Irregolarità, fallimento, discernimento

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La mia prima reazione di fronte alle parole che leggo – che siano saggi, poesie, romanzi, articoli – è sempre una reazione epidermica. Come quando si sfiora con la mano una superficie e, senza bisogno di guardare, il tocco restituisce consistenza e identità – legno grezzo, plastica rigida, vetro bagnato, panno di lana, stoffa sintetica, tela di lino. L’analisi del testo arriva in un secondo tempo, ed è sempre una bella conferma quando il «sentire» della prima, veloce lettura trova riscontro nelle evidenze portate alla luce dalla riflessione.

Ho letto l’articolo di Emanuele Tupputi recentemente pubblicato su SettimanaNews con il titolo Amoris laetitia: norma, misericordia e coscienza (cf. qui), e sono uscita dalla prima e rapida lettura con una fastidiosa sensazione di disagio, come quando si sfrega accidentalmente la mano su un foglio di carta vetrata. Inevitabile che ritornassi a leggere il pezzo in modo puntuale, per cercare di capire quali parole e quali passaggi m’avessero fatto da carta abrasiva.

Vite irregolari

La prima parola che mi ha sfregato la pelle è stato l’aggettivo irregolare. L’autore usa questa parola per indicare le persone divorziate che, dopo aver iniziato una nuova relazione, o si sono risposate civilmente o hanno scelto la convivenza senza matrimonio. Il termine ritorna nell’articolo una dozzina di volte, in parte anche per citare passaggi di Amoris laetitia, che pure a questo termine ricorre, per quanto in modo significativamente diverso.

Intanto, la frequenza d’uso: se in Amoris laetitia (56.500 parole complessive) il termine irregolare/irregolarità compare sei volte, nell’articolo di Tupputi (5.000 parole), lo stesso termine ritorna dodici volte. Papa Francesco usa questa espressione con una sorta di cautela, diluendola, per così dire, all’interno del suo lungo documento; l’uso ripetuto e insistito che ne fa Tupputi va, di contro, ad aumentare con decisione il peso specifico della parola all’interno del suo breve articolo e dei contenuti che con l’articolo vuole comunicare.

Poi, la forma: in Amoris laetitia l’aggettivo è sempre virgolettato e presentato all’interno dell’espressione situazioni cosiddette «irregolari»; nell’articolo del nostro, invece, il termine funge da attributo senza correttivi, se non nei casi in cui viene citato espressamente il documento del papa.

Da quelle virgolette e da quel cosiddette, passa un mondo. Le virgolette e il correttivo cosiddette/dette comunicano la consapevolezza del portato di violenza giudicante intrinseco all’aggettivo irregolare, e dicono la difficoltà di chi sta cercando una parola che possa definire una situazione senza risultare offensiva per chi, dentro quella situazione, ci vive. Dalle virgolette passa la delicatezza di chi sa quanto le parole possano essere cattive e, proprio per questo, nel caso in cui la lingua non metta a disposizione altre possibilità, per lo meno si premura di usare le parole cattive con circospezione, cercando di limitare le ferite. Sappiamo bene quanto abbia pesato, nella storia di innumerevoli persone, la distinzione tra figli legittimi e figli illegittimi o naturali, presente nel nostro Codice Civile fino al 2012. Figlio illegittimo. Figlia naturale. Figliastri. Vite bollate dal marchio offensivo di un pronunciamento mortificante.

Amoris laetitia parla con delicatezza delle situazioni dette «irregolari»; la delicatezza di Amoris laetitia nell’articolo di Tupputi non c’è. Il giudizio arriva perentorio. Situazione irregolare – punto e basta. È Vangelo, questo?

Poi ci sono le vite e le storie delle persone che fanno, oggi, la vita e la storia delle nostre comunità. Mi guardo intorno, una qualsiasi domenica mattina del tempo ordinario. Siamo una manciata di persone, amici e amiche che da anni condividono la fede come desiderio e come impegno di vita. Ogni domenica mattina ci ritroviamo, prepariamo i canti, le letture. Fra noi c’è chi segue il catechismo, chi organizza attività dell’oratorio, chi si dà da fare con gli anziani. Una parrocchia come tante, dove negli ultimi venti anni le presenze «regolari», cioè costanti e continue, alla messa domenicale si sono ampiamente dimezzate. E dove un buon terzo di queste presenze «regolari» – i cosiddetti cristiani «frequentanti» –, sono dovute a persone che vivono situazioni di vita che, stando all’articolo in esame, sono da definire irregolari tout court. A pensarci, proprio un bel paradosso, che la vitalità della nostra Chiesa sia affidata anche ad una significativa percentuale di frequentanti regolari che vivono situazioni irregolari…

Irreversibilmente falliti

Fallimento è una parola pesante, pesantissima. Ti arriva addosso come una slavina. Magari la vedi anche arrivare, la slavina, ne percepisci il rumore sordo, ti metti in allerta, cerchi di ripararti in qualche modo, ma niente, non trovi vie di fuga, il vortice ti travolge e non c’è scampo. Se ti dicono che hai fallito, se continuano a ripeterti che nella tua vita c’è stato un fallimento, se cominci a pensare di avere fallito, se arrivi a sentirti un completo fallimento, riemergere dal cumulo di neve che ti sovrasta richiede sforzi sovrumani. E a volte non basta una vita, per tornare in superficie e prendere fiato.

Capisco che l’argomento è complesso e che merita di essere meditato molto a lungo. Mi limito qui ad una semplice osservazione di carattere linguistico. All’espressione fallimento matrimoniale per il settimo sacramento non corrisponde l’espressione fallimento sacerdotale per il sesto. Una coppia che mette fine al proprio matrimonio fallisce il matrimonio («la Chiesa deve sapersi fare carico delle circostanze in cui si può trovare chi ha fallito il matrimonio», scrive Tupputi); un prete che non vuole più fare il prete rinuncia allo stato sacerdotale.

Tra fallire e rinunciare passa una sostanziale differenza di diatesi. Da una parte ci sono persone sprovvedute o temerarie o incoscienti, inaffidabili o forse incapaci, per colpa loro o di altri o delle circostanze – le attenuanti si possono sempre trovare –, di mantenersi salde nei propositi e portare a compimento i propri progetti senza farsi travolgere dalle difficoltà della vita. Dall’altra c’è il riconoscimento di una attiva capacità di presa di decisione, per quanto in forma di rinuncia e per quanto faticosa o dolorosa questa decisione possa essere.

La parola fallimento seppellisce impietosamente e senza misericordia esperienze, cambiamenti interiori, vite e persone, e quasi mai si tratta di degne sepolture.

E intanto la carta smeriglio di Tupputi grattava, grattava…

Sero sapiunt Phryges

Ma la parola che più ritorna nell’articolo è la parola discernimento. Non è una parola abrasiva, discernimento, anzi. Dice la straordinaria capacità umana di operare distinzioni che, permettendoci di vedere le cose, si fanno preludio irrinunciabile ad ogni vera possibilità di scelta. Non c’è scelta senza discernimento. Non c’è decisione senza discernimento. Non c’è comprensione, senza discernimento.

Tupputi, riprendendo il capitolo 8 di Amoris laetitia, sottolinea in modo perentorio come la lunga strada del discernimento sia imprescindibile nell’agire pastorale di chi accompagna le situazioni matrimoniali cosiddette «irregolari» (per dirla con papa Francesco) e nello stesso cammino interiore di chi, trovandosi in tali situazioni, si metta in dialogo profondo e non estemporaneo con la propria coscienza, per assumere fino in fondo le proprie responsabilità.

Più le situazioni sono confuse ed opache, più il lavorio del discernimento richiede pazienza, è inevitabile. E, a ragione, una situazione critica che coinvolge più persone non può che passare attraverso un lungo discernimento. Riammettere ai sacramenti i divorziati risposati o conviventi comporta, quindi, un percorso lungo, serio, responsabilizzante. Come si può non essere d’accordo?

C’è un proverbio latino, ricordato da Cicerone in una delle sue lettere Ad familiares, che suona così: Sero sapiunt Phryges. I Frigi, cioè i Troiani, sono diventati saggi troppo tardi. Dieci anni di guerra e un impensabile tributo di sangue, prima di capire che valeva la pena restituirla subito, Elena, a Menelao.

Il proverbio mi è venuto alla mente proprio mentre leggevo le indicazioni pastorali e operative contenute nell’articolo. Tanto lavoro di discernimento, tanto impegno, tanto tempo, per capire se sussistano i presupposti per chiedere la dichiarazione di nullità del primo matrimonio o comprendere se, alla luce di queste riflessioni ed aiutato da chi nella Chiesa è in grado di aiutarlo, il fedele divorziato può prendere con l’aiuto della grazia e della Chiesa le decisioni sul cammino da intraprendere per tornare a vivere l’amore «per sempre» anche in questa nuova situazione.

Tanto doveroso, giusto, impegnativo lavoro di discernimento. A posteriori, però. E prima? Quanto lavoro di discernimento «prima»? Sero sapiunt

Sproporzione

Anche qui, un’osservazione. Lunghi anni di preparazione per il sesto sacramento, che coinvolge la decisione di una sola persona, chiamata a maturare una scelta che impegna la sua sola vita. Una manciata di incontri, qualche serata al mese per qualche mese, un anno al più, da dedicare alla preparazione di un sacramento che coinvolge la responsabilità, la decisione e l’impegno reciproco, per la vita, di due persone. Due persone che, tra l’altro, per la Chiesa di quel sacramento sono i soli e unici ministri.

La sproporzione dei pesi dei due sacramenti è evidente. Per il sacramento dell’ordine, lunghi anni di preparazione e la possibilità, dopo l’ordinazione, di rinunciare al sacerdozio e sposarsi religiosamente, una volta ottenuta la dispensa. Una preparazione di gran lunga più contenuta in termini temporali per il sacramento del matrimonio, e per tutta la vita il peso del fallimento sulle spalle, nel caso in cui il matrimonio finisca.

La materia è molto complessa e dà molto a pensare. Certo, uscire dalla mentalità giudicante che marchia come fallite e irregolari tante situazioni esistenziali potrebbe essere già un primo passo. La vita ci sta raccontando storie che le parole di tanti documenti ecclesiastici non riescono più a contenere.

Lo Spirito soffia, ispira, suggerisce. A Trento, cinquecento anni fa, e non al tempo di Gesù e delle prime comunità cristiane, si è definita la forma sacramentale del matrimonio – settimo sacramento anche in ordine di tempo. Perché non pensare oggi a nuovi percorsi di sacramentalità coniugale, magari strutturati per tappe, come nel cammino di formazione al sacerdozio e alla vita religiosa? Potremmo gioire insieme ai giovani che ancora cercano la Chiesa per benedire le loro intenzioni e accompagnarli con gradualità nello sbocciare e nel fiorire di una vocazione coniugale che possa poi essere celebrata come sacramento.

Utopie, credo. Pensare ad un percorso a tappe per il sacramento del matrimonio ci chiederebbe di uscire dalla impostazione che pre-giudica e colpevolizza la sessualità, e per una Chiesa che ha posto il celibato obbligatorio al vertice della propria struttura gerarchica questa è una strada troppo difficile da percorrere.

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9 Commenti

  1. Emanuele Castelli 26 settembre 2023
  2. Emanuele Curzel 26 settembre 2023
  3. Carlo 26 settembre 2023
  4. Fabrizio 26 settembre 2023
    • Adelmo Li Cauzi 26 settembre 2023
  5. Tobia 26 settembre 2023
  6. Fabrizio Di Nunzio 25 settembre 2023
  7. Adelmo Li Cauzi 25 settembre 2023
  8. don Erminio Burbello 25 settembre 2023

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