Reportage dalla zona di Bihać (Bosnia ed Erzegovina), che aiuta a fare veramente luce su quello che sta succedendo nella regione dopo la chiusura del campo Vučjak – al di là di notizie, riprese anche dai media italiani, volte più a gestire l’opinione pubblica che la vita delle persone.
Caro Daniele, il 29 novembre scorso hai segnalato a Settimana News una situazione sempre più critica dei migranti in transito lungo la rotta balcanica, in particolare nel campo di Vučjak, in Bosnia, verso il confine con la Croazia. Puoi ricordare come si è ingenerata la particolare situazione?
La rotta balcanica è la più frequentata dai migranti provenienti dai paesi del Medio Oriente e dell’Asia, senza esclusione di migranti dall’Africa. Tutti cercano di entrare in Europa. Dal 2018, ossia dalla costruzione del muro tra l’Ungheria e la Serbia, la rotta attraversa la Bosnia e converge sulla città di Bihać, a pochi chilometri dal confine con la Croazia. 40.000 persone hanno percorso la rotta nel 2018.
Numeri analoghi se non superiori saranno ufficialmente registrati alla fine del 2019. Per tutta la durata dell’anno le persone – uomini soli in prevalenza, ma anche intere famiglie e persino minori non accompagnati – cercano di passare. I tentativi vengono ripetuti, nonostante i duri respingimenti, sinché, alla fine, si riesce nell’intento. Ma questo avviene a prezzo di inaudite e prolungate sofferenze insieme a continui e illeciti esborsi di denaro. Il tutto avviene in assenza di una regolazione politica – di alta politica – effettiva del fenomeno.
I periodi più critici sono, ben comprensibilmente, quelli che precedono l’inverno, con l’inverno stesso, per chi decide comunque di muoversi. In autunno, solitamente, la rotta si fa più affollata, l’assistenza mostra tutti i suoi limiti, si ingenerano situazioni ancor più drammatiche. È quanto accaduto appunto a Vučjak.
Il campo di Vučjak (a una decina di chilometri da Bihać) è stato allestito in maniera del tutto improvvisata, all’inizio dell’autunno, là dove si trovava una discarica. La polizia del Cantone Una Sana vi ha convogliato – diciamo con determinazione – sino a 750-800 persone, nel tentativo di togliere la loro presenza dalla città e di evitare le proteste della popolazione locale. Ma era facilmente prevedibile quel che sarebbe presto accaduto.
Che cosa è successo?
Come Caritas e come altre organizzazioni umanitarie avevano previsto e annunciato, le condizioni a Vučjak si sono rivelate presto insostenibili: senza acqua, senza energia, senza servizi di alcun tipo… sotto tende improvvisate nel fango… con pasti preparati autonomamente dai migranti in qualche modo… in attesa della neve e del gelo.
Di ciò ha preso visione la Commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa Dunja Mjatović. Dopo il sopralluogo ha denunciato quel che stava accadendo nel corso di una conferenza stampa a Sarajevo il 6 dicembre scorso: ha detto che quel campo non doveva mai essere aperto e che doveva essere immediatamente chiuso. A quel punto, le autorità locali hanno dovuto intervenire. Nel breve giro di una mattinata, il giorno 10 di dicembre, circa 700 persone sono state trasportate da 14 bus, mentre le ruspe sono entrare in azione per “spianare” il campo.
La notizia – fatta circolare ufficialmente dalle autorità – dava per certo l’accompagnamento dei migranti in centri di accoglienza, sia in prossimità di Sarajaevo che di Mostar. Questo è stato riportato anche dai media italiani recentemente. In realtà sappiamo con certezza che le cose non sono andate in quel modo. Non c’erano e non ci sono affatto centri di accoglienza in Bosnia pronti e attrezzati per ricevere queste persone. La notizia è stata data probabilmente per tacitare la popolazione e l’opinione pubblica.
La realtà che stiamo osservando è che le circa 700 persone che hanno lasciato Vučjak gravitano ancora, in gran parte, in Bihać e attorno a Bihać. Nel “Bira”, ossia nella grande fabbrica dismessa adattata a “campo” da IOM (International Organization for Migration O.N.U.) con fondi dell’Unione Europea, sono stati semplicemente creati nuovi posti per ricevere persone sicuramente provenienti da Vučjak.
Proprio per fare lo spazio necessario, il Social Cafè di Caritas Italiana, gestito con IPSIA (ONG italiana di ACLI) , è stato spostato in un altro punto di questa enorme fabbrica dismessa.
Dai media italiani che hanno riportato la notizia, l’operazione è stata presentata come sostanzialmente buona ed umanitaria. È vero?
Indubbiamente la situazione determinatasi a Vučjak, come ho detto, era insostenibile. Si doveva intervenire. Ma ancora una volta si sta spostando il problema da un posto all’altro senza alcuna vera soluzione politica. Si sta cercando soprattutto di aggirare le proteste della popolazione di Bihać e della popolazione della Bosnia ed Erzegovina in genere che, evidentemente, ha già i suoi problemi. Questo modo di procedere non è in grado tuttavia di produrre risultati sensibili, specie in una prospettiva di medio periodo.
Ora la città di Bihać è di nuovo nella stessa condizione di un anno fa d’inverno. Il campo “Bira” è popolato da oltre 2.000 migranti. Dovrebbero essere tutti uomini. In realtà ci sono anche famiglie e minori. È certamente un posto coperto, collegato alle reti dell’acqua e della energia elettrica, con grandi tende e container posti sotto un tetto altissimo. I pasti vengono serviti, con enorme ed encomiabile sforzo, dalla Croce Rossa locale. I servizi di lavanderia, per un po’ di igiene personale, sono forniti dalla Caritas della Diocesi (cattolica) di Banja Luka. Caritas ed IPSIA offrono un punto di aggregazione e socializzazione nel Social Café, oltre ad altri servizi elementari d’intesa con Croce Rossa.
Ma il “Bira” resta un posto di per sé inospitale e oscuro in tutti i sensi: chiuso da pesanti cancelli, sorvegliato dalla polizia; si entra e si esce solo col permesso. Non mi sembra proprio il caso di far passare questa realtà come una grande operazione umanitaria realizzata dall’Europa e dalle autorità locali.
Ci troviamo nella stessa grande contraddizione: da una parte l’Europa effettivamente finanzia quel minimo di assistenza che consente ai migranti “ricoverati” di non morire di freddo e di fame, dall’altra parte, la stessa Europa, finanzia le polizie dei Paesi europei – in questo caso la polizia della Croazia che mostra di non andare certo per il sottile – per respingere e impedire l’ingresso dei migranti in Europa, senza null’altro mettere in campo in termini di visione e di strategia politica.
Un’ultima domanda, Daniele: come si svilupperà l’impegno di Caritas sulla rotta balcanica in questo genere di situazione?
La nuova emergenza determinata dal disastroso terremoto dell’Albania sta “stirando” ulteriormente le energie umane e le risorse di Caritas Italiana, col concorso di Diocesi italiane, in un impegno in più direzioni e in più progetti nei paesi dei Balcani. Certamente resterà il nostro impegno sulla rotta dei migranti. La via di sviluppo facilmente individuata è, anche in questo caso, tradizionale e, nello stesso tempo, sempre nuova e propria della Caritas della Chiesa: stare accanto alle persone migranti offrendo certamente qualche genere di conforto ma soprattutto offrendo loro opportunità di aggregazione e di dialogo.
Lungo una rotta così lunga e dura, in posti come quelli di cui ho parlato, la cosa più importante è conservare una buona umanità.