Nonostante la repressione sempre più violenta, le manifestazioni di protesta in Bielorussia continuano. Difficile prevedere un cambio di regime, vista la disponibilità di Aleksandr Lukaschenko di garantirsi il potere cedendo alle pressioni del protettore Vladimir Putin sulla creazione di basi militari russe nel paese e sull’avvio di una moneta unica, primo passaggio per una unione fiscale, doganale ed energetica fra i due paesi.
In parallelo ai processi politici si avverte l’avvio di una divergenza fra le due Chiese cristiane: l’ortodossa di obbedienza russa, che coinvolge la metà del 9,5 milioni di abitanti, e quella cattolica, attiva nelle aree più occidentali che raccoglie il 15% circa della popolazione.
Dopo decenni di pacifica convivenza grazie a condivise pratiche ecumeniche e nonostante la scelta comune di una qualche neutralità nel conflitto del paese e del convergente appello alla pace e alla nonviolenza, la Chiesa ortodossa appare come sempre più schierata a favore dello status quo, mentre quella cattolica interpreta con più coraggio le domande di democrazia e di rispetto dei diritti umani delle piazze. Divergenza che la comunicazione filogovernativa alimenta ad arte per isolare e contenere la contestazione (cf. SettimanaNews: Putin, il convitato di pietra).
Neutrali?
La decisione del sinodo di Mosca di sostituire il metropolita Pavel, di ceppo russo e troppo esposto a favore di Lukaschenko, con il metropolita Beniamin di Borisov, di appartenenza bielorussa e di formazione monastica, permette al sinodo locale una posizione di distanza dalle piazze e di non identificazione col governo, che conferma lo statuto speciale riconosciuto alla Chiesa ortodossa e il suo diritto di intervenire su ambiti di interesse pubblico come la scuola o la prevenzione della criminalità.
Posizione meno neutrale di quanto possa apparire, come ha detto la blogger Natalia Vasilević. Ricordando il silenzio sulla frode elettorale del 9 agosto scorso (Lukaschenko ha assicurato di aver ottenuto l’80% dei suffragi) e la denuncia della violenza a responsabilità condivisa fra manifestanti e polizia antisommossa, ha assunto «una posizione tutt’altro che apolitica o neutrale». Ha impedito al suo personale di esporsi nella campagna «gli ortodossi non falsificano (il voto)» avviata dopo quella «i cattolici non falsificano» indirizzata a quanti controllavano il voto durante le elezioni.
Al profilo monastico, spirituale e filo-russo del metropolita Beniamin si affianca il rapporto politico molto intenso del suo collaboratore, il prete Fyodor Povny, noto per i suoi stretti contatti con il presidente della repubblica.
È emblematico l’episodio che riguarda l’abbadessa Gavriila Glukhova, del monastero Theotokos di Grodno. La monaca ha partecipato al forum delle donne, organizzato dal governo per contrapporlo alle manifestazioni pubbliche volute e guidate dalle donne (Minsk, 17 settembre).
Fra le migliaia di donne portate da ogni angolo del paese nella capitale a sostenere il capo politico e in attesa del concerto del cantante melodico Nikolaj Baskov, l’abbadessa si è scagliata contro gli oppositori e i manifestanti, indicandoli come una «folla di idioti» che, «come un gregge impazzito, alza slogan demoniaci in tutta la città». Posizioni che l’interessata ha qualche ora dopo spiegato come nate dall’emozione e dall’inquietudine per la sorte del paese, chiedendo perdono a quanti si sono sentiti offesi.
Anche per la Bielorussia funziona lo spauracchio dell’autocefalia che una parte della Chiesa ortodossa locale chiederebbe, soprattutto nel caso (improbabile) che la nazione uscisse dall’ombrello russo.
Il metropolita Epifanio della Chiesa ortodossa autocefala di Ucraina ha commentato: «La Chiesa ortodossa della Bielorussia ha le stesse ragioni e il diritto (di quella ucraina) di richiedere un tomo di autocefalia alla Chiesa madre, se lo desidera».
L’archimandrita Hiorhiy Kovalenko, della stessa Chiesa, ha ricordato che una Chiesa autocefala bielorussa c’era nel 1922, costretta alle catacombe e all’emigrazione, di cui è rimasta una radice a New York: «Le fondamenta di un’indipendenza esistono, anche se poco strutturate».
Per il metropolita Beniamin, interrogato in proposito da una rete televisiva: «Questo tema è imposto dall’esterno. In Bielorussia non se ne sente affatto il bisogno».
Democrazia e diritti
La Chiesa cattolica non si è espressa sul tema della legittimità del voto, ma ha dato subito voce alla legittimità delle proteste di piazza, tanto da essere aspramente ammonita da Lukaschenko: «Fatevi gli affari vostri e ricordatevi che le Chiese sono per pregare e non per lavorare contro lo stato».
La minaccia si è tradotta in arresti e detenzioni per preti e fedeli e nella decisione di non permettere al vescovo metropolita, Tadeusz Kondrusiewicz, di rientrare nel paese dopo un viaggio in Polonia. Invocando un preteso controllo del passaporto, è ancora impedito di raggiungere la sua sede a Minsk.
Nonostante le proteste del segretario di stato, card. P. Parolin, della CCEE (l’organismo dei vescovi cattolici a livello europeo) e il desiderio del nuovo nunzio, mons. Ante Jozic, la questione non è ancora stata risolta.
Il governo indica i cattolici come antagonisti del potere. La Chiesa cattolica, che gode di una frequenza più consistente di quella ortodossa, si trova di fatto a interpretare la connessione tra fede e diritti umani. Una situazione – come ha notato Natalia Vasilević – che spinge ad ingrossare i numeri dei «gruppi di fede» a cui numerosi ortodossi chiedono di partecipare.
Tenta una mediazione preziosa mons. Antonio Mennini, ex-nunzio in Russia e conoscitore profondo della Chiesa ortodossa. Il 6 ottobre ha incontrato il metropolita Benjamin portando il saluto di papa Francesco, condividendo con il nuovo esarca l’augurio di una rinnovata collaborazione fra le Chiese per il bene del paese e l’auspicio di un rapido ritorno di mons. T. Kondrusiewicz alla sua sede di Minsk. La presenza all’incontro del ministro degli esteri, Sergei Aleinik conferma la rilevanza del momento.
La decisione dell’Unione Europea di non riconoscere la legittimità delle elezioni spingerà Lukaschenko all’abbraccio con Putin, alimentando i «sentimenti d’ingiustizia, d’indignazione e di collera» registrati dalla sociologa Ioulia Shukan fra le donne bielorusse, diventate la colonna portante dell’opposizione all’ultimo dittatore dell’Europa.