Brexit, adesso è vero. E dopo?

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La Brexit sarà presto realtà. La parte di classe dirigente favorevole all’uscita dalla UE è riuscita a incanalare sotto un’unica bandiera i vari gruppi con una forte identità nazionale, avversi all’immigrazione e contrari a regole troppo intrusive (www.lavoce.info, 20 dicembre 2019).

Brexit

Incertezza finita

La netta vittoria di Boris Johnson mette fine alle recriminazioni (se una manciata di deputati laburisti non avesse nominato Jeremy Corbyn senza nessuna intenzione di votarlo, per “aprire il dibattito” con l’ala sinistra del partito, ora David Cameron andrebbe ai consigli delle UE con gli altri leader europei; se Corbyn e Jo Swinson fossero stati meno cocciuti, ora avremmo Corbyn o Ken Clarke a Downing Street a gestire i preliminari del secondo referendum; e così via) e chiude l’incertezza sulla Brexit che si aprì, inaspettata, con le elezioni di due anni fa.

Il 31 gennaio 2020 il Regno Unito uscirà dalla UE. Peraltro, la chiara vittoria permetterà a Johnson di ignorare le ali più estremiste del suo partito e la stampa eurofoba, sia perché non gli servono più i voti dei brexitisti duri, sia perché questi, a loro volta, non vorranno opporsi a un leader chiaramente popolare con l’elettorato.

Mentre le fortissime passioni si spengono nell’anticlimax del dopo elezioni, e può iniziare il processo di rappacificazione, può essere utile pensare a cosa vorrà dire la Brexit. Non tanto dal punto di vista dei 17 milioni di persone che hanno votato prima contro l’UE e poi a favore di chi prometteva di “fare la Brexit”, motivati da un’astratta opposizione a ogni cosa e persona che viene dall’altra sponda della Manica.

Quanto dalla prospettiva e dai motivi di quella parte di classe dirigente e intellettuale a favore della Brexit, senza dubbio una minoranza nel mondo culturale e accademico e nel settore produttivo, che però ha una presenza di spessore in Parlamento e nella stampa di prestigio di destra (dal Telegraph allo Spectator).

L’opposizione ragionata alla UE

Possiamo identificare tre ordini di motivi che giustificano l’opposizione “non emotiva” all’appartenenza all’UE.

Il principale è la contrarietà di principio alla continua convergenza politica dell’UE, con l’obiettivo finale, spesso esplicitamente dichiarato, della creazione di un’Europa federale. A motivarla è il rifiuto della centralizzazione statalista: le decisioni vanno prese il più vicino possibile a chi ne subirà le conseguenze. Se gli italiani non vogliono riconoscere il matrimonio gay e i tedeschi preferiscono che i negozi chiudano la domenica pomeriggio, non vi sono conseguenze di alcun tipo per i residenti inglesi, svedesi, polacchi e, quindi, questi non devono poter influenzare quelle che sono decisioni nazionali. L’élite intellettuale del Regno Unito ha fatto leva con successo sul forte senso di identità nazionale degli inglesi per costruire il consenso e far accettare la Brexit anche a chi è cosciente degli indubbi costi economici che la scelta imporrà alla nazione, così come i tedeschi dell’Ovest accettarono i costi dell’unificazione, come prezzo necessario per l’affermazione dell’identità nazionale.

Un secondo aspetto della Brexit è il maggior controllo dell’immigrazione. E su questo c’è una contraddizione di principio tra la posizione intellettuale liberista e quella dell’opposizione popolare alla Brexit. I primi sono nel complesso a favore di un aumento dell’immigrazione, ma preferiscono differenziare i potenziali immigranti sulla base della qualificazione e del potenziale economico, invece che sulla nazione di origine, come richiesto dall’UE: il principio è quello di trattare allo stesso modo gli scienziati americani e quelli tedeschi così come i braccianti agricoli cinesi e quelli rumeni. Molti di quelli che hanno votato tory per la promessa di get Brexit done vorrebbero invece chiudere le frontiere a tutti. I deputati tory si trovano quindi tra l’incudine dei loro elettori che vogliono fermare l’immigrazione e il martello dei settori produttivi che hanno bisogno di un mercato del lavoro competitivo e internazionale. Questi ultimi vinsero chiaramente quando il Regno Unito, l’Irlanda e la Svezia furono i soli paesi ad aprire subito le frontiere per i cittadini dei paesi dell’Est europeo nel 2002. Oggi non è chiaro come Johnson riuscirà a quadrare il cerchio, ma va ricordato che, ad esempio, si è a lungo opposto all’insistenza di Theresa May di considerare gli studenti stranieri come immigranti.

Una terza categoria di argomenti, fondata anch’essa su principi ispirati all’economia liberale, si oppone alla regolamentazione emanata dalle istituzioni europee, giudicata eccessiva, e alla tendenza all’armonizzazione fiscale. Anche qui l’élite liberista ha facilmente sfruttato l’opposizione emotiva sovranista all’imposizione di regole che sembrano assurde all’uomo della strada: dall’obbligo (inesistente) di un preciso grado di curvatura delle banane, a quello di usare il sistema decimale per pesi e misure nei banchi dei mercati locali (vero, e sfruttato magistralmente per attizzare il fuoco anti-europeo con la propaganda dei “martiri metrici”), al limite per la potenza delle aspirapolveri (vero). L’obiettivo degli ultra-liberisti è quello di creare una specie di super-Singapore nell’Atlantico del Nord: una vasta area di attività produttiva con poche regole e basse tasse. Il gruppo iper-liberista si trova però relativamente isolato, non è affatto ovvio che la maggioranza del paese sia contraria al principio di imporre regole, soprattutto quelle che difendono consumatori e lavoratori: uno dei pochi spettri che venne utilizzato con successo dagli anti-Brexit è quello degli standard alimentari degli USA. Anche per molti servizi finanziari le regole imposte dal Regno Unito sono più stringenti di quelle che vorrebbero altri paesi comunitari.

Visti i precedenti, non dovrei fare previsioni sul futuro: i negoziati cominceranno in febbraio e penso che verranno completati un pezzo alla volta, con molti trattati rinviati oltre il limite “invalicabile” del 31 dicembre. Ma l’obiettivo di medio periodo di questi intellettuali sarà senza dubbio allontanare progressivamente le regole e le istituzioni britanniche da quelle europee, anche per rendere proibitivamente difficile un futuro rientro del Regno Unito in Europa. La volontà del generale de Gaulle si realizzerà dopo 50 anni.

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