È difficile per me scrivere del Brasile, e questo per vari motivi. Il più ovvio è che molti, quotidianamente, parlano e scrivono della tragica malagestione del potere esecutivo: anticostituzionale, militarista, tutelata dalle forze armate, golpista, razzista, maschilista, omofobica, negazionista, terrapiattista, eugenetica, ecocida e genocida. Questo coro unanime e solidale, nell’indignazione e nella condanna, è per me sufficiente per scoraggiare ripetitive e inutili narrazioni.
Un motivo aggiuntivo è dato dal fatto che sono convinto che l’analisi delle congiunture sociopolitiche non può limitarsi all’elenco descrittivo di situazioni ed eventi, ma deve sempre evidenziare le sfide che i fatti fanno emergere e così orientare la prassi.
Una sinistra inconsistente
C’è tuttavia un altro motivo più profondo che mi impedisce di unire la mia voce alle voci della maggioranza ed è la difficoltà di riconciliarmi con la posizione della vecchia sinistra, che continua ad essere guidata solamente da interessi partitari ed elettorali, incapace di dovute autocritiche e rifugiata in una zona franca blindata, auto-elogiativa e vaccinata contro qualunque possibilità di dibattito.
Questi equivoci appaiono con chiarezza fin dal 2003, inizio della traiettoria governativa del Partito dei Lavoratori. Lula sposa indissolubilmente un progetto di neo-sviluppo che mostra già nel primo governo a conduzione Dilma di non essere altro che un equivoco e un’illusoria alternativa al neoliberismo. Si tratta insomma di un’elaborazione di intellettuali di partito che scommettono su un progetto ideologico-economico inconsistente e fantastico.
La fantasia, nel 2015, si rivela infine fallimentare e contribuisce alla destituzione di Dilma. L’impeachment, quindi, non è stato solamente un tradimento e un colpo basso di antichi “amici” a servizio dell’élite oligarchica e rentier. La verità è che la crisi economica e la disoccupazione, associate alla campagna anticorruzione del giudice Moro, hanno dissolto gli equilibri politici, nonostante Dilma e il Partito dei Lavoratori assumano sfacciatamente strategie neoliberali. La sinistra, però, ancora oggi, continua a riproporre, senza alcun accenno autocritico, la tesi che il golpe fu ordito per disfare un processo politico positivo.
La Costituzione
Inoltre, vale la pena ricordare che il processo di deterioramento dello stato di diritto e della crisi politica non sono fatti che marcano solo l’attualità. Possiamo sinteticamente ricordare che in Brasile, dopo i quattro anni della cosiddetta transizione democratica, al termine del ventennio della dittatura civile-militare, abbiamo assistito a un processo di modernizzazione della politica, di cui la Costituzione del 1988 costituisce il simbolo del ritorno allo stato di diritto e alla democrazia elettorale.
La Magna Carta riconosce i diritti emergenti, i nuovi diritti: diritti umani, dei fanciulli e degli adolescenti, dell’ambiente, degli indigeni, dei neri e dei contadini, diritti che si affermano a partire da domande collettive, costruite attraverso lotte sociali.
La Costituzione, però, è rimasta lettera morta, progressivamente tradita e dimenticata. Dal 1988 ad oggi, questo rinnovamento repubblicano, soprattutto nella sua fase iniziale, ha certamente prodotto alcuni progressi, per esempio nella relazione tra lo stato e i movimenti sociali rurali e urbani, ma sempre senza scalfire gli interessi del capitale e garantendo il mantenimento dell’establishment oligarchico e la struttura patrimonialista dello stato.
Questa infedeltà al dettato costituzionale caratterizza gli otto anni della presidenza di Fernando Henrique Cardoso, ma, sorprendentemente, si aggrava, durante i tredici anni di Lula e Dilma. Non si fanno le riforme strutturali necessarie (politica, tributaria, finanziaria, urbana, del potere giudiziario, dei mezzi di informazione…) e – questa è la peggior decisione – si dichiara obsoleta la necessità della Riforma Agraria, che viene ridotta a una politica sociale compensatoria, integrata al programma “Fame Zero”.
L’apparenza repubblicana
I danni di questo tradimento si fanno dolorosamente presenti anche nel processo di inserzione di leaders dei movimenti sociali, allineati o cooptati dal governo, per occupare spazi di mediazione in ministeri e uffici, nella Segreteria dei diritti umani, nella Segreteria della promozione dell’uguaglianza razziale ecc. Oltre a questo attacco frontale all’autonomia dei movimenti sociali, abbiamo assistito all’appoggio offerto al condominio di Brasilia dalle centrali sindacali e da movimenti sociali, precedentemente molto combattivi.
Sarà però nel 2013 che anche l’apparenza repubblicana e moderna della politica brasiliana sparirà irrimediabilmente e lo stato mostrerà infine il suo volto di sempre: elitista, razzista, schiavista e antipopolare.
Inconsistente è allora la tesi, per me falsa fin dall’inizio, di un governo disputato tra le élites e la cosiddetta sinistra. Nel giugno del 2013, la borghesia oligarchica e rentier si riappropria del potere statale, incorpora gli ultimi arrivati del Partito dei Lavoratori e del Partito Comunista del Brasile e obbliga Dilma, nel suo secondo mandato presidenziale, a sostenere una politica economica neoliberale, con cambiamenti legislativi che sottraggono i diritti conquistati dai lavoratori con le lotte del passato e che annullano, in evidente contrasto con la Costituzione, i diritti dei popoli indigeni, dei quilombolas neri e degli agricoltori.
Per il business, non per il paese
Stiamo attenti a non dimenticare le decisioni anteriori di Lula e di Dilma: la trasposizione del fiume São Francisco, le centrali idroelettriche di Estreito, Jirau, Santo Antônio, Belo Monte e Tapajós, sono realizzazioni che hanno violentemente aggredito biomi e territori tradizionali indigeni e contadini. Non dimentichiamo gli impatti sulle periferie urbane delle opere folli per organizzare il Campionato mondiale di calcio e le Olimpiadi di Rio de Janeiro. Ricordiamo anche la revisione del Codice Forestale e il dibattito sul nuovo Codice delle miniere, sanzionato dal presidente Temer nel 2018.
Continuando con i tradimenti, pensiamo all’inaugurazione, nel maggio del 2015, del Piano di sviluppo agrario e zootecnico del Matopiba, un regalo del Partito dei Lavoratori al latifondo dell’agribusiness, i cui effetti catastrofici sono oggi del tutto evidenti. Il Matopiba è un insieme di territori degli stati del Maranhão, Tocantins, Piauí, Bahia, coinvolge 337 municipi e 31 microregioni, per un totale di 73 milioni di ettari. Del totale di questa area, il 90,9% è costituito dal Cerrado, il 7,2% dall’Amazzonia, l’1,64% dalla Caatinga. In questo territorio si trovavano 745 appezzamenti agricoli, risultato di antiche lotte per la Riforma Agraria, 36 territori di comunità quilombolas e 35 terre popolate da indigeni.
È chiaro che non sto rinnegando gli elementi fondamentali delle posizioni di sinistra che si oppongono ai pregiudizi omicidi della nuova destra, ma intendo affermare che, se in queste posizioni non trovano posto obiettivi politici di lotta anti-sistemica contro lo sviluppo capitalista, con la ridefinizione dello stato e l’opzione per un’ecologia integrale, le battaglie in difesa dei diritti umani restano periferiche, inefficaci, ipocrite e senza futuro.
La pandemia
Con alcuni amici e amiche, anch’io in certi momenti della pandemia, sono arrivato ingenuamente a credere che il virus potesse offrirci, con la sua dura e dolorosa lezione, la possibilità di rivedere e di ricostruire il mondo con altri valori e con altri criteri. Con il passare dei giorni, però, coloro che auspicavano e desideravano il ritorno alla “normalità” si stanno rivelando assoluta maggioranza.
Riflettendo sul virus, avevo diviso il mondo tra i difensori del radicale cambiamento di rotta dell’Occidente e i sottomessi alla continuità come “normalità”. Questa dialettica, apparentemente, termina, ancora una volta, con la sconfitta dei sognatori. Apparentemente. Infatti, è comparso un imprevedibile “tre”: quando destra e sinistra sembrano affermare che, ovunque nell’Occidente tertium non datur, le moltitudini scendono in piazza dopo la morte di George Floyd in Minneapolis.
Ho ancora una speranza stupida, di quelle con la esse minuscola: che questa volta la vecchia sinistra non ripeta l’errore madornale di non capire – e persino di reprimere – un’affermazione politica popolare, come ha fatto quando era al governo, in perfetta sintonia con la vecchia destra, con le moltitudini brasiliane nel giugno del 2013.
- Flavio Lazzarin è prete fidei donum in Brasile nello stato del Maranhão.
Germogli di un tempo nuovo