Uno dei problemi più gravi causati dal pensiero unico è quello di convincere molti che esista un solo modo di pensare. Può caderci soprattutto chi, come sovente accade agli occidentali, pensa che il suo modo di pensare sia il solo capace di leggere tutto. Questo è un guaio enorme, perché non è così.
Nel caso dell’Iran dovremmo sapere che siamo al cospetto di una teocrazia, comandata da una guida suprema che dispone di una sua milizia personale, i pasdaran. Questo implica che l’esercito non conta niente, conta solo la milizia privata del capo.
Questo breve riassunto ci presenta uno Stato double-face. Sopra l’apparato teocratico, quello che conta, sotto l’apparato repubblicano: il Presidente della Repubblica, il Parlamento, l’esercito: tutti poteri apparenti.
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Il 5 luglio è stato eletto il nuovo Presidente della Repubblica; se capiamo il sistema iraniano capiamo anche il valore di questa elezione: è la scelta del maggiordomo. Quando un nobile sceglie un maggiordomo non sceglie chi comanda in casa, sceglie il volto con cui riceverà i suoi ospiti. Un volto arcigno, un volto benevolo?
La grandezza politica dell’Iran teocratico oggi sta nella scelta del volto che ha scelto: un volto aperto, amichevole. Perché? Per prima cosa per acquietare il dissenso interno, enorme.
E poi: come lo Stato ha due livelli, anche la lettura ha due livelli, locale e globale. A livello globale Tehran sa che c’è voglia di cessate il fuoco. E sa che in Israele la politica dovrà venire a termini con l’esercito, che là conta e che spinge per fare una scelta di realtà.
A Tehran il cessate il fuoco interessa, ma non perché loro si curino degli arabi (di rito religioso diverso, loro musulmani sunniti, mentre a Tehran sono musulmani di rito sciita). Tehran lo accetta, ma per usarlo.
Per questo nelle ore in cui si votava hanno annunciato che Hamas e Hezbollah si consultavano proprio sul cessate il fuoco, come a dire che è tutto sotto il loro controllo. Il sistema che immaginano sarebbe capovolto rispetto a quello che vige a Tehran: Fuori si vedrebbe in Iraq come in Siria, in Libano, forse a Gaza (se c’è), uno Stato fallito e incapace, mentre sotto si rafforzerebbero poteri illegittimi, governati dalle milizie legate a Tehran.
Ecco che la presidenza del riformista Masoud Pezeshkian non riguarda lui, che non ha poteri e potrà anche essere un sincero riformista e una brava persona. Lui è un’immagine, il resto – Khameni, i Pasdaran e le milizie che occupano gli stati falliti – è la realtà sulla quale Pezeshkian non potrà incidere. Ma è un ottimo volto ufficiale, per complicare la vita non a sé stessi, ma agli altri.
Capire Tehran, per me, vuol dire accettarne il gioco, facendone un altro. Va benissimo il possibile cessate il fuoco – anche questo, purtroppo molto tardivo – ma per rafforzare gli Stati che non sono falliti, con aiuti occidentali a ricrearne la democratica efficienza. Ciò che difficilmente si farà.
Tutto questo già lo vediamo in tanti avvenimenti in corso, inquietanti a dir poco. L’accordo tra Assad e Erdogan, patrocinato da Putin, va benissimo a Teheran, che mira a consolidare lo “Stato di sotto” come dimostra l’incredibile eliminazione fisica a mezzo di incidente stradale di una delle più strette collaboratrici di Assad, Luna al Shibl, che avrebbe passato notizie iraniane ai russi. Assad andrà presto in Turchia, invitato da Erdogan, garante Putin, ma solo perché ha l’ok di Tehran, che vuole estendere il suo protettorato fino ai bordi dell’Anatolia.
Ma è in Libano che la partita si disvela. E tutto parte dal boicottaggio della visita del Segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin.
Il cardinale Pietro Parolin ha capito tutto del Libano, a partire dalla sindrome suicida di molti cristiani maroniti. Per questo ha puntato a ricreare lo Stato, cioè l’incontro tra tutte le comunità (il Libano è uno Stato multiconfessionale e così organizzato sulla spartizione confessionale). Ma all’incontro con lui il Presidente del Consiglio Supremo Sciita, esponente religioso, non un esponente di Hezbollah, non c’è andato. Questo gesto non è stato capito. Tutti avrebbero potuto rispondere unendosi nella richiesta di rifondare l‘unità plurale e chiedendo all’interlocutore se la rifiutasse. Non è andata così.
La scelta del leader sciita ha dunque significato la rottura del patto nazionale perché è emerso che la partizione cristiani-sunniti-sciiti non unisce più. Se il leader sciita lo ha messo sul tavolo molti cristiani hanno polemizzato con Parolin: basta sogni di unità, facciamo un Libano confederale, nel quale noi avremo il nostro piccolo ghetto. È il sogno identitario, un sogno assassino della convivialità, secondo me.
Lo scrivono da giorni, anche se solo a livello informale. Così il Libano sparisce, per scelta iraniana (mi sembra evidente che si parta di qui nel consolidamento dello stato miliziano di cui dicevo) e con l’accordo di molti cristiani. Dunque, le porte sono state chiuse. La guerra civile si può intravvedere. Non sarebbe difficile immaginare chi la vincerà. Per altro il leader di Hezbollah ha già detto «noi siamo di più». È vero. Ma il vivere insieme – il Libano multiconfessionale – non si fa a colpi di maggioranza, ma di reciproco rispetto. Quindi l’indicazione numerica è un programma per il futuro. Ci si può illudere che gli Stati Uniti non accetteranno lo scambio, pensando di rasserenare l’intera regione?