’era moderna l’hanno ora resa considerevolmente più comune».
Stato di vita (forse provvisorio)
In Francia vi sono i collettivi “celibatari nella Chiesa” che funzionano dal 2017. Il collegio Bernardins vi ha dedicato due colloqui. Si può registrare un numero di Documents Episcopat («Celibi, celibe. Quali prospettive nella Chiesa?» n. 3, 2010); il volume di D. de Monleon Cabaret, Dio non mi ha dimenticato. Prospettive per celibatari, Saint Paul 2013; Io esisto. Uno sguardo diverso sui celibatari, Emmanuel 2020; il saggio di Christoph Theobald, «Quale cammino proporre alle persone che non sono chiamate al matrimonio o alla vita consacrata?», nel volume Sinodo sulla vocazione e missione della famiglia nella Chiesa, Bayard 2016).
Difficile per loro poter parlare di “vocazione” perché spesso non è una scelta voluta ma un dato di fatto. Del resto, anche per la scelta matrimoniale l’indicazione di “vocazione” è assai tardiva. Ma come il matrimonio è stato progressivamente valorizzato per quello che è in sé stesso e non in ragione della scelta celibataria ministeriale o religiosa, così per il celibe. La sua appartenenza alla Chiesa è piena grazie al battesimo e con esso è chiamato alla santità.
Usare l’espressione “stato di vita” «forse fa meno sognare ma è più prudente e realista. Se sono celibe, è il mio stato di vita, lo stato della mia vita oggi, che non impegna l’avvenire ma mi invita a prendere sul serio l’hic et nunc (qui e ora), la realtà di quello che io sono e di quanto mi viene offerto ora» (Etudes p. 86).
Il termine “stato di vita” riappare nel suo senso strumentale, utile per indicare una nascente identità cristiana, quella appunto dei celibi.
Vocazione o stato di vita? mi pare interrogativo mal posto. Non esite persona senza vocazione, che è chiamata alla vita piena comunque, altrimenti il Signore non la avrebbe creata. Il celibato può essere legato a tante circostanze diverse ma resta nella chiesa vocazione non riconosciuta, come se, senza esercizio della sessualità, non si potesse essere uomini o donne pienamente, salvo dentro situazioni istituzionali (sacerdozio o vita consacrata). Quanti celibi vivono una relazione col Signore con una solitudine imposta dal non essere chiamati ad una vita consacrata così come è. Finirà che ci sarà più accoglienza per unioni diverse da quelle tra un uomo e una donna che non per scelte celibatarie “altre”. Charles De Foucauld esce dalla vita monastica che è sempre sinonimo di accoglienza per farsi presenza agli altri da visitatore solitario, ed è cosi che diventa fratello universale. Solo una apertura vera ai solitari può far crescere la fraternità.
Io trovo che le unioni “altre” siano un dono magnifico per la chiesa, per cui spero profondamente in una maggiore accettazione delle stesse. Ma ovviamente, anche per le persone che si trovano a vivere una stato di vita “celibe” come condizione di fatto, non deve esserci dimenticanza. Io trovo terribile l’ipotesi politica, voluta anche da certi cattobigotti spauriti, di far pesare il celibato sulle spalle delle persone single (ovviamente tranne quelle consacrate) ad esempio con una tassazione più dura per loro. Sembrano illazioni folli, ma qualche politico riconducibile a questo modo di pensare esiste e fa sinceramente paura. Speriamo in un cambio totale di tendenza
Buongiorno,
Mi chiamo Eva ho 50 anni. Ho letto con attenzione l’articolo e le domande che si pongono. L’assioma di partenza è indicativo per il procedere nella riflessione.
La domanda che ascolto è: questione di destino? Direi di no. Non esiste lo stato d’essere ma la vita nel divenire che offre spunti e occasioni di crescita. L’individuo cresce attraverso la formazione di un pensiero. La società odierna incentrata su utilitarismo e individualismo trova un’economia e una proposta sociale distante dai valori di famiglia. In Italia in particolar modo la media di coloro che rimangono sotto la protezione materna/paterna si aggira attorno ai 7 milioni (dato ISTAT agosto 2022). La media degli uomini/donne che tornano a vivere con i genitori dopo un fallimento matrimoniale è attorno al 54%. Coloro che vivono da soli ahimè sono persone che lavorano molto per riuscire a mantenersi.
Fatta questa premessa la domanda è: quali opportunità in termini di tempo si offrono ai single, se il caro vita e la frenesia moderna sono freni costanti per dedicarsi all’altro? Il tempo si costituisce nella parola e nell’ascolto, dimensione fondamentale per conoscerci e conoscere. Il proprio IO, oggigiorno si sostituisce a Dio. Come può crescere una famiglia cristiana?
Speriamo solo che la nuova ministra passionaria alla natalità non riproponga la tassa sul celibato!
Non voglio sembrare esagerato, ma credo che ci sono tanti celibi in Italia che vivono già un vita consacrata senza avere emesso i voti di povertà, obbedienza e castità. E forse la loro “consacrazione” è in termini di testimonianza migliore rispetto a quella di tanti/e consacrati/consacrate. Interessante articolo!
concordo e aggiungo e vivono una marginalità sconfortante nella Chiesa!