Venerdì 4 marzo, una settimana dopo l’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, Belgrado si è distinta come prima città europea ad aver ospitato una manifestazione pro-Russia. Il giorno successivo si è tenuta una manifestazione di segno opposto.
Pochi giorni dopo, in Bosnia Erzegovina, si sono svolte due manifestazioni di rilievo. Una a Tuzla: cinquemila persone in marcia per la libertà dell’Ucraina. L’altra a Banja Luka: un centinaio di manifestanti accompagnati dai Lupi della notte, il gruppo di bikers vicini a Putin noti per il loro attivismo in varie parti d’Europa. Il 15 marzo, diversi veicoli dell’EUFOR sono entrati a Banja Luka e hanno sostato alcuni minuti di fronte al palazzo della televisione pubblica.
Il tutto mentre due elicotteri sorvolavano la città. Una dimostrazione di presenza sul campo a sancire il fatto che, due settimane prima, la forza di sicurezza e deterrenza dell’Unione Europea aveva deciso di potenziare la sua presenza nel paese con l’aggiunta di cinquecento soldati.
Media polarizzati
È un fatto che in questa parte del mondo una certa destra nazionalista e revanscista sia la forza politicamente più rumorosa della popolazione. I governi non possono certamente ignorare quelle piazze, specie in un anno che è elettorale sia per la Serbia (3 aprile) che per la Bosnia (2 ottobre).
Eppure, quando è venuto il momento di votare la condanna ONU dell’invasione dell’Ucraina, la Serbia si è unita ai 141 paesi che han votato a favore. E lo stesso ha fatto la Bosnia, nonostante il parere contrario del membro serbo della presidenza tripartita, Milorad Dodik. La scelta si è ripetuta il 24 marzo, quando Serbia e Bosnia hanno votato a favore della risoluzione sulle «conseguenze umanitarie dell’aggressione contro l’Ucraina», avallando peraltro un giro di frase certamente non gradito alla Russia. Se i governi si sono dunque mossi in direzione contraria agli interessi del Cremlino, almeno a parole, i media hanno messo in evidenza tutta la divisione che esiste nella società, sia in Serbia che nella Republika Srpska, l’entità serba della Bosnia Erzegovina.
Dallo scoppio della guerra, i media serbi si son polarizzati. Da un lato, le testate filogovernative, che ospitano editoriali in cui si descrive l’occidente come razzista e imperialista fin dal Medio Evo, oppure pubblicano veline del governo russo, come la notizia del presunto ritrovamento di documenti segreti ucraini riguardanti il progetto di un’offensiva militare in Donbass.
Dall’altro lato, un quotidiano come Vreme si chiede perché mai i serbi debbano prendere le parti di Putin, evidenziando sostanziali differenze fra la crisi ucraina e quella del Kosovo. In Republika Srpska, Nezavisne, da tempo riconosciuta voce del governo, ha dato ampio spazio alla posizione di Milorad Dodik, che nei primi giorni del conflitto si è scagliato contro le sanzioni alla Russia aggiungendo che la RS non avrebbe mai partecipato al clima anti russo fomentato dall’Occidente, un tema ripreso proprio in questi giorni anche da Putin.
Buka, rivista di opposizione, ha invece ospitato una lunga intervista a un noto linguista americano che, pur essendo vicino alla Russia dal punto di vista accademico e personale, ha inequivocabilmente condannato l’invasione mettendo in guardia dall’involuzione totalitaria intrapresa dal regime di Mosca.
Serbia: tra Russia e UE
Queste posizioni danno voce a forze contrapposte sia sul piano economico sia su quello ideologico. Cominciamo dal primo. L’economia serba è fortemente dipendente dal gas russo, che riceve a prezzi di favore. Oltre a ciò, la Serbia ospita sul suo territorio numerose imprese russe, fra cui Gazprom, Sberbank e Sputniknews, un conglomerato mediatico che ha buon gioco nel diffondere la visione del Cremlino presso ampie fasce della popolazione che, dai tempi dell’intervento NATO in Kosovo, covano un forte risentimento verso la comunità internazionale e sono sensibili alla retorica del vittimismo.
I bombardamenti su Belgrado e Kragujevac del 1999 sono ancora percepiti da molti come nient’altro che un’arbitraria aggressione contro uno stato sovrano e i suoi interessi. E poiché in quell’occasione la Russia prese le parti della Serbia, per la maggioranza dei serbi è inconcepibile oggi voltare le spalle all’antico alleato.
Al tempo stesso, però, la Serbia si trova nel pieno del processo di adesione all’Unione Europea da cui riceve assistenza finanziaria per miliardi di euro. In evidente imbarazzo e con le elezioni alle porte, il governo serbo ha deciso dunque di unirsi alla mozione di condanna dell’ONU e tirarsi fuori dalla politica delle sanzioni.
Un modo per non scontentare apparentemente nessuno, ma che in effetti va in direzione della Russia. Belgrado è diventata così l’unico scalo del continente ancora collegato con Mosca. E in questi giorni Vučić preme per rinnovare il contratto per la fornitura di gas prima che i prezzi salgano alle stelle.
Complessità bosniaca
In Bosnia le cose sono più complicate. A Medjugorje sono stati organizzati centri di accoglienza per i profughi già da inizio marzo e la comunità bosgnacca ha reagito con forza allo scenario ucraino chiedendo di accelerare i processi di integrazione europea e di ingresso nella NATO. Ma alla neutralità rivendicata da Dodik si è aggiunta quella di Dragan Čović, leader del partito nazionalista croato-bosniaco.
Serbi e croati di Bosnia sono uniti in questi mesi in una battaglia contro la riforma del sistema elettorale che, contrariamente a quanto avvenuto finora, permetterebbe agli elettori di votare per qualunque candidato alla presidenza invece di scegliere soltanto fra quelli della propria comunità nazionale.
Ciò potrebbe avere l’effetto di sbilanciare la presidenza in favore dei bosniacchi, che costituiscono la maggioranza della popolazione, o di candidati contrari alla logica etno-nazionalista che ha prevalso finora. La riforma, in questo momento, è in stallo e rischia di compromettere lo svolgimento delle elezioni di ottobre.
Sinistre somiglianze
Come è stato già rilevato da più parti, le tensioni che han portato alla guerra fra Russia e Ucraina presentano sinistre somiglianze con quelle che affliggono i Balcani occidentali dalla fine degli anni Novanta. E qui la questione acquista un grado di complicazione ulteriore.
Da un lato, la Russia ha spesso evocato il Kosovo per giustificare l’annessione della Crimea, sostenendo che, attraverso il riconoscimento del Kosovo, i paesi occidentali avrebbero stabilito un precedente che legittima le dichiarazioni unilaterali di indipendenza di altri territori. E tuttavia la Russia si è sempre detta contraria all’indipendenza del Kosovo. Per il primo ministro kosovaro Albin Kurti, Putin avrebbe addirittura interesse a creare un secondo fronte nei Balcani così da dimostrare al mondo che il successo della NATO in Kosovo è stato solo temporaneo, come in Irak e in Afganistan.
Se guardiamo alla Bosnia-Erzegovina, salta agli occhi come la divisione etnico-politica di questo paese somiglia molto a quella che si è venuta a creare in Ucraina dopo il 2014. Il leader serbo-bosniaco Dodik è noto per le sue istanze separatiste e continua a ripetere che Serbia e Republika Srpska sono una cosa sola.
Il «mondo serbo»
In questo gli fa eco il ministro dell’interno serbo Aleksandar Vulin. Lo stesso che a dicembre dello scorso anno ha sottoscritto con Nikolaj Patrushev, Segretario del Consiglio di Sicurezza della Russia, un patto per la creazione di un non meglio precisato «gruppo di lavoro per la prevenzione delle rivoluzioni colorate», locuzione usata nei paesi autoritari per indicare le rivolte di piazza di segno filo-occidentale.
Lo stesso Vulin ha lanciato due anni fa l’idea di un «mondo serbo» (srpski svijet) rifacendosi alla dottrina della «pace russa» usata oggi da Putin fra le giustificazioni dell’attacco in Ucraina.
L’idea è che la Serbia abbia diritto a tutelare gli interessi dei serbi in tutti i territori confinanti, anche usando le armi. In Bosnia ciò significa ostacolare l’adesione del paese alla NATO per impedire, tra le altre cose, che i serbo-bosniaci si scoprano un giorno avversari della Serbia, un esito in effetti paradossale.
Polveriera d’Europa
Per altro verso, in Bosnia i processi di riforma istituzionale e costituzionale in linea con gli standard europei sono fermi. In Kosovo la questione tocca addirittura aspetti umanitari, perché i serbi rimasti in loco sono effettivamente esposti a un governo apertamente ostile alla Serbia e da anni lamentano discriminazioni e persecuzioni.
Da ultimo, il divieto di votare per le elezioni serbe del 3 aprile dall’interno del territorio kosovaro. Dal punto di vista della maturità democratica, Bosnia e Kosovo, nonostante i progressi fatti, non sono affatto paragonabili all’Ucraina di oggi. Il che rende più difficile per la popolazione serba smascherare una retorica come quella del srpski svijet e riconoscerla per quella che è, non già un progetto di tutela delle minoranze, ma una reazione a un eventuale pericolo di contagio democratico.
Che i Balcani siano la polveriera d’Europa è ormai un modo di dire da almeno cent’anni. Per restare nella metafora, oggi molti stan giocando col fuoco. La guerra in Ucraina si sta rivelando un evento cruciale per il futuro dei Balcani. Il suo esito ci dirà cosa può succedere in questa parte d’Europa nei prossimi anni. Forse mesi.